Mio padre era preoccupato per il rendimento scolastico – «Veda, il profitto … ehm … lascia a desiderare» – era la risposta fin dalle elementari, specie dopo che il Maestro Morselli aveva scoperto che non sapevo la quattro operazioni e mi aveva rimandato a settembre in terza elementare [01]. Poi, bene o male, avevo cambiato insegnante, per l’ultimo ciclo, e col maestro Guardabassi tutto era filato liscio e mi ero guadagnato la licenza elementare alle “Pascoli.” Il fatto è che a me interessavano di più i bombardamenti, le sirene d’allarme, le case diroccate e, nelle pause libere, stavo al Pontevecchio in un campetto rimediato a giocare a pallone.
Non solo la scuola preoccupava mio padre, ma anche le mie “scomparse” pomeridiane. Pensò bene d’incaricare il fidato “Pirulo”, l’usciere-capo della segreteria di “Palazzo Pizzardi” – la sede compartimentale delle FS bolognesi – di seguirmi di soppiatto per guardare cosa diavolo facessi. Da tempo andavo a scuola da solo, oltre che a comperare il pane per tutti, in Via Guinizzelli, che si riduceva di un terzo al mio ritorno al civico 7 di Via Ernesto Masi. “Pirulo”, al secolo Guermandi, non poté che confermare quello che vedeva e mio padre anziché rasserenarsi, prese a preoccuparsi di più, tanto che mi tenne con sé all’ufficio nel pomeriggio per controllare i compiti. Inutile dire che io avevo fatto amicizia con molti impiegati, soprattutto i dattilografi, che mi facevano esercitare anche con la carta-carbone e la carta-velina. Uno poi, Ferdinando Bettini, disegnava benissimo e io lo tormentavo scrivendo un diario con dei riquadri che lui poi illustrava. Solo a guerra finita seppi che aveva militato nei partigiani e si era guadagnato anche una medaglia.
Intanto, con la primavera del ’43, i bombardamenti su Bologna si erano intensificati. Divennero quotidiani e cruenti, Avevo già maturato una certa esperienza di bombardamenti, ma non di fame, come in altre città d’Italia che “combattevano” con le tessere annonarie, le “file”, per qualunque cosa e la “borsa-nera”. Già dall’anno precedente non eravamo andati dai nonni a Palermo perché non era possibile. Infatti, il 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcheranno in Sicilia. Gli americani di Patton tra Gela e Licata, gl’inglesi di Montgomery nel Golfo di Noto. Non andammo neppure a Bellaria quella estate. I miei avevano altro che pensare. La guerra era diventata “cattiva” – come diceva la Margherita, quella che veniva a fare il bucato – e prendeva ogni nostra attività rendendola difficile. A me stava bene così. Non è che pensassi di dover meritare la vacanza sulla riviera romagnola per aver ottenuto semplicemente la licenza elementare.
Poi il 25 luglio la notizia bomba giunse fino al secondo piano di Via Ernesto Masi dalla signora che aveva la radio: la caduta di Mussolini. Difficile da immaginare, dopo 20 anni. Chi gioiva e faceva baccano per le strade, chi si nascondeva, chi scappava dicendo di non essere mai stato fascista e quelli della mia età che non sapevano cosa pensare. E ora che si fa? E la guerra? E Badoglio? E Graziani? Ma il Re? Non dormiva certo, il re, anche se non aveva mosso un dito nel ventennio. Ma andiamo con ordine. Il 1 gennaio ’43, era iniziato l’anno del finimondo ed io non mi ero nemmeno posto il problema che si potesse cadere dalla padella nella brace. Solo dai documenti storici avremmo saputo che c’erano state lettere di Vittorio Emanuele al Ministro Acquarone, fin dal gennaio 1943, per liquidare Mussolini ma, stante la complicazione della guerra, la Maestà, esitava. Di fatto, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo – che non si riuniva da 4 anni – chiese le dimissioni di Mussolini votando l’O.d.G. Dino Grandi: 19 favorevoli 7 contrari. Il 25 luglio 1943 il re lo fece arrestare dai Carabinieri a Villa Ada e una ambulanza lo portò via. Restò prigioniero a Campo Imperatore. Titta Arista speaker radiofonico annuncia che il re Vittorio Emanuele III ha fatto arrestare Benito Mussolini e ha posto a capo del nuovo governo il generale Pietro Badoglio il quale ci informa che «La guerra continua». Tutti in confusione, la più totale.
Il 3 settembre 1943 a Cassibile, nel siracusano, il generale Antonio Castellano col pari grado Dwight Eisenhower, per conto di Badoglio, firma l’armistizio “corto”, col quale il Regno d’Italia si arrende senza condizioni agli Alleati. È chiaro che chi scrive il copione della tragedia – a guerra è persa – è Vittorio Emanuele III che, solo ora, pensa di sganciarsi dalla Germania nazista di Adolf Hitler. Non si può non prendere atto che da questo momento inizia la guerra civile italiana. Anche quella ci voleva! I generali tedeschi la chiamarono “campagna d'Italia”. Quelli che si opposero con le armi della “Resistenza” per combattere dalla parte giusta, dissero che fu “guerra di liberazione”. Quelli che combatterono dalla parte sbagliata aderendo alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) o, peggio, essendo complici dei nazisti nelle stragi civili italiane, fu qualificata, per l’appunto, soldataglia “nazi-fascista”. Questo è vergognoso oltre che imperdonabile! Io c’ero, avevo undici anni, ma ero presente e sapevo leggere e scrivere. Ho sentito con le mie orecchie, gli altoparlanti, letto coi miei occhi i manifesti «Per ogni soldato tedesco dieci italiani verranno giustiziati». Purtroppo lo avrei anche visto, l’anno dopo. I giustiziati, della strage del cavalcavia (9 ottobre 1944) a Casalecchio di Reno, di rientro in città da Ponte Ronca, traguardando i morti tra le braccia di mia madre.
