Negli ultimi tre anni nei miei numerosi incontri Sacerdoti si soffermava a riassumere certi passaggi importanti della sua esperienza, via via ho capito che oltre che lasciarmi i suoi scritti intendeva lasciarmi anche una sua autobiografia che oggi tento di presentarvi nella consapevolezza che avrà bisogno di un tassello importante che ognuno di Voi che lo ha conosciuto potrà aggiungere per completarla.
Introduzione
Quando si parla di psichiatria, ritorna sempre l’ombra del manicomio. Vorrei iniziare questa mia relazione ricordando – lo ha fatto anche Spadoni recentemente – che Sacerdoti spesso sottolineava che non tutti gli Ospedali Psichiatrici erano manicomi. Spadoni continua affermando che, peraltro,
“Per ricreare il manicomio non è necessario tornare in edifici cadenti con miseri arredi: è sufficiente che in un reparto di lusso un malato di mente spaventato a morte non venga ascoltato e lo si sorvegli a distanza con la telecamera.”
Insomma, per non scivolare nel manicomio reale bisogna condurre una battaglia quotidiana, oggi come ieri, contro il degrado, contro la tentazione dell’evitamento del contagio della sofferenza psicotica, contro la burocratizzazione disumana dell’impegno terapeutico.
Sacerdoti – che oggi ricordiamo – apparteneva alla generazione di psichiatri-psicoanalisti che lavorò fin dai primi anni Cinquanta per trasformare i grandi manicomi del dopoguerra in piccoli efficienti ospedali inseriti in reti di servizi. Questa opera era culminata nella promulgazione (12 febbraio 1968 n° 132) della Legge di riforma dei Servizi psichiatrici, che prese il nome dal ministro socialista Mariotti che l’aveva elaborata dopo lunghissime discussioni con medici e sindacati. Questa legge, di cui mai si parla – come ricorda Spadoni – , conteneva importanti e decisive innovazioni e là dove fu tempestivamente e rigorosamente attuata, consentì di mutare il volto tetro del manicomio. Cominciarono i ricoveri volontari, suscettibili di concludersi con la dimissione in tempi realistici. Venne introdotta la psicoterapia psicoanalitica, individuale e di gruppo, sia negli ambulatori (totalmente gratuiti e ad assistenza diretta, senza necessità di impegnative mutualistiche) che nei reparti, e con questa innovazione vennero privilegiati l’ascolto e la relazione rispetto al trattamento farmacologico massiccio che favorisce, dove viene applicato isolatamente, solo l’evitamento della persona ammalata.
Si istituirono reparti di cure intensive con le modalità del Day Hospital e del Night Hospital. Si poté cercare di ricreare un legame fra personale curante e famiglie dei pazienti. Legame che facilitò molto la collaborazione nelle terapie, nei ricoveri e, soprattutto, nelle dimissioni. Molti ricoveri vennero evitati e le degenze si fecero più brevi, lo stretto necessario per potere continuare la terapia in un centro adeguato (come vedremo, ad es. a palazzo Boldù) o presso gli ambulatori presenti nei vari quartieri dove il paziente trovava lo stesso medico che l’aveva seguito durante il ricovero in O.P.
Grande catalizzatore di questi cambiamenti – nota Spadoni – era stata, da una parte, la sintesi e la distribuzione dei primi farmaci antipsicotici e, dall’altra, la diffusione della cultura psicoanalitica, che permetteva di utilizzare l’attenuazione farmacologica dei sintomi per istituire delle vere relazioni terapeutiche.
L’opera di Sacerdoti si situa in questo contesto storico. Cercherò di mostrare sia alcuni aspetti importanti del pensiero di Giorgio Sacerdoti nei confronti del rapporto tra psicoanalisi e psichiatria, sia alcune riflessioni che egli fece nei confronti del movimento ‘antipsichiatrico’ che in quegli anni fece le sue prime esperienze e che portò poi alla approvazione della famosa legge ‘180’.
Sacerdoti fu infatti uno dei principali esponenti di una linea culturale e scientifica che ebbe importanti effetti ‘pratici’ sull’assistenza psichiatrica e che a Venezia produsse una profonda modifica istituzionale, a cominciare anche dalla formazione del personale.
Molti medici dell’O.P. di Venezia, ad esempio, si erano orientati ad intraprendere l’analisi personale, come scelta d’elezione per completare la propria formazione professionale .
Ma, quando ormai la trasformazione dell’assistenza psichiatrica si era avviata e l’ospedale si stava avviando a diventare uno dei nuclei di una complessa rete di servizi che si sviluppava senza scissioni fra interno ed esterno, a partire dalla garanzia che le terapie ambulatoriali venivano effettuate dallo stesso personale che s’era occupato della cura ospedaliera, a questo punto sulle spalle poco protette politicamente del personale medico e paramedico si abbatté lo tsunami della contestazione antipsichiatrica.
Vedremo quali riflessioni , lungo l’opera scientifica di Sacerdoti, siano venute a maturarsi in relazione ad eventi, ideologie, modificazioni di strutture che sono ancor oggi presenti – anche se ovviamente man mano differenziati – nel contesto culturale politico e sanitario del nostro paese.
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Come ricorda Semi ,nell’introduzione del volume degli scritti di Sacerdoti ,”un filo che va riconosciuto è quello che va dallo studio della negazione a quello del diniego, difese che Sacerdoti ha indagato in vario modo e in vari contesti, sempre avendo ben presente che la negazione o il diniego di una parte è finalizzata a impedire di cogliere il tutto o almeno l’esigenza di considerare il tutto”.
E’ interessante notare come questa considerazione psicoanalitica riguardo le difese nei confronti della malattia mentale starà non solo alla base di una riflessione teorica approfondita sulle sue conseguenze umane e scientifiche, ma diventerà anche il motore delle iniziative di carattere organizzativo e clinico del professor Sacerdoti.
Già al Congresso Mondiale di Psichiatria a Madrid ( 1966), egli fa vedere come la negazione, in questo caso la negazione della malattia mentale, abbia come effetto da un lato di negare la complessità della condizione umana ( e degli studi che cercano di indagarla – come la psicoanalisi) dall’altro di assolutizzare determinati punti di vista ( ad es. quelli sociogenetici) provocando una visione deterministica dell’essere umano che di fatto lo annulla, riducendolo ad una conseguenza inevitabile di meccanismi sociali.
