TOTEM E TABU' CAPITOLO III

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22 giugno, 2021 - 08:30

Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri (1912-13)

Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. IX, p. 93.

Traduzione di Antonello Sciacchitano

 

Capitolo III

 

1

È una necessaria carenza dei lavori che pretendono di applicare i punti di vista della psicanalisi ai temi delle scienze dello spirito di offrire troppo poco al lettore di entrambe. Si limitano perciò a stimolare, facendo allo specialista proposte da considerare nel suo lavoro. La carenza si avverte al massimo in un saggio che pretende trattare l’enorme campo chiamato animismo.1

In senso stretto, l’animismo è la dottrina delle rappresentazioni dell’anima, in senso lato, la dottrina degli esseri spirituali in generale. Da esso si distingue ancora il “vitalismo”, la teoria che considera vivente la natura che ci appare inanimata, nel cui contesto rientrano I’“animalismo” e il “manismo”. Al termine “animismo”, usato un tempo per un preciso sistema filosofico, sembra sia stato conferito l’attuale significato da Tylor.2

Ciò che ha prodotto l’introduzione di questi nomi è la conoscenza della notevolissima concezione della natura e del mondo dei popoli primitivi a noi noti, sia storici sia tuttora viventi. Popolano il mondo di un’infinità di esseri spirituali a loro sia benevoli sia malevoli; attribuiscono a questi spiriti e demoni la causa degli eventi naturali, e ritengono che non solo gli animali e le piante, ma anche le cose inanimate del mondo vivano grazie a loro.

Un terzo elemento, forse il più importante, di questa primitiva “filosofia della natura” ci appare assai meno sorprendente, perché noi stessi non ce ne siamo ancora allontanati abbastanza, anche se abbiamo circoscritto sensibilmente l’esistenza degli spiriti e oggi spieghiamo gli eventi naturali in base all'ipotesi di forze fisiche impersonali. I primitivi credono, infatti, a un’analoga “animazione” anche dei singoli esseri umani. Le persone umane contengono anime, che possono abbandonare la loro sede e migrare in altri uomini; sono le portatrici delle attività spirituali, fino a un certo punto indipendenti dai “corpi”. In origine le anime erano rappresentate in modo assai simile agli individui, e solo nel corso di una lunga evoluzione hanno perso le caratteristiche materiali, fino a un alto grado di “spiritualizzazione”.3

La maggioranza degli autori propende per l’ipotesi che tale rappresentazione delle anime sia il nucleo originario del sistema animistico, che gli spiriti siano anime divenute indipendenti, e che anche le anime di animali, piante e cose si siano formate in analogia con le anime umane.

Come sono giunti gli uomini primitivi alle visioni di base propriamente dualistiche, su cui poggia questo sistema animistico? Si pensa osservando i fenomeni del sonno (con il sogno) e della morte ad esso così simile, e sforzandosi di spiegare questi stati che toccano così da vicino ogni singolo. Innanzitutto il problema della morte dovette essere stato il punto di partenza per la formazione della teoria. Per il primitivo la continuazione della vita – l’immortalità – sarebbe ovvia. La rappresentazione della morte è qualcosa di recepito solo più tardi e con esitazione; anche per noi è ancora senza contenuto e non del tutto coerente. Sulla parte che nella formazione delle teorie animistiche fondamentali possono avere avuto altre osservazioni e altre esperienze – sulle immagini oniriche, sulle ombre, sulle immagini speculari e simili – vi sono state discussioni molto vivaci, ma non conclusive.4

Se il primitivo reagiva ai fenomeni che stimolavano la sua riflessione formando la rappresentazione delle anime e trasferendola poi sugli oggetti del mondo esterno, il suo comportamento va giudicato come un fenomeno del tutto naturale e non ulteriormente enigmatico. Riferendosi al fatto che le stesse rappresentazioni animistiche sono concordemente emerse presso i popoli più diversi e in tutti i tempi, Wundt afferma che “sono il necessario prodotto psicologico della coscienza mitopoietica ... e l’animismo primitivo potrebbe essere considerato l’espressione spirituale dello stato naturale dell’uomo, nella misura in cui esso è accessibile alla nostra osservazione”.5 La giustificazione di aver reso vivente l’inanimato fu già data da Hume nella sua Storia naturale della religione, dove scrive: “Nel genere umano c’è la tendenza universale a concepire tutti gli esseri uguali a sé stessi, e ad attribuire a ogni oggetto le qualità con cui hanno familiarità e di cui sono intimamente coscienti”.6

L’animismo è un sistema di pensiero che non spiega solo un singolo fenomeno, ma permette di comprendere il mondo intero in un’unica connessione da un solo punto di vista. Volendo seguire gli autori, l’umanità ha creato nel corso dei tempi tre visioni del mondo: l’animistica (mitologica), la religiosa e la scientifica. Fra queste, la prima a essere formulata, quella animistica, è forse la più conseguente ed esauriente, che spiega l’essenza del mondo senza residui. Ora, questa prima visione del mondo dell’umanità è una teoria psicologica. Esula dal nostro proposito mostrare quanta parte di questa concezione sia ancora dimostrabile nella nostra vita presente, o ridotta a superstizione o ancora viva come fondamento del nostro linguaggio, delle nostre credenze e del nostro filosofare.

Dicendo che l’animismo in sé non è ancora una religione, ma contiene le premesse su cui più tardi si costruiscono le religioni, ci si rifà appunto a questi tre livelli delle visioni del mondo. È pure evidente che il mito poggia su premesse animistiche; tuttavia i dettagli della relazione tra mito e animismo sembrano non chiariti in punti essenziali.

 

2

Il nostro lavoro psicanalitico partirà da un altro punto.

Non si può supporre che gli uomini si siano decisi a creare il loro primo sistema del mondo per pura brama speculativa di sapere. Il bisogno pratico di assoggettare il mondo deve avere avuto la sua parte in questo sforzo. Non ci stupisce quindi venire a sapere che, insieme con il sistema animistico, procede di pari passo anche qualcos’altro, una guida per padroneggiare uomini, animali e cose, rispettivamente i loro spiriti. Salomon Reinach chiama questa guida, nota con i nomi di “incantesimo” e “magia”, strategia dell’animismo;7 invece, d’accordo con Hubert e Mauss, preferirei paragonarla alla tecnica.8

È possibile separare concettualmente l’incantesimo dalla magia? Sì, volendo con una certa arbitrarietà non curarsi delle oscillazioni dell’uso linguistico. Allora l’incantesimo è essenzialmente l’arte di influire sugli spiriti, trattandoli alla stregua di uomini, placandoli, propiziandoseli, intimidendoli, privandoli del loro potere, sottomettendoli alla propria volontà usando gli stessi mezzi trovati efficaci con gli uomini vivi.

La magia invece è qualcosa di diverso, che prescinde in fondo dagli spiriti e si avvale di mezzi particolari, non dei banali metodi psicologici. Ci è facile indovinare che la magia è la parte più antica e più significativa della tecnica animistica; infatti, mezzi magici possono essere usati, fra gli altri, sia per avere a che fare con gli spiriti,9 sia nei casi in cui la spiritualizzazione della natura, a quanto ci risulta, non è ancora completata.