Tutti oggi conoscono le ragioni (e sono sconcertanti) per cui la “pace corta” di Cassibile, avrebbe dovuto essere tenuta segreta per cinque giorni, vale a dire fino all’annuncio ufficiale dello storico comunicato di Pietro Badoglio diffuso alle 19:42 dell’8 settembre 1943 dai microfoni dell’EIAR. Floriano il mio idraulico di fiducia è un fine osservatore politico sempre aggiornato sulla politica internazionale. La sua filosofia è semplice. È un rumeno, discendente dei Traci – come mi spiega chino sul “Gerberit” inceppato – i danubiani prima degli slavi, il popolo sconfitto da Claudio, dunque una provincia romana. «Vede professò, un Imperatore, un Re, un Capo che comanda, non deve fa’ un c…. tutta la vita, ma quando viene il momento suo non ha scelta. Deve morire con onore. Anche Ceausescu con Elena…». Quella volta dovetti spiegargli che l’Italia non era una provincia romana e tanto meno una nazione europea, ma uno straordinario e ricchissimo «paese là dove ’l sì suona» [02], rimasto ai tempi dei Comuni e delle Signorie. Sempre in lite col Papa o l’Imperatore.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia dietro precisa istruzione di Hitler e anche con qualche suggerimento di Erwin Rommel – “la volpe del deserto” – fu incaricato della “ritirata strategica”. Una risalita della penisola divenuta nemica,lunga milleduecento chilometri di d’arte e civiltà millenaria, vendendo a caro prezzo l’ideologia nazi-fascista, ottusa, feroce, inutile, scartata dalla storia, senza prospettiva che quella di morte. Predispose 5 linee difensive per rallentare l’avanzata degli alleati. Mise a ferro e fuoco ben 1500 chilometri di “bel paese”. decise di vendere cara la pelle. “À la guerre comme à la guerre”, dicono i Francesi. Non solo fu autore di eccidi orrendi ma rapinò tutto quello che poteva riempiendo treni interi di opere d’arte. A Firenze, per esempio, fece saltare cinque dei sei ponti sull’Arno. Tale Fritz Todt ministro degli armamenti e degli approvvigionamenti del Reich, in sinergia coi comandi militari fu incaricato di razziare lavoratori da portare in Germania come “prigionieri” per il lavoro coatto. Io quelle retate le ho viste. In Europa catturò un milione e mezzo di persone.
Più di una quarantina di linee difensive italiane avrebbero dovuto rendere impossibile la risalita della penisola agli Alleati: 3 in Sicilia, 22 in Italia centro-meridionale, 20 in Italia settentrionale, l’ultima delle quali era stata battezzate – pomposamente – da Herman Goering, "Fortezza delle Alpi", («Alpenfestung»). Tutto programmato, tutto previsto, anche la fine di tutto, la soluzione finale («Vernichtungsplan ») per tutti, secondo Hitler. Nelle intenzioni della propaganda nazista il “Ridotto alpino" avrebbe dovuto essere quella che per noi – contro gli austriaci – fu la “linea del Piave”. Io, mi ero venuto a trovare proprio alle spalle della “Linea Gotica” («Gotenstellung ») quella di Monte Sole, Marzabotto, Casaglia, Grizzana … tanto per intenderci, gli eccidi del 29 settembre – 5 ottobre 1944.
Io e i miei imparammo a scappare senza tregua, in una altalena di terrore dentro e fuori città. Da Via Masi ai calanchi bolognesi e da San Martino in Casola nuovamente a Via Masi. Infine trovammo rifugio sotto le Due Torri, per rifugiarci al civico 6 di Via Zamboni, con la speranza della “Città Aperta”. La colonna sonora, di quei 20 mesi di guerra, anche di ribellione partigiana, fu il fragore delle armi, le bombe delle “Fortezze volanti”, la mitragliata a bassa quota dei Thunderbolt americani. La location la città di Bologna con Via Ugo Bassi protagonista. Ci fu un primo attentato partigiano al “Baglioni” dove alloggiavano gli alti comandi tedeschi, le gerarchie del PFR, ufficiali della RSI, il 29 Settembre ’44. Un secondo fu preparato il 18 ottobre 1944, da “gappisti” travestiti con divise di soldati tedeschi e militi fascisti, che fecero esplodere un’autovettura con diversi chili di tritolo. Il 7 novembre 1944 fu combattuta la “Battaglia di Porta Lame” da contingenti della GAP e forze della RSI nelle vicinanze della porta omonima. Noi o eravamo sfollati o eravamo tappati in casa. Smettemmo di fuggire solo il 25 aprile 1945, giorno della “Liberazione” di Bologna [03].
Note
01. Copiavo i risultati degli esercizi di matematica assegnati per casa, dai quaderni dei compagni, prima di entrare in classe
02. «Le genti del bel paese là dove ’l sì suona», (Inf. XXXIII, vv. 79-80)
03. Cfr. 25 aprile 1945. La mia “Festa di Liberazione” di Sergio Mellina. POL.IT. Psychiatry on line Italia del 24 agosto, 2021
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