Sacerdoti ricorda a questo proposito, appunto, che una delle reazioni più comuni al disturbo psichico è il diniego e afferma che :“Di conseguenza lo studio del diniego della malattia mentale può essere utile per sviluppare una struttura di assistenza psichiatrica più realistica.”
Il termine diniego – ricorda – è stato usato in senso più generico per riferirsi anche al blocco della consapevolezza della realtà interna ( ad es. desideri,impulsi, affetti, ecc.).
Sembra che il diniego della malattia mentale possa essere meglio studiato attribuendo al diniego questo ultimo significato.
“Il diniego sembra essere diretto innanzi tutto contro l’accettazione emotiva di una percezione disturbante e dolorosa che può produrre angoscia : è essenzialmente una questione di percezione endopsichica ( o di realtà psichica) ; ma in aggiunta ci sono elementi che appartengono alla percezione della realtà esterna, vale a dire della reazione della società ( psichiatri inclusi) al riconoscimento della malattia mentale.”
Sacerdoti ricordando che è stato dimostrato anche sperimentalmente come il diniego della malattia dipenda dall’atteggiamento dell’esaminatore osserva come sembra costituirsi un nesso con il modo in cui viene affrontata la semeiotica psichiatrica, vale a dire ricordando che si tratta di una realtà dialettica, espressione al tempo stesso dell’invasione della malattia, della difesa contro la malattia, dello sforzo del soggetto per distanziarsene e oggettivarla.
E’ proprio questa ambiguità , sottolinea, che offre al medico la scelta tra due possibilità :
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aiutare il soggetto, attraverso l’empatia e l’identificazione, assumendo su di sé ruoli e “imago”, in modo che egli sia in grado di vivere le sue angosce e le sue difese, di riconoscerle e di arrivare infine ( come nel trattamento psicoanalitico) all’oggettivazione del disturbo
-
rafforzare le difese del soggetto, andando nella medesima direzione da lui suggerita, il che in molti casi passa per il diniego
Probabilmente, fa presente Sacerdoti, è come dice Daumezon (1964) : “ le psichiatre n’est jamais, memes dans les formes les plus avancées de la psychothérapie, che le truchement (tramite)des modes d’adaptation correspondants à chaque structure sociale ».
E continua osservando che ciò sembra particolarmente vero nel caso dell’ospitalizzazione psichiatrica, nella cui psicodinamica il diniego della malattia mentale gioca forse il suo massimo ruolo ; sembra anche che per il soggetto vi sia un bisogno implicito di portare il problema individuale su un piano sociale, in modo che il problema possa trovare una sua espressione attraverso la simbolizzazione della società :
“L’ospitalizzazione tradizionale può dunque essere, per la società, l’accettazione di ciò che il soggetto chiede ( facendo effettivamente il gioco del soggetto ).
Il ruolo delle istituzioni mentali diventerebbe semplicemente quello di aiutare il soggetto a mascherare ( cioè negare) il significato profondo del suo comportamento e dei suoi “sintomi”.”
Infine ricorda come i rapporti tra diniego e aiuto psichiatrico possono essere investigati da un punto di vista generale :
da un punto di vista storico sembra che ciascun momento storico-culturale abbia posto l’accento su un particolare aspetto della malattia mentale; e in genere questo aspetto, o schema referenziale, esclude mutuamente, vale a dire nega, gli altri aspetti.
E aggiunge :“E’ interessante notare come il modello psicologico freudiano della personalità, che è il più comprensivo , sia stato sottoposto da vari autori a modificazioni che sono in realtà forme di diniego di questo o quello dei suoi aspetti essenziali.
E sempre restando dal punto di vista storico-culturale bisogna porsi, con Pontalis (1965), le seguenti domande :
“La cultura offre qualcosa di più di una collezione di segni in cui ogni essere umano deve collocare se stesso ? E non è il caso di parlare di acquiescenza “culturale” quando questa o quella organizzazione o pratica sociale sembra favorire una risposta patologica o , al contrario, proibire un’espressione privata ( nello stesso modo in cui certi gruppi religiosi o politici diventano il punto di fissazione di un’illusione) ?.
E’ per questo che, quando confrontiamo la “patologia della libertà” nella società ( cioè la limitazione della libertà individuale ben oltre il necessario) con la “patologia della libertà” nell’individuo ( cioè la malattia mentale), troviamo una riduzione apparente delle manifestazioni di quest’ultima, assieme ad una accentuazione della prima.
Non è inoltre un caso che l’organizzazione psichiatrica più “matura”, con un minimo di diniego, sia reperibile in quei paesi in cui la “patologia della libertà” nella società è minore ( le vere democrazie), così come le organizzazioni più “immature”, con un massimo di diniego, siano invece reperibili in quei paesi che hanno la più alta “patologia della libertà” ( i regimi totalitari o quelli democratici altamente incompleti). “
Su questa linea di pensiero Sacerdoti analizza ad es. , tra le istituzioni psichiatriche , le comunità terapeutiche .
Queste sono probabilmente – dice – il tipo di assistenza che meglio risponde alla domanda dei soggetti nella società contemporanea e ai bisogni difensivi della società.
Ma proprio per questa ragione bisogna sottolineare – nota Sacerdoti – che la comunità terapeutica in se stessa non può che essere una fase preparatoria rispetto al trattamento di problemi psicologici profondi.
Altrimenti , continua, c’è il rischio che una fase preliminare della terapia possa essere presa per una cura, mascherando così ( cioè di nuovo negando) i veri bisogni terapeutici.
Ricorda come Rapaport ha criticato la comunità terapeutica di Jones in base al fatto che essa diventava a tal punto una subcultura separata deviante che i pazienti che meglio si adattavano all’ospedale erano quelli meno in grado di adattarsi agli standard della comunità esterna.
Sacerdoti era divenuto Direttore dei Servizi psichiatrici di Venezia-Centro Storico, nei quali era già primario, nel 1969.
Semi osserva che, anche in questo ruolo, Sacerdoti mise in pratica la sua riflessione sulla negazione e quindi non negò le differenze esistenti tra la psichiatria e la psicoanalisi ma considerò questi come due poli esperienziali – prima ancora che di pensiero – tra i quali bisognava favorire i transiti e studiare le modalità di reciproco influenzamento, evitando però quelle condizioni di “ contrabbando” nelle quali il passaggio da una esperienza all’altra avviene senza pagare il prezzo di un lavoro psichico certamente difficile ma anche interessantissimo.