La magia deve servire agli intenti più disparati: assoggettare alla volontà dell’uomo i processi naturali, difendere l’individuo da nemici e pericoli, e dargli il potere di danneggiare i suoi nemici. Tuttavia, i principi sulle cui premesse si basa l’azione magica, o meglio, il principio della magia, è talmente evidente che tutti gli autori hanno dovuto riconoscerlo. Il modo più spiccio di esprimerlo, a prescindere dal giudizio di valore che lo accompagna, è con le parole di E.B. Tylor: “confondere un nesso ideale con uno reale.”10 Vogliamo spiegare questa caratteristica su due gruppi di azioni magiche.

Una delle procedure magiche più diffuse per danneggiare il nemico consiste nel farsi un suo ritratto con un materiale qualsiasi. La somiglianza importa poco. Si può anche “nominare” sua immagine un oggetto qualunque. Da allora, quel che si fa all’immagine accade anche all’odiato originale: se si ferisce la prima in una certa parte del corpo, il secondo si ammalerà in quella stessa parte. La stessa tecnica magica può essere messa a servizio della devozione religiosa, anziché di inimicizie private, e venire in aiuto a divinità contro spiriti malvagi. Cito da Frazer:

Nell’antico Egitto, ogni notte, quando il dio sole Ra si inabissava verso la sua dimora nell’occidente fiammeggiante, era assalito da schiere di demoni sotto la guida dell’arcidiavolo Apepi. Combatteva con loro tutta la notte e qualche volta di giorno le potenze delle tenebre facevano comparire delle nuvole persino nell’azzurro cielo d’Egitto, per oscurare la luce di Ra e indebolirne il potere. Per soccorrere il dio nella sua lotta d’ogni giorno, si celebrava quotidianamente nel suo tempio a Tebe la seguente cerimonia: si plasmava con la cera l’effigie del suo nemico Apepi in forma di coccodrillo dall’orribile faccia o di serpente dalle molte spire, e sull’effigie si scriveva con inchiostro verde il nome del diavolo. La figura, avvolta in un astuccio di papiro sul quale era tracciata in inchiostro verde un'altra immagine di Apepi, era avviluppata con capelli neri, vi si sputava sopra, la si tagliuzzava con un coltello di pietra e la si scagliava a terra. Quindi il sacerdote la calpestava più volte col piede sinistro e infine la bruciava in un fuoco alimentato da determinate piante o erbe. Dopo aver eliminato in questo modo Apepi, si facevano e si bruciavano allo stesso modo effigi di cera di ciascuno dei suoi demoni principali e dei loro padri, madri e figli. Questo rito, accompagnato dalla recitazione degli incantesimi prescritti, era ripetuto non solo la mattino, a mezzogiorno e la sera, ma ogni volta che stava infuriando una tempesta o era cominciata a cadere una pioggia violenta o il cielo si veniva ricoprendo di nuvole nere che oscuravano il disco luminoso del sole. I demoni delle tenebre, delle nuvole e della pioggia sentivano il castigo inflitto alle loro immagini come se lo avessero sofferto sulla loro stessa persona; svanivano, almeno per qualche tempo, e il benefico dio del sole trionfava di nuovo nel suo splendore.”11

Tra l’enorme numero di atti magici di analogo fondamento voglio ora metterne in rilievo solo un paio, che hanno sempre svolto una funzione importante tra i popoli primitivi di ogni tempo e sono stati in parte conservati nel mito e nel culto di gradi superiori di sviluppo, precisamente il genere di incantesimi per ottenere la pioggia e la fertilità.

La pioggia si produce per via magica imitandola, ad esempio imitando le nuvole o la bufera che la producono. L’impressione è che si voglia “giocare a far la pioggia”. I giapponesi Aino, ad esempio, fanno piovere in questo modo: parte di loro versa acqua da grossi setacci, mentre un’altra attrezza con vela e timone un grande bacile come se fosse una nave e lo trascina per il villaggio e i giardini.

La fertilità del terreno era invece assicurata con mezzi magici, dando su di esso lo spettacolo di un rapporto sessuale umano. Così, per citare un esempio tra infiniti altri, "in alcune parti di Giava, nella stagione in cui il riso sta per fiorire, il marito e la moglie vanno nei campi di notte e vi si accoppiano per promuovere la fecondità del riso.”12 Si temeva per contro che rapporti sessuali incestuosi, rigorosamente proibiti, causassero cattivi raccolti e sterilità del terreno.13

Vanno annoverate in questo primo gruppo anche alcune prescrizioni negative, quindi precauzioni magiche. “Quando parte degli abitanti di un villaggio Daiako è partita per la caccia al cinghiale, chi rimane a casa non deve toccare con mano né olio né acqua durante l’assenza dei cacciatori, altrimenti le loro dita, divenute deboli, si lascerebbero sfuggire di mano la preda”.14 Oppure, “quando un cacciatore Giljak [tribù sull’Amur] caccia selvaggina nella foresta, ai figli rimasti a casa è proibito tracciare disegni sul legno o sulla sabbia; altrimenti nel fitto della foresta i sentieri potrebbero farsi tanto intricati quanto le linee del disegno, e il cacciatore potrebbe non ritrovare la via di casa”.15

Poiché in questi ultimi esempi, come spesso accade nell’azione magica, la distanza non importa e la telepatia è ovviamente accettata; anche per noi la comprensione di questa caratteristica della magia non presenta più difficoltà.

Non c'è il minimo dubbio su ciò che, in tutti questi esempi, si considera l'elemento efficiente. È la somiglianza tra l'azione compiuta e l’evento atteso. Frazer chiama perciò imitativa o omeopatica questa magia. Se voglio che piova, mi basta fare qualcosa che sembri pioggia o che la ricordi. In fase più avanzata dell’evoluzione civile, invece di questo incantesimo magico della pioggia, si organizzeranno processioni a un tempio per supplicare il Santo che vi dimora di concedere la pioggia. Infine, si rinuncerà anche a questa tecnica religiosa e si cercherà invece di scoprire quali influenze esercitate sull'atmosfera sono in grado di produrre la pioggia.

In un altro gruppo di azioni magiche iI principio di somiglianza non entra più in gioco, ma ne subentra un altro che emerge facilmente dai seguenti esempi.

Per danneggiare un nemico, ci si può servire anche di un’altra procedura. Ci si impadronisce dei suoi capelli, delle sue unghie, di un suo scarto, perfino di parte delle sue vesti, e si compie un qualche atto ostile contro queste cose. Tutto avviene come se ci si fosse impadroniti della persona stessa, e ciò che si fa a cose provenienti dalla persona deve ripetersi su di lei. Secondo la visione dei primitivi, il suo nome è una componente essenziale della personalità: se si sa quindi il nome di una persona o di uno spirito, si acquista un certo potere su chi porta quel nome. Di qui derivano le singolari prescrizioni e limitazioni nell’uso del nome, di cui abbiamo trattato nel saggio sul tabù. In questi esempi, l’appartenenza sostituisce chiaramente la somiglianza.

La motivazione più sublimata del cannibalismo dei primitivi ha derivazione simile. Assumendo in sé, mediante l’atto del consumare, parti del corpo di una persona, ci si appropria anche delle qualità che le appartenevano. Ne conseguono pertanto precauzioni e limitazioni dietetiche in certe circostanze. Una donna in stato di gravidanza eviterà di mangiare la carne di certi animali, perché le loro caratteristiche indesiderabili, per esempio la viltà, potrebbero trasferirsi sul bambino che nutre. Per l’effetto magico, non fa la minima differenza se il nesso è già stato superato o se è consistito solo in un unico, significativo contatto. Così, per esempio, la credenza nel legame magico tra una ferita e l’arma che l’ha causata può essere costatata, immutata per interi millenni. Quando un melanesiano si impadronisce dell’arco che l'ha ferito, lo custodisce con cura in un luogo fresco, per ridurre l'infiammazione della ferita. Ma se l’arco è rimasto in mano del nemico, sarà certo appeso quanto più possibile vicino al fuoco, perché la ferita si infiammi e bruci per bene. Nella sua Storia naturale (libro 18, cap. 7) Plinio cita la credenza generale che “se avete ferito qualcuno e ve ne duole, non avete a far altro che sputare sulla mano che produsse la ferita e il dolore del sofferente sarà istantaneamente alleviato”. Francis Bacon cita nella sua Sylva Sylvarum [X, 998] “che ungere l’arma che ha prodotto la ferita fa guarire la ferita stessa”. I contadini inglesi devono applicare ancora oggi questa ricetta, e, quando si tagliano con una falce, da quel momento in poi conservare lo strumento accuratamente pulito, perché la ferita non suppuri. Nel giugno del 1902, un settimanale locale inglese riferiva “che una donna, tale Matilda Henry, a Norwich, si era piantata accidentalmente un chiodo nella pianta del piede. Senza farsi esaminare la ferita, e anzi senza neppure togliersi la calza, ordinò alla figlia di oliare bene il chiodo, aspettandosi così che nulla le accadesse. Alcuni giorni dopo la donna morì di tetano a causa del trattamento antisettico spostato.16

Gli esempi di questo secondo gruppo illustrano ciò che Frazer distingue come magia contagiosa dalla imitativa. Ciò che in esse si pensa come efficiente non è più la somiglianza, ma la connessione spaziale, la contiguità, o almeno la contiguità rappresentata, il ricordo della sua presenza. Ma, essendo somiglianza e contiguità i due principi essenziali dei processi associativi, la vera spiegazione di tutta l’assurdità delle prescrizioni magiche si dimostra in realtà il dominio dell’associazione di idee. Si vede quanto si dimostri pertinente la caratteristica della magia di Tylor sopra citata: “confondere una connessione ideale con una reale” o, come più o meno si è espresso Frazer, per il quale “gli uomini confusero l’ordine delle loro idee con l’ordine della natura, e quindi immaginarono che il controllo che hanno, o sembrano avere, sui propri pensieri, permettesse loro di esercitare un controllo sulle cose corrispondenti”.17

A prima vista fa quindi specie che alcuni autori abbiano potuto rigettare come insoddisfacente questa spiegazione illuminante della magia.18 A una più approfondita riflessione si deve però dare ragione all’obiezione che la teoria associativa chiarisce semplicemente il cammino su cui procede la magia, ma non la sua essenza specifica, cioè il fraintendimento che pone leggi psicologiche al posto delle naturali. Qui occorre chiaramente un fattore dinamico, ma mentre la sua ricerca ha tratto in errore i critici della teoria di Frazer, sarà facile dare una spiegazione soddisfacente della magia solo proseguendo e approfondendo la sua teoria associativa.

Consideriamo dapprima il caso più semplice e più significativo della magia imitativa. Secondo Frazer questa magia si può esercitare da sola, mentre la magia contagiosa presuppone di regola quella imitativa.19 I motivi che spingono a esercitare la magia sono facilmente riconoscibili: sono i desideri dell’uomo. Ora basta ammettere che l’uomo primitivo ha una fantastica fiducia nel potere dei propri desideri. In fondo tutto ciò che realizza per via magica deve accadere solo perché lo vuole. Inizialmente, quindi, l’accento cade solo sul suo desiderio.

Per il bambino, che si trova in condizioni psichiche analoghe ma non dispone ancora di capacità motorie, abbiamo in altra sede sostenuto l’ipotesi che soddisfi dapprima i suoi desideri per via allucinatoria, realizzando la situazione di soddisfacimento mediante eccitamenti centrifughi dei suoi organi di senso.20 All’adulto primitivo si apre un’altra strada. AI suo desiderio si accompagna una spinta motoria, la volontà, e tale spinta, che più tardi, posta a servizio della soddisfazione dei desideri, cambierà la faccia della terra, è dapprima impiegata a raffigurare la soddisfazione, che si può vivere, per così dire, attraverso allucinazioni motorie. Tale rappresentazione del desiderio soddisfatto è del tutto paragonabile al gioco dei bambini, che in loro subentra alla tecnica puramente sensoriale del soddisfacimento. Se al bambino e al primitivo bastano il gioco e la rappresentazione imitativa, ciò non è segno della loro modestia nel nostro senso o della loro rassegnazione di fronte alla propria reale impotenza, ma della ben comprensibile conseguenza della sopravvalutazione del loro desiderio, della volontà da esso dipendente e della via da esso imboccata. Con il tempo l’accento psichico si sposta dai motivi dell’azione magica ai suoi mezzi, all’azione stessa. Forse diremmo più esattamente che solo con tali mezzi diventa al primitivo evidente la sopravvalutazione dei propri atti psichici. Ora sembra non esserci altro che l’azione magica, che, grazie alla sua somiglianza con il desiderato, lo costringa a verificarsi. A livello del pensiero animistico non c’è ancora modo per dimostrare obbiettivamente il vero stato di cose; solo molto più tardi, pur continuando a essere osservate tutte queste procedure, comincia a manifestarsi il fenomeno psichico del dubbio, come espressione di una già possibile tendenza alla rimozione. Allora gli uomini ammetteranno che, se non si crede negli spiriti, scongiurarli non serva a niente, e che anche il potere magico della preghiera fallisca, se dietro non opera la pietà religiosa.21

La possibilità di una magia contagiosa, basata su associazioni di contiguità, ci mostra allora che il valore psichico del desiderio e della volontà si è esteso a tutti gli atti psichici che stanno agli ordini della volontà. Esiste ora perciò una sopravvalutazione generale dei processi psichici, un atteggiamento verso il mondo che, in base alle nostre conoscenze sul rapporto tra realtà e pensiero, deve apparirci come sopravvalutazione del pensiero stesso. Le cose retrocedono rispetto alle loro rappresentazioni; ciò che si intraprende con le seconde deve verificarsi anche con le prime. Le relazioni esistenti tra le rappresentazioni sono presupposte anche tra le cose. Poiché il pensiero non conosce distanze, e riunisce con facilità in un atto di coscienza cose assai remote nello spazio e nel tempo, anche il mondo magico si pone in via telepatica al di là della distanza spaziale e tratta situazioni del passato come se fossero attuali. In epoca animistica, l’immagine speculare del mondo interiore deve rendere invisibile l’altra immagine del mondo che crediamo di riconoscere.