Non esiste – nel pensiero anche oggi attualissimo di Giorgio Sacerdoti – la possibilità di trasferire meccanicamente le acquisizioni di un campo all’altro.
Il rischio – come metterà in luce nei suoi lavori – è quello di creare altrimenti delle caricature del pensiero psicoanalitico o dell’esperienza psichiatrica o, peggio, di quella terribile condizione umana che è la psicosi.
Per molti analisti il rischio è quello di indulgere in un collusivo “ embrassons nous “.
“Ciò è quanto accade soprattutto con i rappresentanti dell’ “antipsichiatria”.
Termini quali “psichiatria democratica” o certa “psichiatria dinamica” si rivelano sottesi da un rovesciamento nel contrario,più di 20 anni fa ( 1971 ) avevo dimostrato come nel caso della “istituzione negata” (Basaglia) si trattasse piuttosto di “ negazione istituzionalizzata “.
Ma anche all’estero – sottolinea Sacerdoti nell’1989 – le immagini suscitate dagli slogan denegatori si vanno appannando.
E sottolinea : “Recentemente Jones e Poletti ( 1986) hanno scritto : “ Per molto del nostro tempo in Italia, siamo rimasti mistificati dall’insistenza di Psichiatria Democratica sulla chiusura dell’ospedale psichiatrico, quando era patentemente ovvio che gli ospedali psichiatrici non venivano chiusi (…) e che cambiamenti di nomenclatura e ridisegnamento dei confini amministrativi non risolvono i problemi dei pazienti”. In sostanza giudicarono la chiusura un bluff.”
L’attenzione di Sacerdoti si concentrò spesso sul lavoro degli psicoanalisti nelle istituzioni psichiatriche, perché riteneva di poter comprendere maggiormente questi aspetti del rapporto psicoanalisi/psichiatria. Per questo, si chiede come sia stato possibile che molti analisti abbiano collaborato attivamente e senza una chiara consapevolezza di ciò che è stato sopra menzionato, lavorando in effetti spesso come parte del gioco demagogico, esattamente in coincidenza con questa tendenza “socio-psichiatrica” ?
Credo che possa essere stimolante cercare di avanzare qualche tentativo di risposta a questo interrogativo.”
E continua : “Come molti altri analisti della seconda generazione io ebbi la chance di poter osservare dall’interno sia lo sviluppo della psichiatria che quello della psicoanalisi durante un periodo molto importante.
Durante gli anni ’50 e ’60, esse si mossero in direzioni differenti.
Durante questo periodo, il mondo psichiatrico, o una larga parte di esso, si estese per così dire enormemente.
La sua estensione, tuttavia, si verificò in una maniera che era, in qualche misura, paranoide, e ciò – come già menzionato – nell’ambito di una illusione sostanzialmente demagogica e con la collusione di gran parte dell’establishment politico.
E comparve una convergenza fra il mondo psicoanalitico e quello psichiatrico.
In ogni caso ci fu il passaggio da una radicale divergenza psichiatrico-psicoanalitica a una apparente convergenza.
Chi aveva assimilato chi ?E secondo la modalità introiettiva o proiettiva ? O forse può essersi trattato di integrazione ?”
E Sacerdoti prosegue constatando che “Durante gli anni sessanta e poi maggiormente durante i settanta, i cambiamenti nell’assistenza psichiatrica condussero da una parte ad un esodo degli analisti dalle istituzioni psichiatriche, dall’altra, ad una loro “assimilazione” nelle stesse istituzioni.”
Sulla ambiguità di tale assimilazione e sulla necessità di distinguere almeno due tipi diversi Sacerdoti si soffermerà in un lavoro nodale (1987). : nel quale distingue una assimilazione proiettiva ( nella quale le parti dell’oggetto diventano simili a sé) e una assimilazione introiettiva.
Quest’ultima è possibile solo dopo che il soggetto ha costruito per se stesso un’immagine dell’altro più simile ( non identica) alla propria immagine di sé.
D’altra parte se la identificazione proiettiva (assimilazione proiettiva) fosse totale non rimarrebbe più per la persona la possibilità di introiettare qualcosa di differente da sé.
E’ evidente di quale assimilazione si sia trattato da parte delle istituzioni anti-psichiatriche nei confronti della psicoanalisi e degli psicoanalisti. Però, come sempre, Sacerdoti è critico in tutte le direzioni e perciò afferma che l’esodo sopra menzionato non ha certo condotto alcun analista alla Terra Promessa e che viceversa , l’assimilazione ( o una varietà di essa) potè favorire – sotto l’apparenza di lavoro altamente umanitario – quelle collusioni contro le quali Freud (1918) aveva messo in guardia.
In particolare egli aveva sottolineato una radice istituzionale e le aveva connotate come “errori economici “. “Ogni analista che dal profondo del suo cuore e forse della sua prontezza ad aiutare, offre al paziente tutto ciò che un essere umano può sperare di ricevere da un altro, commette lo stesso errore economico di quello di cui sono colpevoli le nostre istituzioni non analitiche per pazienti nervosi”.
Ciò può accadere – osserva Sacerdoti – in maniera in apparente, in special modo con pazienti che sono particolarmente abili nell’area della “identificazione proiettiva”(v.Heimann, 1977).
Così gli analisti possono finire per prestare un “terzo orecchio” che è allo stesso tempo sordastro e iper-recettivo , incoraggiando, come fa notare la Heimann, delle “invasioni” da parte dei loro pazienti.
E sottolinea come le ideologie socio-psichiatriche del tipo dell’anti-psichiatria italiana, che furono largamente condivise dalla “pubblica opinione” fino a pochi anni fa , hanno favorito la riviviscenza di difese e attacchi paranoidi – anche attraverso la strumentalizzazione di una certa “paura ideologica.
L’analista – dice – , se non è preso dentro, può ancora far breccia nelle difese patologiche del paziente ( e dell’ideologia dominante) offrendo al paziente la chance – per quanto possa essere dolorosa- di muoversi dalla posizione di chiusura a quella di apertura all’insight.
Ma è d’altra parte possibile che il paziente faccia breccia nelle difese sane dell’analista ( e ciò tanto più facilmente quanto può essere messa in primo piano la funzione riparativa dell’analista) provocando così lo svolgimento del processo nella direzione opposta. Sul piano sociale, i benefici secondari dell’aderire alla intollerante “maggioranza compatta” sono ben noti.
In questo caso l’intolleranza ha un deciso vantaggio sulla tolleranza.