Del resto facciamo notare che i due principi dell’associazione – somiglianza e contiguità – si fondono nella superiore unità del contatto. L’associazione di contiguità è contatto in senso diretto, l’associazione di similarità è contatto in senso traslato. L’uso della stessa parola per i due modi di connessione cela una certa identità, che ancora non abbiamo colto nel processo psichico. È lo stesso ambito concettuale di contatto, che si è prodotto nell’analisi del tabù.22

Riassumendo potremmo ora dire: il principio che governa la magia, la tecnica del modo di pensare animistico, è l’“onnipotenza dei pensieri”.

 

3

Ho ripreso la denominazione “onnipotenza dei pensieri” da un uomo molto intelligente, che soffriva di rappresentazioni coatte, il quale, dopo essersi ristabilito grazie al trattamento psicanalitico, riuscì a dar prova della sua abilità e assennatezza.23 Si era coniata l’espressione per giustificare gli strani e inquietanti eventi che sembravano perseguitare lui come altre persone affette dal suo stesso male. Se pensava a una persona, ecco che questa gli si presentava come se l’avesse evocata; se d’improvviso s’informava sulla salute di un conoscente perso di vista da lungo tempo, gli capitava di sentirsi dire che era appena morto, quindi poteva credere di averne ricevuto un messaggio telepatico; se lanciava a un estraneo una maledizione, senza far sul serio, poteva aspettarsi che questi morisse poco dopo, sentendosi responsabile della sua morte. Nella maggior parte dei casi egli stesso era stato in grado di indicarmi, durante la cura, come era sorta l'ingannevole apparenza e come egli stesso avesse contribuito a rafforzare le proprie aspettative superstiziose.24 Tutti i nevrotici coatti sono in tal modo superstiziosi, per lo più contro la loro stessa migliore intuizione.

La sopravvivenza dell'onnipotenza dei pensieri ci si presenta con la massima chiarezza nel caso della nevrosi coatta, in cui i risultati di questo modo primitivo di pensare sono più vicini alla coscienza. Tuttavia, dobbiamo guardarci dallo scorgere in questo fenomeno un carattere distintivo di questa nevrosi; infatti, la ricerca analitica lo scopre anche nelle altre. In tutte le nevrosi, ai fini della formazione dei sintomi, non è determinante la realtà dell'esperienza ma del pensiero. I nevrotici vivono in un mondo particolare in cui, come mi sono espresso altrove, ha corso solo la “moneta nevrotica”; ciò significa che solo quel che è pensato intensamente, solo quel che è oggetto di rappresentazione accompagnata da eccitazione, conta davvero per loro, mentre la concordanza con la realtà esterna è di secondaria importanza. L’isterico ripete nei suoi attacchi e fissa mediante i suoi sintomi esperienze che si sono svolte così solo nella sua fantasia, anche se, in ultima analisi, risalgono a eventi reali o sono state costruite partendo da tali eventi.

Allo stesso modo, si fraintenderebbe il senso di colpa dei nevrotici, pretendendo di ricondurlo a misfatti reali. Un nevrotico coatto può essere oppresso da un senso di colpa, che ben si adatterebbe al colpevole di una strage, anche se si è comportato verso il prossimo come il più riguardoso e scrupoloso dei compagni fin dall'infanzia. Eppure il suo senso di colpa è fondato: è radicato negli intensi e frequenti desideri di morte che in modo inconscio si muovono in lui contro il prossimo. È fondato considerando i suoi pensieri inconsci e non gli atti intenzionalmente compiuti. Così l’onnipotenza dei pensieri, la sopravvalutazione dei processi psichici rispetto alla realtà, si dimostra operante senza limiti nella vita affettiva del nevrotico e in tutte le conseguenze derivanti. E se si sottopone a trattamento psicanalitico, facendo quindi emergere alla coscienza ciò che in lui è inconscio, non potrà credere che i suoi pensieri siano liberi e avrà costantemente il timore di esprimere i suoi desideri malvagi, quasi che questi, per il solo fatto di venire espressi, dovessero tradursi in realtà. Con questo comportamento e con la superstizione di cui danno prova le sue azioni quotidiane, il nevrotico rivela quanto sia vicino al selvaggio che presume di mutare il mondo esterno con i soli pensieri.

Le azioni coatte primarie di questi nevrotici sono propriamente di natura del tutto magica. Se non incantesimi, sono contro-incantesimi volti a proteggere dai cattivi presagi con cui di solito la nevrosi esordisce. Quando ho potuto penetrarne il mistero, è risultato che tali presagi di sventura avevano per contenuto la morte. Per Schopenhauer il problema della morte è all'inizio di ogni filosofia; abbiamo visto che anche l’origine della credenza nelle anime e nei demoni, che caratterizza l’animismo, è fatta risalire all'impressione che la morte fa sull’uomo. È difficile giudicare se le azioni coatte o protettive dei nevrotici seguano il principio di somiglianza o di contrasto, perché nelle condizioni della nevrosi sono abitualmente deformate dallo spostamento su qualche inezia, su un’azione in sé altamente insignificante.25 Anche le formule protettive della nevrosi coatta trovano la loro contropartita nelle formule di incantesimo della magia. La storia evolutiva delle azioni coatte può però essere riscritta, rilevando che, pur allontanandosi il più possibile dalla sfera sessuale, iniziano come incantesimo contro cattivi desideri, per finire nel sostituto dell’atto sessuale proibito, che imitano il più fedelmente possibile.

Accettando la già citata teoria del succedersi delle visioni del mondo nel corso dell'evoluzione umana, dove la fase animistica è seguita da quella religiosa e questa dalla scientifica, non ci sarà difficile seguire attraverso queste fasi la sorte toccata alla “onnipotenza dei pensieri”. Nello stadio animistico l’uomo attribuisce l’onnipotenza a sé stesso. Nella fase religiosa la cede agli dei, ma senza rinunciarvi veramente, perché si riserva di influire in svariati modi sugli dei per orientarne il volere secondo i propri desideri. Nella concezione scientifica del mondo non c’è più posto per l’onnipotenza dell'uomo, che riconosce la sua pochezza e si sottomette con rassegnazione alla morte come a tutte le altre necessità della natura. Ma parte della primitiva fede nell’onnipotenza sopravvive nella fiducia nel potere dello spirito umano, che fa i conti con le leggi della realtà.