L’etimologia della parola rinvia( attraverso il latino “tollere”) alla Aufhebung, sollevamento e, in definitiva, al sollevamento della rimozione (Freud, 1916-17).
E rileva come la “evoluzione” di una larga parte della psichiatria italiana durante gli anni sessanta e settanta, mirava proprio ad evitare il ‘tollere’, ossia il sollevare la rimozione.
Sacerdoti – come dicevamo all’inizio – non negò le differenze esistenti tra la psichiatria e la psicoanalisi .
Circa la sopra esposta questione dell’assimilazione da parte dell’antipsichiatria nei confronti della psicoanalisi Sacerdoti nella sua esperienza e nel suo pensiero veniva a creare la possibilità di attuare un’esperienza basata sul favorire e studiare le modalità di reciproco influenzamento tra psicoanalisi e psichiatria dove la relazione fra i due poli permetteva di comprendere e affrontare un procedimento bifasico in cui in un primo tempo avveniva da parte della psichiatria una assimilazione proiettiva della psicoanalisi e ciò le veniva a permettere, in un secondo tempo , di assimilare introiettivamente quegli aspetti della psicoanalisi che erano rimasti intatti ( dall’operazione prioiettiva).
Tuttavia spesso Sacerdoti sottolineava come nella sua esperienza era necessario perché ciò potesse accadere ( e non una volta per tutte aggiungeva) che la psicoanalisi ( consapevolmente ) non si lasciasse invadere più di quanto necessario per diventare agli occhi della psichiatria più simile a se stessa ( ma non identiche) e quindi più accettabile, mettendo in moto uno scambio arricchente.
Sacerdoti ricordava come l’allora situazione della psichiatria più o meno psicoanaliticamente orientata offrisse la possibilità di studiare, seguendo le recenti evoluzioni, gli intrichi fra le resistenze nel senso psicoanalitico stretto e nel senso allargato di resistenza alla psicoanalisi.
Scrive : “Mi propongo quindi di esaminare come, negli attuali rapporti tra psicoanalisi e psichiatria, l’embrassons nous possa aumentare le chances di reciproca fecondazione, ovvero, anche se in maniera diversa che per il passato,.quelle di reciproco isterilimento
Per semplificare considererò come indice di fecondità la produzione o il favorimento dell’ insight ; l’ostacolamento di questo come indice di sterilità”
E di seguito Sacerdoti osserva che si sa che l’attrattiva delle operazioni interdisciplinari può coincidere con l’inconsapevole ricerca di una situazione confusiva, e afferma che : “Nella specie la acculturazione psicoanalitica non ha reso meno valida l’osservazione di Freud (1910b) che “ gli psichiatri… hanno molto da imparare da questo malato (Schreber) che si sforza, malgrado il suo delirio, di non confondere il mondo dell’inconscio col mondo reale “.
E ricorda che se questa confusione è una delle modalità con cui viene sbarrata la via dell’insight, un’altra è quella di isolare i due mondi.
Quest’ultima è riscontrabile nel rifiuto di considerare l’esistenza di una analogia fra le costruzioni del terapeuta e quelle del paziente delirante : il che non vuol dire confonderle: “Come nella clinica così nella teorizzazione, Freud (1937) ci indica come navigare tra lo Scilla dell’essere insensibili alle seduzioni, e il Cariddi del soccombervi.
In questa ottica può essere dunque interessante esaminare alcune parole d’ordine e alcuni slogans dei programmi socio-sanitari utilizzati in chiave demagogica (magica).
Una loro lettura ironica rivela la confusione tra fantasia e realtà e le manifestazioni di quest’ultima in funzione difensiva, di mantenimento di una sorta di impermeabilità riguardo alla realtà interna, sia degli “utenti”, che degli “operatori”.
Il rischio sembra essere quello che la persona, proprio attraverso le parole in questione, finisca al limite per scomparire.”
Sacerdoti ricorda che se buona parte della psichiatria di quegli anni veniva in qualche modo ad attingere alla psicoanalisi per muoversi nella realtà esterna macroscopica ( del sociale), una discreta parte della psicoanalisi aveva in vario modo attinto alla psichiatria nel tentativo di approfondire la realtà interna microscopica.
A proposito di rischi, in parte speculari, di queste due operazioni, mette in rilievo che, mentre con una certa frequenza l’infarinatura psicoanalitica dello psichiatra assomiglia a quella del Pierrot e ne rivela quindi il carattere caricaturale, in certi approcci di psicoanalisti alla psichiatria la infarinatura psichiatrica poteva piuttosto essere rilevante ( ma eventualmente anche ri-velante) nel senso in cui si dice : “Chi va al mulino si infarina”.
Sacerdoti su questo aspetto opera una riflessione psicoanalitica molto approfondita circa la distinzione e reciproca collaborazione tra psicoanalisi e psichiatria e pericoli derivanti da una non solo in-distinzione ( assimilazione proiettiva) ma anche mancanza di scambio fecondo che – come vedremo – viene a collegarsi profondamente con la questione dell’insight .
Afferma :”Se il mulino, nella specie, è quello della schizofrenia, ciò può accadere ove si dimentichi che “ in quest’ultima le parole stesse in cui s’era espresso il pensiero preconscio diventano oggetto di elaborazione (Bearbeitung) ad opera del processo primario; nel sogno, invece, il processo primario non opera sulle parole, bensì sulle rappresentazioni di cose a cui le parole sono state ricondotte. Nel sogno lo scambio tra investimenti (prec.) di parole e investimenti (inc.) di cose è libero, mentre è tipico della schizofrenia che tale scambio sia bloccato” (Freud, 1915b).
Ragion per cui delle due l’una : o anche per l’analista le parole diventano oggetto di Bearbeitung da parte del processo primario, ed in collusione con il paziente si prenderanno fischi per fiaschi; ovvero la consapevolezza di questo stato di cose nell’analista ( e ancor più la preconscia percezione endopsichica) può condurre a varie strategie.
In certe teorizzazioni psicoanalitiche sembra riflettersi quanto può avvenire in collusione con il paziente (ritenuto) psicotico, che può passare attraverso (ri)costruzioni e terminologie non tanto proposte, quanto imposte al paziente.
Queste magari a loro volta, in una specie di circolo vizioso, passano per ( o prendono lo spunto dal) le costruzioni teoriche cui fa riferimento lo stesso analista.”