Ripercorrendo in senso inverso l’evoluzione delle aspirazioni libidiche dell'individuo, dalla forma assunta nella maturità fino agli inizi dell’infanzia, emerge una distinzione importante, da me esposta nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Le manifestazioni delle pulsioni sessuali sono riconoscibili fin dall'inizio, ma da principio non si indirizzano ancora su un oggetto esterno. Le singole componenti pulsionali della sessualità operano indipendentemente le une dalle altre al fine di acquisire piacere e trovano il loro soddisfacimento nel corpo stesso del soggetto. Questo stadio è detto dell’autoerotismo, cui succede lo stadio della scelta oggettuale.

L’ulteriore studio ha mostrato l'opportunità, anzi l'inevitabilità, di un terzo stadio tra questi due, o, se si preferisce, di scomporre in due il primo stadio autoerotico. Nello stadio intermedio, la cui importanza si va sempre più imponendo nella ricerca, le pulsioni sessuali prima isolate si sono già composte in unità e hanno anche trovato un oggetto; non è un oggetto esterno, estraneo all'individuo, ma è il suo stesso Io, che in questo periodo si va costituendo. Tenendo conto di fissazioni patologiche di questo stato, che si osserveranno più tardi, diamo al nuovo stadio il nome di “narcisismo”. La persona si comporta come se fosse innamorata di sé stessa; ai fini della nostra analisi le pulsioni dell’Io e i desideri libidici non sono ancora tra loro separabili.

Sebbene non ci sia ancora possibile caratterizzare con sufficiente nettezza questo stadio narcisistico, in cui le pulsioni sessuali finora dissociate si compongono in unità e occupano come oggetto l’Io, tuttavia possiamo già intuire che all’organizzazione narcisistica non si rinuncerà mai più del tutto. L’uomo resta in una certa misura narcisista anche dopo aver rinvenuto oggetti esterni per la sua libido; gli investimenti oggettuali che intraprende sono per così dire emanazioni della libido rimasta nell’Io, e possono essere di nuovo riportati ad essa. La situazione dell’innamoramento, che è così singolare dal punto di vista psicologico e costituisce la prefigurazione normale delle psicosi, corrisponde alla massima intensità di queste emanazioni in rapporto al livello dell'amore dell’Io.

A questo punto è ovvio porre in rapporto con il narcisismo, considerato sua componente essenziale, l’alto valore da noi riscontrato (dal nostro punto di vista una sopravvalutazione), che l’uomo primitivo e il nevrotico attribuiscono alle azioni psichiche. Diremmo che tra i primitivi il pensiero è ancora in larga misura sessualizzato; di qui deriva la credenza nell'onnipotenza dei pensieri, la fiducia incrollabile nella possibilità di dominare il mondo e la refrattarietà alle pur facili esperienze che potrebbero far capire all’uomo la posizione reale che occupa nel mondo. Nei nevrotici, da un lato rimane costituzionale parte considerevole di tale atteggiamento primitivo, dall’altro, la rimozione sessuale, subentrata in essi, provoca l’ulteriore sessualizzazione dei processi di pensiero. Le conseguenze psichiche devono essere le stesse nei due casi, o che la sovraoccupazione libidica del pensiero sia originaria, o che si raggiunga in via regressiva: narcisismo intellettuale e onnipotenza dei pensieri.26

Se è lecito vedere nella dimostrata onnipotenza dei pensieri tra i primitivi una testimonianza del narcisismo, possiamo allora tentare di confrontare i gradi di sviluppo della concezione che gli uomini hanno del mondo con gli stadi dello sviluppo libidico dell’individuo. Allora, sia per la cronologia sia per il contenuto, la fase animistica corrisponde al narcisismo; la fase religiosa allo stadio di rinvenimento dell’oggetto, caratterizzato dall’attaccamento del bambino ai suoi genitori, e la fase scientifica trova l’esatto corrispettivo nello stato di maturità dell'individuo, che ha rinunciato al principio di piacere e, adeguandosi alla realtà, cerca il suo oggetto nel mondo esterno.27

Nella nostra civiltà l’“onnipotenza dei pensieri” si è mantenuta solo in un ambito, quello dell'arte. Solo nell’arte succede ancora che un uomo consumato da desideri riesca a fare qualcosa di affine alla loro soddisfazione, e che il gioco, grazie all’illusione artistica, abbia il potere di evocare le stesse reazioni affettive della realtà. Si parla a ragione di magia dell’arte e si paragona l’artista a un mago. Ma forse il paragone è più significativo di quanto aspiri ad essere. L’arte, che non ha certo esordito come l’art pour l’art, era in origine al servizio di tendenze oggi in gran parte estinte. Si può supporre che fra queste si trovassero intenzioni magiche di ogni sorta.28

 

4

L’animismo, la prima concezione del mondo cui l’uomo sia giunto, era dunque psicologico; non aveva ancora bisogno di scienza per fondarsi, perché la scienza subentra solo quando si è visto che non si conosce il mondo e quindi vanno cercate vie per conoscerlo. L’animismo era un fatto naturale e ovvio per l'uomo primitivo; sapeva come sono le cose del mondo, così come percepiva sé stesso. Siamo quindi pronti a scoprire che l’uomo primitivo spostava nel mondo esterno rapporti strutturali della propria psiche,29 e possiamo d’altra parte tentare di ritrasferire all’anima umana quanto l’animismo insegna sulla natura delle cose.

La tecnica dell’animismo, la magia, ci mostra nel modo più chiaro e meno pasticciato l'intenzione di imporre le leggi della vita psichica alle cose reali, dove non è ancora necessario che gli spiriti abbiano un ruolo, anche se si possono trattare magicamente da oggetti. Le premesse della magia sono quindi più primitive e più antiche della dottrina degli spiriti, che forma il nucleo dell'animismo. La nostra concezione psicanalitica coincide qui con la teoria di R. R. Marett, che fa precedere l'animismo da uno stadio preanimistico, il cui carattere è meglio definito con il nome di animatismo (teoria dell’animazione generale). Non c’è molto di più da dire per esperienza sul pre-animismo, non essendo stato ancora trovato un popolo senza rappresentazioni di spiriti.30

Mentre la magia si riserva ancora tutta l’onnipotenza dei pensieri, l’animismo ha ceduto parte di tale onnipotenza agli spiriti, aprendo così la strada al formarsi di una religione. Ma che cosa avrà mai spinto l'uomo primitivo a questa rinuncia? Non certo la consapevolezza dell’erroneità delle proprie premesse, perché mantiene la tecnica magica.