L’esperienza di Palazzo Boldù
L’Ospedale di giorno di Palazzo Boldù per giovani psicotici rappresentò – come ricorda Semi – nella dinamica del reciproco influenzamento tra psicoanalisi e psichiatria un laboratorio esemplare nel quale da un lato venivano tentate e sperimentate nuove modalità di approccio e di terapia del malato mentale, dall’altro veniva costantemente effettuato un ripensamento critico relativo alle ricadute che (di) queste esperienze comportavano sia per il pensiero psicoanalitico che per le modalità di riflessione sulle istituzioni ( psichiatriche).
Quest’ultima parentesi è d’obbligo – sottolinea Semi – perché il pensiero di Sacerdoti è stato sempre – nella scia di quello freudiano- attento a riconoscere non solo la specificità della condizione “patologica” ma anche l’utilità dell’indagine psicoanalitica per la comprensione dell’umanità e delle sue grandi istituzioni.
Nel dicembre 1977 prima di andare in pensione Sacerdoti organizza una giornata di studio e di confronto a livello nazionale circa l’esperienza dell’Ospedale di Giorno Palazzo Boldù.
E racconta : “L’esperienza di questi 8 anni dell’Ospedale di Giorno di Palazzo Boldù è anche strettamente legata e fortemente caratterizzata dalla sede veneziana.
Paradossalmente forse, Venezia mentre più spesso sembra in generale favorire orientamenti più o meno megalomanici ( cui è ormai da tempo connesso l’immobilismo), in qualche caso fortunato ha favorito invece la realizzazione di esperienze circoscritte, ma per ciò stesso ricche di dinamismo, tempestive, verificabili e quindi istruttive e suscettibili di porre le basi per altre iniziative.
Proprio in quanto limitata, quella di Palazzo Boldù pensiamo sia una di queste esperienze.
Se ci si chiede il perché della scarsa diffusione, da noi, non solo a livello di psichiatria ma anche di altre branche mediche, dei servizi a tempo parziale, tipo “Day-Hospital”, non se ne trova una spiegazione soddisfacente a livello razionale.
Ciò vale a maggior ragione nel contesto di una situazione economica non florida e di un decentramento dell’assistenza sanitaria già sufficientemente realizzato o in fase di avanzata programmazione, presupposto evidentemente necessario per una diffusione di questi servizi.
La risposta deve quindi, a mio modo di vedere, essere cercata più sul versante irrazionale.”
E si chiede a che cosa può corrispondere, in psichiatria, la resistenza alla diffusione dell’assistenza a tempo parziale
In quella sede presenta alcuni spunti quali gli si sono affacciati ad uno sguardo retrospettivo sullo sviluppo del servizio di Palazzo Boldù.
E afferma : “Il “setting” – l’assetto – dell’assistenza, e diciamo pure della terapia psichiatrica a tempo parziale condotta in un’ottica psicoanalitica tende ad evitare alcune secche e particolarmente quelle delle difese di tipo isolante e quelle delle difese di tipo denegatorio in cui abitualmente si arenano programmi psichiatrici ed antipsichiatrici.
D’altra parte in secca ci si può sentire al sicuro se l’alternativa è quella di navigare in acque…inquinate.
In psichiatria fra strutture di trattamento ( più o meno istituzionalizzate), strumenti tecnici in senso lato ( dai più spersonalizzati ai più personalizzati), formazione degli operatori, programmazione, e impostazione teorica ci sono relazioni non solo strette, ma anche sempre svolgentesi nei due sensi.
Nel caso del servizio di Palazzo Boldù, fra molti di questi elementi sembra esservi stata una convergenza che ha contribuito all’instaurarsi e al mantenersi di un’immagine contenente aspetti, tutto sommato, non tranquillizzanti.”
Ricorda come l’apertura di questo servizio sia stata parzialmente fortuita, almeno per quanto riguarda il tempo e soprattutto il luogo di esso.
Ciò ha fatto sì – dice – per esempio che l’attività iniziasse in sordina, che l’arredamento fosse di fortuna, fornito in buona parte dagli operatori , che il servizio stesso, ubicato in una sede affatto particolare, è diventato noto nel bene e nel male, eponimicamente : è il “Palazzo Boldù” o addirittura il “Boldù”.
Tutto questo ha verosimilmente contribuito al formarsi di un’immagine per così dire familiare e riservata, e ad accrescere, per ciò stesso, gli aspetti inquietanti.
Sacerdoti richiamando il lavoro di Freud sottolinea che : “ sappiamo infatti che l’inquietante (“unheimlich” . non familiare) è qualcosa che è segretamente familiare ( “heimlich heimisch”), che ha subito la rimozione – è divenuto cioè inconscio – ed è poi ritornato da essa.
Freud richiama l’attenzione sul fatto che il senso di “inquietante estraneità” (“unheimlich”) è in stretto rapporto con il suo contrario (“heimlich”).
E’ attraverso il ( ristabilirsi del) collegamento fra questi due poli che passa l’acquisizione dell’ “insight” ( cioè della consapevolezza emotiva) e quindi anche ogni psico-terapia non effimera.
Le posizioni più diffuse nei confronti della malattia mentale tendono invece ( in funzione difensiva e quindi anti-psicoterapica) ad isolare uno dei due poli suddetti ignorando l’altro.
I fantasmi soggiacenti alla rappresentazione della malattia mentale sono, come le paure rimosse di castrazione e di morte, particolarmente risvegliabili, a parità di altre condizioni, in istituzioni che favoriscono quel senso “heimlich heimisch”, come abbiamo visto per varie ragioni essere il caso del Boldù.
Questi stessi aspetti dunque sono probabilmente corresponsabili, sia di aver facilitato un certo tipo di lavoro, sia di aver suscitato diffusamente un certo tipo di risposte, che in qualche momento hanno messo anche in pericolo la sopravvivenza del servizio.”
Di seguito si sofferma sui rapporti tra assetto ( “setting”) dell’Ospedale di Giorno e attività psicoterapica nonché formazione del personale, e sottolinea che se queste attività hanno potuto essere facilitate dalle caratteristiche peculiari del Boldù, ciò è avvenuto anche in quanto i medici, e successivamente tutti gli operatori, hanno avuto ben presente – e non solo a livello intellettuale – che i risultati terapeutici, specie nel caso di pazienti psicotici e con importanti elementi di tipo psicotico, si identificano sì, in definitiva, con la possibilità di ridimensionare, riconoscendole come tali, le produzioni fantasmatiche ( e pertanto di percepire la realtà in maniera così poco distorta da permettere di agire in essa e su di essa, cioè di compiere delle azioni e non degli “acting out”); ma che, per arrivare a ciò bisogna ben passare (sopportandone le ansie senza lasciarsene sommergere) per l’evocazione dei fantasmi, ciò che si verifica più prontamente in un palazzo come il Boldù, “abitato da fantasmi”.