Spiriti e demoni, come abbiamo accennato altrove, sono proiezioni dei suoi moti emotivi.31 Trasforma le proprie eccitazioni in personaggi, con cui popola il mondo, e ritrova poi al di fuori di sé i propri processi psichici interni, in modo del tutto analogo a quello seguito da quel paranoico ricco di spirito, Schreber, che trovava riflessi i legami e i distacchi della propria libido nei destini dei “raggi di Dio” da lui combinati.32

In questa sede, come in una precedente occasione,33 vogliamo evitare il problema di quale sia il fondamento della tendenza generale a proiettare all’esterno i propri processi psichici. C’è un’ipotesi, però, che possiamo arrischiare: la tendenza si rinforza nei casi in cui la proiezione reca con sé il vantaggio di un sollievo psichico. Un vantaggio del genere è prevedibile con certezza quando gli impulsi, che aspirano tutti all’onnipotenza, entrano in conflitto tra loro, perché evidentemente non tutti possono diventare onnipotenti. Il processo morboso della paranoia si serve effettivamente del meccanismo della proiezione per eliminare tali conflitti sorti nella vita psichica. Ora, l’esempio paradigmatico di tale conflitto è quello tra i due membri di una coppia di opposti; è il caso dell’atteggiamento ambivalente che abbiamo esaurientemente analizzato nella situazione della persona in lutto per la morte di un caro congiunto. Un caso del genere ci sembra particolarmente indicato per motivare la creazione di proiezioni. Anche qui le nostre opinioni concordano con gli autori che vedono negli spiriti maligni i primi nati tra gli spiriti e derivano l’origine delle rappresentazioni psichiche dall’impressione della morte sui sopravvissuti. L’unica differenza che facciamo è che non premettiamo il problema intellettuale che la morte impone al vivente, ma rimandiamo alla forza che spinge all’indagine nel conflitto emotivo in cui questa situazione getta il sopravvissuto.

La prima prestazione teorica dell’uomo – la creazione degli spiriti – sorgerebbe dunque dalla stessa fonte delle prime limitazioni morali cui si sottomette, le prescrizioni tabù. Tuttavia, l’uguaglianza dell’origine non deve pregiudicare la contemporaneità dello sviluppo. Se fu veramente la situazione del sopravvissuto rispetto al morto a indurre innanzitutto l’uomo primitivo a riflettere, costringendolo a cedere agli spiriti parte della sua onnipotenza e a sacrificare parte del libero arbitrio che informava le sue azioni, queste creazioni culturali andrebbero allora intese come il primo riconoscimento dell’Ananke (Necessità) che si oppone al narcisismo dell’uomo. Il primitivo si piegherebbe alla superiorità della morte nell’atto stesso in cui sembra rinnegarla.

Avendo il coraggio di continuare a sfruttare le nostre premesse, possiamo chiederci quale parte essenziale della nostra struttura psicologica si trovi riflessa e ritorni nella creazione proiettiva di anime e spiriti. È allora difficile contestare che la rappresentazione primitiva delle anime, per quanto si discosti ancora dall’anima interamente immateriale delle concezioni successive, pure coincide con questa nell’essenziale, e quindi concepisce la persona e la cosa come una dualità, su cui le qualità e modificazioni a noi note dell’intero sono distribuite. Tale originaria dualità, per usare un'espressione di H. Spencer,34 è già identica al dualismo che si manifesta nella separazione per noi corrente di spirito e corpo, le cui indistruttibili espressioni linguistiche si riconoscono nella descrizione della rabbia o dello svenimento come essere fuori di sé.35

Ciò che noi, esattamente come il primitivo, proiettiamo nella realtà esterna non può essere altro che riconoscere una situazione in cui, da un lato, una cosa data ai sensi e alla coscienza è presente, e dall’altro la stessa cosa, in condizioni diverse, è latente, ma può riemergere. Significa quindi riconoscere che coesistono percezione e ricordo, ossia, in termini più generali, esistono processi psichici inconsci accanto a processi consci.36 Si potrebbe dire che lo “spirito” di una persona o di una cosa si riduce in ultima analisi alla loro capacità di essere ricordate e rappresentate, se sottratte alla percezione.

Certo non dovremo aspettarci né dalla rappresentazione primitiva né dall’odierna di “anima” che il loro modo di delimitare l’altra metà [della personalità] si attenga alle linee che la nostra scienza attuale traccia tra attività coscia e inconscia della psiche. Piuttosto l’anima animistica unisce in sé tratti di entrambi gli aspetti. La sua fugacità e mobilità, la sua capacità di abbandonare il corpo, di prendere durevolmente o fuggevolmente possesso di un altro corpo sono caratteri che ricordano inconfondibilmente l’essenza della coscienza. Ma il modo in cui si mantiene celata dietro ciò che appare della personalità ricorda l'inconscio; oggi noi attribuiamo immutabilità e indistruttibilità non più ai processi consci ma agli inconsci, che consideriamo anche i veri e propri portatori dell’attività psichica.

Abbiamo detto prima che l’animismo è un sistema di pensiero, la prima teoria completa del mondo, e ora vogliamo trarre conseguenze certe dalla concezione psicanalitica di tale sistema. L’esperienza quotidiana può tornare sempre a riproporci di nuovo le qualità principali del “sistema”. Sogniamo la notte e abbiamo appreso a interpretare il sogno di giorno. Il sogno può apparire, senza rinnegare la sua natura, confuso e sconnesso, ma può anche, al contrario, imitare l'ordine delle impressioni di un evento vissuto, dedurre una vicenda dall'altra e stabilire delle relazioni fra sue parti diverse. Ciò può riuscirgli più o meno bene, ma quasi mai in modo così perfetto da non lasciar trapelare da qualche parte un'assurdità, uno strappo nella trama. Sottoponendo il sogno a interpretazione, veniamo a sapere che la disposizione incoerente e incostante delle parti del sogno è del tutto irrilevante ai fini della sua comprensione. L’essenziale del sogno sono i pensieri onirici che in ogni caso sono sensati, connessi e ordinati. Ma il loro ordine è del tutto diverso da quello che ricordiamo nel contenuto manifesto del sogno. La connessione dei pensieri del sogno è andata persa; può in generale o rimanere tale o essere sostituita da una nuova connessione del contenuto onirico. Quasi regolarmente, a prescindere dalla condensazione degli elementi onirici, si produce un nuovo ordine degli stessi elementi, più o meno indipendente dalla precedente disposizione. Concludendo diciamo che il ricavato del lavoro onirico dal materiale dei pensieri onirici ha subito un nuovo influsso, la cosiddetta elaborazione secondaria, il cui scopo mira evidentemente a eliminare l’incoerenza e l’incomprensibilità risultante dal lavoro onirico, a favore di un nuovo senso. Il nuovo senso, conseguito attraverso l'elaborazione secondaria, non è più il senso dei pensieri onirici.

L’elaborazione secondaria del prodotto del lavoro onirico è un eccellente esempio della natura e delle esigenze di un sistema. In noi una funzione intellettuale richiede unificazione, connessione e comprensibilità di ogni materiale della percezione o del pensiero di cui si impadronisce, e non esita a produrre una falsa connessione se, per circostanze particolari, non è in grado di afferrare la vera. Conosciamo questa costruzione di sistemi non solo dal sogno ma anche dalle fobie, dal pensiero coatto e dai deliri. La costruzione di sistemi è più evidente nelle malattie deliranti (nella paranoia), dove domina il quadro clinico, ma non si può trascurare in altre forme di neuropsicosi. In tutti i casi possiamo dimostrare che ha avuto luogo un riordinamento del materiale psichico per un nuovo scopo, spesso in fondo assai violento, se sembra comprensibile solo dal punto di vista del sistema. Allora ciò che meglio caratterizza la formazione del sistema è che ogni suo prodotto permette di scoprire almeno due possibili spiegazioni: una derivante dalle premesse del sistema stesso, eventualmente delirante, e una nascosta ma che dobbiamo riconoscere come la spiegazione effettiva, reale.