Osserva che la possibilità di utilizzare tutto ciò in chiave terapeutica non è piovuta dal cielo; essa si è verificata grazie ad una formazione personale ( analitica ) dei medici e ad una formazione degli infermieri, che ha avuto come fulcro la seduta di gruppo degli operatori.
E’ stata questa, anche il momento di convergenza dei compiti dei medici, degli infermieri e dell’assistente sociale.
Dal punto di osservazione di Direttore dell’O.P. Sacerdoti mette in luce le dinamiche relazionali e comunicative presenti al suo insediamento e ne analizza sul versante psicoanalitico il significato inconscio dello stile comunicativo presente nella struttura ospedaliera e raffronta la situazione iniziale con quella conseguente al lavoro psicoanalitico improntato con la nascita dell’esperienza di Palazzo Boldù :
“Quanto alla accentuata gerarchizzazione ( questo tema si intreccia con le vicende del Boldù) va osservato che alla accentuata gerarchizzazione corrisponde, tra l’altro, il tentativo di perpetuare la figura del direttore tutto fare, verso la quale spesso convergono tuttora, in una specie di collusione, spinte provenienti direi da tutte le parti in gioco.
Che ciò possa avvenire a chi si occupa di malattie mentali,dove l’onnipotenza – e quindi l’impotenza- è di casa non stupisce.
Tuttavia spetta a chi per formazione professionale può intravederne i risvolti inconsci e gli sviluppi antiterapeutici di non cedere alle spinte suaccennate.
Nell’ambito dell’attenzione a ciò e dell’interesse per gli aspetti promozionali e formativi, oltre che terapeutici, si sono stabiliti rapporti di sufficiente collaborazione – talora assai fruttuosa- tra gli operatori del Boldù e quelli dell’O.P.
L’esistenza di un servizio come il Boldù, dipendente dalla medesima direzione dell’O.P. stimola, con la possibilità di metterli in crisi, i rapporti tra operatori, sia dello stesso livello che di livelli diversi.
E le crisi,si sa, purché non si cronicizzino, hanno a che fare con la crescita emotiva che è poi, in fondo, quel che dobbiamo promuovere anche nei nostri pazienti : nei rapporti con questi sono tra l’altro necessari, per poter far ciò, certi elementi di fiducia e di sincerità, il che non può realizzarsi senza che lo stesso valga, “mutatis mutandi” , anche nel rapporto degli operatori ( soprattutto a livello direttivo) con gli amministratori.
Il riferimento all’ottica psicoanalitica ha improntato, anche con le difficoltà che ne possono risultare, l’effettuazione, l’osservazione e la gestione di un cambiamento dello schema cui tutto il personale si ispira.
Era questo uno schema di massima eteronomia e minima responsabilizzazione, incentivante a livello di comunicazione sia il non dire, se non le cose rientranti nell’ aspettativa della direzione, sia il non ascoltare, se non in maniera finalizzata come sopra.
Ciò escludeva naturalmente, o rendeva estremamente raro, l’atteggiamento di effettivo ascolto e favoriva invece l’azione ( e, più che l’ “azione vera”, l’ “acting out”, non solo nel rapporto con i pazienti, ma anche, in misura abbastanza rilevante, nei rapporti con i colleghi e superiori).
Qui al Boldù è stato possibile attuare questo radicale cambiamento verso la massima autonomia e responsabilizzazione in maniera abbastanza omogenea e continua, quasi ripartendo da zero, nonostante si trattasse di personale che già da tempo più o meno lungo lavorava in ospedale.”
All’interno dell’ospedale psichiatrico ricorda come ovviamente le angosce sono state spesso meno analizzabili e meno sostenibili e, accanto a molti riorientamenti ( soprattutto, ma non esclusivamente, tra gli operatori più giovani) hanno portato anche a varie reazioni di difesa.
.” Sacerdoti poi ricorda come il valore e la delicatezza di tutto ciò sia stato per lungo tempo, com’è naturale, difficilmente coglibile appieno ( salve lodevoli eccezioni) da parte degli amministratori.
A tal riguardo racconta una situazione ben rappresentativa del clima tra Direzione alle prese con una nuova e impegnativa esperienza per molti versi sperimentale e Amministrazione : “Basterà ricordare come, a un certo punto, mentre gli infermieri dell’ospedale godevano dell’indennità isola (sic), detta indennità fu tolta, senza essere sostituita da alcunché , agli infermieri del Boldù : e se allora l’Ospedale di Giorno non si è chiuso ciò è dovuto soltanto alla passione per il nuovo tipo di lavoro, alla dignità e al coraggio di questo piccolo gruppo di infermieri.”
Nonostante tutte le difficoltà incontrate, Sacerdoti evidenzia quale situazione favorevole alla formazione del personale si sia costituita proprio in questo ospedale di giorno, sorto con una minima delibera dell’Amministrazione Provinciale e cresciuto finora, forse per sua fortuna, come amava ricordare, senza alcun regolamento ufficiale.
“Mi chiedo per esempio se, qualora fosse stato prescritto, avrebbe potuto svilupparsi altrettanto felicemente il momento della seduta degli operatori.
Questo momento, finalizzato a far convergere e integrare gli apparati costituiti dagli “insight” degli infermieri e da quelli dei medici riguardo a tutte le espressioni comportamentali e verbali dei pazienti, mette in gioco dinamiche complesse.
Qui importa sottolineare una condizione comune al gruppo degli operatori : lo sviluppo della capacità di percepire i propri movimenti emotivi ( controtransferali e transferali) come strumento lavorativo fondamentale, insostituibile, e, ad un tempo, elemento formativo continuo dal punto di vista professionale ( supervisione) ma anche personale.
Tutto ciò non solo è comune a infermieri e medici, ma anche reciproco ( seppure non simmetrico) e rende ragione del fatto che la differenza del livello di astrazione, venendo collocata sullo sfondo di quanto detto or ora, non che essere un elemento turbativo, contribuisca al mantenimento dinamico di un’armonia complessiva senza rimozione della conflittualità che è indispensabile ingrediente dell’atmosfera terapeutica.
Tenendo anche conto delle difficoltà in cui versano oggi in Italia la didattica e la ricerca le potenzialità possedute da un servizio come il Boldù nei campi della ricerca e della formazione del personale, ai vari livelli, oltre che naturalmente in quello della terapia , suggeriscono che le immagini ( che correntemente si presentano all’esterno ) del servizio stesso quale oggetto di lusso siano legate essenzialmente ai fantasmi di cui ho parlato e di altri ancora…, il che non è ovviamente da sottovalutare, perché i fantasmi sono personaggi di tutto rispetto.”
Negli ultimi tempi spesso Sacerdoti ritornava a riflettere sull’esperienza psicoanalitica del Boldù e sulle sue radici ispiratrici sia dal punto di vista clinico psicoanalitico che da quello dell’apporto della psicoanalisi alla comprensione della sofferenza mentale e dunque a quanto anche la psicoanalisi poteva incidere sulle strutture che se ne dovevano occupare, evidenziando anche l’apporto culturale e sociale della psicoanalisi.
A tal riguardo Sacerdoti propone questo percorso di pensiero.
Molto schematicamente, dice, per quel che riguarda le malattie mentali, la tendenza dei pazienti ad agire ha comportato per lo più, fino ad epoche recenti, una corrispondente tendenza a controagire da parte della società e, per essa, degli addetti ai lavori. .
Questo controagire può configurarsi secondo varie modalità, che vanno da una impostazione di fondamentale abbandono dei malati ad una di rovesciamento nella quale i malati vengono incarcerati e i delinquenti vengono curati ( Samuel Butler, 1872 in “Erehwon”)
Entrambi questi estremi non possono contribuire a far muovere i malati nella direzione della salute mentale.
Sacerdoti ricorda come, superato lo scetticismo freudiano riguardo alla possibilità degli psicotici di investire transferalmente il terapeuta, si siano sviluppati gli approcci psicoanalitici.
“Questi approcci si basano, mutatis mutandi, su strategie che mirano a rendere quanto più possibile il lavoro analogo, nelle sue grandi linee, a quello dell’analisi dei nevrotici : lasciar quindi lavorare mentalmente ed esprimersi nella massima libertà il paziente di fronte ad un terapeuta particolarmente preparato ad utilizzare i prodotti del lavoro delirante, se e quando utilizzabili, il che presuppone il rispetto della realtà psichica e della verità storica contenuta nelle produzioni psicopatologiche.
L’antipsichiatria nostrana si è inserita a questo punto stravolgendo queste prospettive, già in atto in Italia anche se in ordine sparso, per abbracciare una prospettiva basata sulla (de)negazione della specificità della malattia mentale e di una specifica preparazione dei curanti.
Se esiste – dice – alla fine, dopo percorsi radicalmente diversi la possibilità di una convergenza, il punto di incontro tra politici e antipsichiatri si è collocato invece, pregiudizialmente, al di qua dei rispettivi percorsi.
E ricorda come anni prima “ebbi occasione in qualità di membro tecnico della Commissione di Vigilanza, di prendere visione dei preparativi della operazione di “chiusura” dell’ospedale psichiatrico di Trieste.
Era stata preparata una grossa delibera dell’Amministrazione Provinciale, in cui si definiva la qualifica di “ospite” che avrebbero rivestito gli ex pazienti dopo la “dimissione”.
Osservai che, accanto ad aspetti positivi, potevano, soprattutto in prospettiva, prevalere quelli negativi legati ad una deresponsabilizzazione del personale “alberghiero”, e che veniva ad essere disincentivata la loro preparazione professionale anche perché quest’ultima non veniva convenientemente progettata nemmeno per strutture a tempo parziale che avrebbero dovuto affiancare la chiusura dell’ospedale.
Il Medico Provinciale, rappresentante dell’Amministrazione, più che confutare le mie argomentazioni, dava comunque per scontato che la “volontà politica” era tale da renderle irrilevanti.”
Questa esperienza lo porta ad osservare come l’arroganza del potere politico , nel senso originale
del termine – arrogare a sé i diritti degli altri– può essere o diventare una forma sui generis di delirio “paranoicale” : altrettanto potrebbe dirsi della deroga dei propri diritti da parte degli psichiatri come delirio depressivo.
E sottolinea come la collusione però tra la posizione degli antipsichiatri e quella dei politici costituendo una finalità condivisa, rende inapparente- e forse irreale ( ogni delirio contiene un nucleo di verità) – il carattere delirante dell’operato di entrambe le categorie .
Queste operazioni collusive – continua – sono messe in moto anche dal desiderio di partecipare al potere “temporale” da parte degli psichiatri e rispettivamente da quello di partecipare al potere “spirituale” da parte dei politici e/o di asservire questo a quello.
Questi aspetti della storia della psichiatria rivelano, secondo Sacerdoti, un certo modo di controagire da parte della società che non contempla – perché non accetta – Il ‘diritto a delirare’: eppure, Il lavoro del delirio necessita, per poter svolgersi al meglio, che si instauri una difesa dei diritti del “lavoratore”, cioè del delirante. Continuando nella metafora, Sacerdoti nota come “I diritti del “consumatore” – cioè del terapeuta – poi potrebbero essere ravvisati come quelli di chi utilizza e metabolizza tali prodotti non soltanto con il fine del proprio sostentamento, ma anche con quello di sostenere “il produttore” e di aiutarlo a fornire dei prodotti sempre migliori – cioè più metabolizzabili – anche per sè stesso.
Queste possibilità vengono ovviamente a cadere, o sono soffocate sul nascere, quando viene assunta, nei confronti del delirio, una posizione (de)negatoria, che è solo apparentemente liberatoria, ma che assomiglia in realtà a quelle operazioni di “assimilazione proiettiva” e che mirano all’annessione e, in definitiva, alla distruzione di identità minoritarie.
Il diritto ad esprimere il delirio apertis verbis tuttavia può esplicarsi al meglio là dove esso non venga conferito e proclamato in base ad una qualsiasi ideologia o teorizzazione avulsa dal vissuto, ma legato all’apertura mentale ed emotiva, cui spesso però si sostituisce tout court la meno costosa, sotto certi aspetti, apertura spaziale con successiva delegazione dell’importanza di uno specifico spazio materiale con i caratteri possibilmente del contenitore elastico.
Io ho constatato come tale spazio, costituitosi a Venezia come Ospedale di Giorno, sotto la mia direzione fin dall’inizio degli anni ’70, con personale medico e paramedico selezionato e costantemente preparato, desse dei risultati ottimali. E un più che soddisfacente andamento di tale lavoro istituzionale.