Per chiarire, un esempio tratto da una nevrosi. Nel saggio sul tabù ho citato una malata i cui divieti coatti mostrano le migliori coincidenze con il tabù dei Maori. La nevrosi di questa donna è diretta al marito e culmina nella difesa contro l’inconscio desiderio che muoia. La sua fobia manifesta, sistematica, riguarda però la menzione della morte in generale, da cui è completamente escluso il marito, che non diventa mai oggetto di preoccupazione cosciente. Un giorno la donna sente che il marito incarica di portare ad affilare i suoi rasoi, che non tagliano più, in un determinato negozio. Spinta da una singolare inquietudine, la donna si reca personalmente nei pressi di quel negozio e al ritorno dalla sua ricognizione chiede al marito di sbarazzarsi per sempre di quei rasoi, perché ha scoperto, dice, che accanto al suddetto negozio c’è un deposito di bare e oggetti funebri. Secondo il suo modo di vedere i rasoi sono incappati in un indissolubile rapporto con il pensiero della morte. Questa è ora la motivazione sistematica del divieto. Ma possiamo star sicuri che la paziente avrebbe riportato a casa il divieto dei rasoi anche senza scoprire quella vicinanza. Sarebbe bastato, infatti, che sulla strada verso il negozio avesse incontrato un carro funebre, una persona vestita a lutto o qualcuno che stava portando una corona mortuaria. La rete delle possibilità era sufficientemente ampia per catturare la preda in ogni caso: a questo punto, dipendeva dalla donna fare scattare la trappola o no. Fu possibile stabilire con certezza che in altri casi non attivò le condizioni del divieto. In tali circostanze, affermava di aver avuto “una giornata migliore”. La causa reale del divieto dei rasoi era naturalmente – lo indoviniamo facilmente – il suo rifiuto di un certo piacere all’idea che il marito potesse tagliarsi la gola con il rasoio affilato.

In modo del tutto simile si perfeziona e si precisa nei dettagli l’inibizione a camminare, un’abasia o un’agorafobia, quando il sintomo sia riuscito a imporsi come rappresentante di un desiderio inconscio e della difesa contro lo stesso. La parte di fantasie inconsce ancora presente e di reminiscenze operanti nel malato spinge a esprimersi come sintomo in questo sbocco ormai aperto, e si dispone in un nuovo, opportuno ordinamento nell’ambito del disturbo del cammino. Sarebbe perciò un inizio inutile, anzi propriamente parlando assurdo, pretendere di capire la compagine sintomatica e i dettagli, per esempio, di un’agorafobia partendo dalla sua premessa di base. Le conseguenze e il rigore dell’intera connessione sono mere apparenze. Come nella facciata del sogno, un’osservazione più penetrante può scoprire incoerenze e assurdità assai marcate nel modo di formarsi dei sintomi. I dettagli di una fobia sistematica come questa hanno la loro motivazione reale in determinanti nascoste, che non necessariamente hanno a che fare con l’inibizione a camminare; perciò tale fobia assume in persone diverse le configurazioni più svariate e contraddittorie.

Tornando al sistema animistico, di cui ci stiamo occupando, le conoscenze cui siamo pervenuti in altri sistemi psicologici ci permettono di concludere che, anche presso i primitivi, la motivazione attraverso la “superstizione” non è necessariamente l’unica o l’autentica motivazione di un particolare costume o prescrizione e non ci dispensa dall’obbligo di cercarne le ragioni nascoste. Quando predomina un sistema animistico, è inevitabile che ogni prescrizione e ogni attività assuma una giustificazione sistematica, che oggi chiamiamo “superstiziosa”. La “superstizione”, come l’“angoscia” o il "sogno" o il "demone", sono delle provvisorietà psicologiche, dissolte dalla ricerca psicanalitica. Aggirando tali costruzioni, che si oppongono alla conoscenza come paraventi, si intuisce che la vita psichica e il livello di civiltà dei selvaggi meritano un apprezzamento finora non riconosciuto.

Considerata la rimozione delle pulsioni come misura del livello di civiltà raggiunto, si deve ammettere che anche con il sistema animistico si sono verificati progressi e sviluppi oggi a torto poco apprezzati per via della loro motivazione superstiziosa. Quando sentiamo che i guerrieri di una tribù selvaggia, appena si mettono sul sentiero di guerra,37 s’impongono la massima continenza e pulizia, la spiegazione per noi ovvia è che eliminano i loro rifiuti affinché il nemico non si impadronisca di questa parte della loro persona per danneggiarli con la magia, e per la loro continenza dobbiamo congetturare gli stessi motivi superstiziosi. Nondimeno il fatto della rinuncia pulsionale sussiste e comprendiamo assai meglio il caso assumendo che il guerriero selvaggio s’imponga queste restrizioni per stabilire un equilibrio, perché sta per permettere ai i suoi impulsi più crudeli e ostili, di norma interdetti, di trovare pieno sfogo. Lo stesso vale per i numerosi casi di restrizione sessuale, almeno finché ci si riferisce a lavori seri e responsabili.38

Benché la giustificazione di questi divieti possa riferirsi a un contesto magico, l’idea fondamentale – di acquisire più forza rinunciando alla soddisfazione pulsionale – resta tuttavia indubitabile e accanto alla sua razionalizzazione magica non va trascurata la radice igienica del divieto. Quando gli uomini di una tribù selvaggia partono per la caccia, la pesca, la guerra, la raccolta di erbe preziose, le loro donne, che restano a casa, sono soggette a numerose, pesanti restrizioni, cui i selvaggi attribuiscono un effetto solidale, valido anche a distanza, sulla riuscita della spedizione. Non occorre peraltro un acume particolare per capire che il fattore che opera a distanza è la preoccupazione costante della donna che il suo uomo torni a casa, la sua nostalgia; ed è facile arguire che sotto questi travestimenti si celi un ben fondato giudizio psicologico: gli uomini fanno del loro meglio solo se si sentono del tutto tranquilli su quel che fanno le loro donne che hanno lasciato incustodite. Altre volte è detto in modo esplicito, senza ricorrere ad alcuna motivazione magica, che l’infedeltà coniugale della donna porta al fallimento degli sforzi del marito assente per attività responsabili.

Le innumerevoli prescrizioni tabù, cui le mogli dei selvaggi soggiacciono durante la mestruazione, sono motivate dal timore superstizioso del sangue e hanno in esso una giustificazione reale. Sarebbe comunque sbagliato trascurare la possibilità che questo timore del sangue si ponga in questo caso anche al servizio di finalità estetiche e igieniche, costrette comunque a drappeggiarsi con motivazioni magiche.