Ciò non impedì che l’Amministrazione Provinciale, dopo il mio ritiro, nel giro di alcuni anni, arrivasse a smantellare questo servizio : ciò alla chetichella, ma sistematicamente, attraverso la mancata sostituzione del personale man mano che i posti rimanevano vacanti e attraverso l’imposizione ai medici di incombenze diverse al di fuori dell’Ospedale di Giorno.
Il campo psichiatrico, rispetto ad altri campi medici, si presta particolarmente all’arroganza dei politici – nel senso di arrogare a sé le linee non solo generali, strategiche, ma anche quelle particolari, tattiche, dell’assistenza psichiatrica.
I politici ovviamente vanno a nozze con quegli “operatori” come gli antipsichiatri nostrani, che offrono loro le pezze “teoriche” giustificative di quanto sopra, predicando riduttivamente l’essenza sociale, se non addirittura socio-politica, dei disturbi psichici e derogando quindi agli amministratori tutti gli aspetti, le linee direttive dell’organizzazione.
Quando, essendo cambiato il colore dell’Amministrazione provinciale, io mi dichiarai disposto a riconsiderare il mio progetto di ritiro a condizione che ci fossero i presupposti per una collaborazione e non solo un rapporto da derogante ad arrogante, le parole da parte dei politici furono estremamente apprezzative ed incoraggianti, ma i fatti esattamente l’opposto. Ne ho accennato perché penso che tutto ciò sia paradigmatico e perché, d’altra parte , raramente viene così allo scoperto.”
La professionalità, rileva Sacerdoti,è la cosa più osteggiata e la mancanza di professionalità la meglio accetta e, di fatto, la più incoraggiata come garanzia di dipendenza e di disponibilità ad avvallare i programmi illusori, demagogici e sedicenti avanguardistici.
In queste condizioni in fondo anche il diritto a delirare viene a mancare o il delirio stesso viene denegato nell’ambito della denegazione istituzionalizzata .
Sacerdoti fantastica che Freud, che già aveva scritto (1929) parole premonitrici sul futuro del socialismo reale, arrivando ai giorni nostri sarebbe forse stimolato a scrivere qualche cosa ( che per simmetria –dice – mi piace fantasticare come “il futuro di una realtà”) per difendere l’analisi ( oltre che dai medici e dai preti) dai politici, tutelare il diritto degli analisti a disporre di uno spazio per curare e quello dei pazienti a disporre di uno spazio anche per delirare.
E sottolinea come lo spazio per “sragionare” (associare liberamente) necessario ai nevrotici, interessa assai meno i reggitori della cosa pubblica di quanto interessi invece ciò che concerne gli psicotici.
E conclude : “La non usufruibilità di questo spazio per sragionare ( come pure dello spazio del sogno) si traduce per i nevrotici in una accentuata tendenza ad agire soprattutto le proprie tendenza autoplastiche, per gli psicotici ad agire le proprie irrealistiche tendenze alloplastiche.
Queste ultime si presentano spesso nell’ambito dell’antico dilemma psicopatologico-delinquenziale cui corrispondono, a livello inconscio, problematiche riguardanti l’identità di genere.
Comunque nel determinarsi dell’opzione psicopatologica, ovvero di quella delinquenziale (più temibile), hanno un peso non indifferente le posizioni “profonde” di tolleranza o di intolleranza nei confronti delle due “scelte”, nonché le rispettive equivalenze insconsce a livello di genere sessuale.
Non per caso, rimanendo agli aspetti più grossolani, lo “svuotamento” degli Ospedali Psichiatrici ( corollario della “istituzione negata” alias della “negazione istituzionalizzata – diritto a delirare su di un versante e diritto a curare dall’altro) – ha avuto come pendant il riempimento dei Manicomi criminali.”
E per concludere vorrei citare una sua considerazione circa il posto che compete allo psicoanalista impegnato nel lavoro di favorire i transiti e studiare le modalità di reciproco influenzamento tra psichiatria e psicoanalisi.
Dice (circa la marginalità in cui spesso si trova collocata la psicoanalisi) “… può far pensare che la marginalità contribuisca – come osserva Alberto Semi, ad una possibilità più ampia, o più precisamente, di doppia visione simultanea : quella con i propri occhi e quella con gli occhi dell’altro. Qualche cosa di simile sembra essere alla base del pathos della poesia di Dobzynski, secondo il quale, “essere ebreo è raggiungere in sé ciò che ci fa diversi e simili a tutti gli altri. E’ riconoscersi in chiunque ci misconosce, è fare il giro di sé stesso per fare allo stesso tempo il giro dell’universo”. Questa definizione, che potrebbe valere anche per ogni psicoanalista ( e per ogni “uomo di buona volontà”), ci riporta alla coppia assimilazione-dissimilazione in una prospettiva in cui il gioco tra i due poli ci appare in chiave di complementarietà più che di antagonismo”
Mi sembra che questa frase spieghi molto il modo di vivere, di essere di Giorgio Sacerdoti.
Note
1) Nel 1972 a seguito di un lento ma costante malessere da parte dell’ordine religioso presente in O.P. legato alle iniziative del Direttore che venivano a scardinare la centralità della figura dei religiosi nell’assistenza psichiatrica e il nascente ruolo del sindacato riconosciuto dal Direttore, l’Assessore Guzzardi ( corrente Dorotea della DC ) propose al Consiglio Provinciale la destituzione di Sacerdoti. Molti colleghi si mossero in campo anche internazionale, ma la partita si svolse con il coinvolgimento di Donat Cattin ( attraverso una cugina di Sacerdoti legata alla famiglia torinese dei Levi e a Padova attraverso amicizie nella figura del Sen Gui.) In consiglio provinciale la proposta venne bocciata per due soli voti. Un anno dopo circa Sacerdoti Mantelli e Peloso che si occupavano gratuitamente della Casa della giovane ( accoglieva giovani madri nubili) vennero sollevati dalla Curia Patriarcale senza motivazioni alcune !
2) modalità di Difese dall’insight vertente sui rapporti realtà interna / realtà esterna per fusione o assorbimento
a) di tipo confusivo per denegazione delle differenze per denegazione delle discontinuità Per impermeabilità verso l’esterno ( caricatura della psicoanalisi) parole a « double face »
b) di tipo isolante per impermeabilità verso l’interno (caricatura della psichiatria)
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