Non ci nascondiamo affatto che, con questi tentativi di spiegazione, ci esponiamo al rimprovero di attribuire all’attività psichica dei selvaggi odierni una finezza che va al di là del verosimile. Tuttavia penso che, nel considerare la psicologia di questi uomini rimasti a livello animistico, succede facilmente quel che accade nella vita psichica del bambino, che noi adulti non comprendiamo più e di cui perciò abbiamo tanto sottovalutato la ricchezza e la sensibilità.

Voglio ancora considerare un gruppo di prescrizioni tabù finora non chiarite, che meritano di essere prese in considerazione, perché consentono una delucidazione familiare allo psicanalista. Tra molti popoli selvaggi è proibito, in varie circostanze, tenere in casa armi affilate e strumenti taglienti.39 Frazer cita una superstizione tedesca secondo cui non è lecito lasciare un coltello con la lama verso l’alto: Dio e gli angeli potrebbero esserne feriti. Non dobbiamo forse riconoscere in questo tabù il presentimento di certe “azioni sintomatiche” in cui l’arma tagliente potrebbe essere usata sotto l’impulso di moti inconsci malvagi?

 

1 La richiesta concentrazione del materiale comporta anche la rinuncia a indicazioni bibliografiche approfondite. Limitiamoci quindi a rimandare alle opere fondamentali di Herbert Spencer, J.G. Frazer, Andrew Lang, E.B. Tylor e Wilhelm Wundt, da cui sono tratte tutte le enunciazioni principali su animismo e magia. L’autonomia dell’autore si manifesta solo nella scelta da lui operata sia del materiale sia delle opinioni.

2 E.B. Tylor, Primitive Culture, vol. 1, p. 425, 3a ed., 2 voll., Londra 1891; W. Wundt, Volkerpsychologie, vol. 2: “Mythus und Religion”, pt. 2, Lipsia 1906, pp. 142 sg., 17.

3 Wundt, cit., cap. 4, "Die Seelenvorstellungen”.

4 Cfr. oltre a Wundt e Spencer l’articolo orientativo dell’Enciclopedia Britannica (1911) Animismo, mitologia ecc.

5 Wundt, cit., p. 154.

6 V. Tylor, Primitive Culture, vol. I, p. 477.

7 S. Reinach, Cultes, mythes et religions, vol. 2, p. XV, 4 voll., Parigi 1905-1912.

8 H. Hubert e M. Mauss, Esquisse d’une théorie générale de la magie, Année sociolog., vol. 7, 1, 1904.

9 Se si scaccia uno spirito con grida e rumore, si tratta di un’azione di puro e semplice incantesimo; se si esercita costrizione su di lui impadronendosi del suo nome, si è usata magia contro di lui.

10 J.G. Frazer, “The Magic Art and the Evolution of the Kings” in The Golden Bough, vol. 1, p. 67, 3a ed., Londra 1911-14.

11 Il divieto biblico di farsi un'immagine di qualcosa di vivente non nasceva certo da una ripulsa di principio dell’arte figurativa, ma era destinato a sottrarre alla magia, rigorosamente proibita dalla religione ebraica, uno dei suoi utensili.

12 The Magic Art, II, p. 98.

13 Da lì un’allusione all’Edipo Re di Sofocle.

14 Ivi, p. 120.

15 Ivi, p. 122.

16 Ivi, p. 201-203.

17 Ivi, p. 420 sg.

18 Cfr. l’articolo Magia nella XI edizione dell’Enciclopedia Britannica.

19 Ivi, p. 54.

20 S. Freud, “Formulierungen über die zwei Prinzipien des psychischen Geschehens” (1911, Formulazioni dei due principi dell’accadere psichico), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. VIII, p. 230 (d’ora in poi SFGW).

21 ll re in Amleto: “Le mie parole volano su, i miei pensieri restano in basso; parole senza pensieri mai non giungono in cielo” (atto 3, scena 3).

22 V. il secondo saggio in questa serie.

23 S. Freud, “Bemerkungen über einen Fall von Zwangsneurose” (1909, Osservazioni su un caso di nevrosi coatta) in SFGW, vol. VII, p. 381.

24 Sembra che noi attribuiamo il carattere “inquietante” alle impressioni che tendono a confermare l'onnipotenza dei pensieri e il modo di pensare animistico in generale, anche se nel nostro giudizio ci siamo già distolti da esse.

25 Un ulteriore motivo di spostamento su un’azione da nulla risulterà dalle discussioni successive.

26 “È quasi un assioma, per gli scrittori che si interessano a questo argomento, che nel selvaggio operi una specie di solipsismo o di berkeleismo (come lo definisce il professor Sully, rintracciandolo nel bambino), che lo induce a rifiutare di riconoscere la morte come un fatto.” R.R. Marett, Pre-Animistic Religion, Folklore, vol. XI, p. 178, 1900.

27 Va qui solo accennato al fatto che il narcisismo originario del bambino è decisivo per la concezione dello sviluppo del carattere ed esclude l'ipotesi del primitivo senso di inferiorità.

28 S. Reinach, L'art et la magie in Cultes, Mythes et Religions, vol. I, pp. 125-136. Reinach pensa che gli artisti primitivi, i quali ci hanno tramandato le immagini di animali graffite o dipinte nelle grotte della Francia, non volevano “allietare” ma “scongiurare”. Spiega così il fatto che questi disegni si trovino nelle parti più oscure e inaccessibili delle caverne e manchino le raffigurazioni dei temuti animali da preda. “Gli uomini d'oggi parlano spesso iperbolicamente della magia del pennello o dello scalpello d'un grande artista, e, in generale, della magia dell'arte. Intesa nel suo senso proprio, che indica una costrizione mistica esercitata dalla volontà dell’uomo su altre volontà o sulle cose, questa espressione non è più ammissibile; ma abbiamo visto che, in altre epoche, era rigorosamente vera, se non altro nella credenza degli artisti" (ivi, p. 1 36).

29 Riconosciuti attraverso la cosiddetta percezione endopsichica.

30 R.R. Marett, Pre-animistic Religion, Folklore, vol. XI, 2, London 1900. Cfr.

Wundt, Mythus und Religion, vol. II, p. 171 sg.

31 Supponiamo che in tale primitivo stadio narcisistico si unifichino occupazioni libidiche provenienti da altre fonti di eccitamento in maniera forse ancora indistinguibile.

32 V. D.P. Schreber, Denkwürdigkeiten eines Nervenkranken, Lipsia 1901 [“Memorie di un malato di nervi”, trad. F. Scardanelli e S. de Waal (Adelphi, Milano 1974)]. S. Freud, “Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia” (1911 Osservazioni psicanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente) in SFGW, vol. VIII, p. 240.

33 Cfr. l’ultimo saggio citato sul presidente Schreber.

34 H. Spencer, Principi di sociologia, vol. I, p. 213, UTET, Torino 1967.

35 Ibidem.

36 V. la mia breve Nota sull’inconscio in psicanalisi (1912) in SFGW, vol. VIII, p. 430.

37 Frazer, I pericoli dell’anima, p. 158.

38 Ivi, p. 200.

39 Frazer, cit. p. 237.

 

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