Rigoroso e profondo, il saggio di Rita Bruschi costituisce la prima parte del volume Giuseppe Conte Il carattere di una politica, edito da ETS di Pisa.
Già il titolo promette capacità di visione e sottile accuratezza. Articolata su più piani la ricerca, denso di motivi lo svolgimento, ricchissima la documentazione: è impegnativo il compito di farne una presentazione, che si concentrerà, in virtù dei suoi tratti filosofici e psicologici, solo su questa prima parte per quanto il volume ne comprenda una seconda, costruita con il medesimo metodo documentale e schiettamente politica, e un’appendice (apribile da un pdf) con alcuni discorsi scelti di Conte su argomenti di varia attualità.
Un aspetto caratterizzante del libro è infatti aver saputo offrire il ritratto di una figura pubblica sia nei lati propriamente umani (comportamento, attitudini, sentimento, pensiero) sia nei lati di pensiero e azione politica.
Partirò dal fondo, selezionando alcuni temi, scelti per la loro pregnanza che oltrepassa il campo stretto della politica per ampliarsi in quello più propriamente metapolitico: l’indagine sulle categorie portanti della cultura di Giuseppe Conte, evidentemente costruita negli anni precedenti l’incarico a Presidente del Consiglio e, come vedremo, profondamente radicata in una prospettiva autenticamente democratica.
Categorie tratte da autori quali Lévinas e Dostoevskij, da un peculiare valore attribuito al linguaggio, dalla coscienza dell’imprescindibile intreccio fra etica e politica, capaci di suscitare riflessioni che attingono sia alla filosofia che alla psicologia del profondo.
E' su questo confine che si muoveranno le mie osservazioni.
L’ultimo capitolo della prima parte, dedicato alla responsabilità, ha per titolo una lunga citazione da Dag Hammarskjöld, Segretario generale dell’Onu, uomo politico e diplomatico di intensa, intima, religiosità, premio Nobel per la pace, dotato di quel senso morale che gli ha fatto concepire il suo lavoro sempre come servizio agli altri, perché la sua vita solo “nella sottomissione”, nell’obbedienza a un dovere etico più alto dei propri interessi individuali, poteva avere senso.
È un capitolo che risuona di alti echi filosofici. Inizia con un riferimento al volume di Conte L’impresa responsabile, che verte sul rapporto tra individuo e società, in particolare nella sfera economica e giuridica. Tali argomenti hanno da sempre attraversato gli interessi dell’ex premier e alimentato le sue riflessioni, e Rita Bruschi si sforza di cogliere il senso intimo di una ricerca nutrita da tematiche costantemente presenti nella vita di un pensatore: c’è un’intensità ineludibile, “una tensione che prova a risolversi facendosi cultura” (p. 139).
Già nella prefazione del suo libro Conte cita Lévinas come autore chiave per una lettura etica dei rapporti umani, riferendosi al suo concetto di doppio movimento, un vincolo in cui, si spiega, “colui di cui devo rispondere è anche colui a cui devo rispondere. … Il rapporto … padre/figlio è un buon esempio di questo vincolo che, restando tale, deve tener conto della libertà di ciascuno” (p. 140) 1.
Naturalmente il tema non è di esigua portata, anzi qui si tratta, e Bruschi riporta le parole di Conte, “di indagare a fondo le radici, squisitamente filosofiche, di un principio di responsabilità, che coinvolge l’unità stessa della specie e la dignità della sua esistenza” (corsivo mio, p.141).
Se questo è vero, allora è vero che dobbiamo accettare di venir rimandati “in ultima analisi, al dato pre-politico e pre-logico, in uno spazio in cui emerge, in tutta la sua essenza fondativa, il rapporto di alterità” (corsivo mio, p. 141).
Si apre qui per il lettore l’occasione di un suggestivo richiamo a quella fondamentale opera per il pensiero contemporaneo che è La Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
Si tratta di un reportage, se mi si consente il termine, che il filosofo tedesco ci dà del viaggio della Coscienza nel mondo, dal suo primo apparire fino al suo divenire Spirito Assoluto. In altri termini, si tratta del viaggio dell’essere umano come genere e specie, come realtà individuale e relazionale, dal suo primo, nudo, apparire fino alla realizzazione della complessità della sua dimensione storica.
Nel capitolo sull’Autocoscienza, sull’essere umano che ha cominciato a divenire consapevole di sé, Hegel dice che questa prima consapevolezza non si esaurisce nell’“immobile tautologia: Io sono Io”2. Il fatto è che la sostanza dell’essere umano è il desiderio, e il desiderio è movimento verso la vita. Il secondo paragrafo ha, come è noto, un titolo evocativo: L’oggetto del desiderio immediato è un vivente. Il circolo della vita3. Con la sua tensione verso la vita, l’autocoscienza avvertirà che c’è un “altro da sé” verso il quale essa può affermarsi solo se sarà quest’altro a realizzare il suo desiderio. Scopre così non solo l’autonomia di quest’altro, ma anche che in lui pullula la stessa tensione che abita in lei: avverte la duplicazione di sé in esso. Scopre, in altri termini, l’esistenza dell’altro come altra autocoscienza.
Ecco allora che, se la sua sostanza è il desiderio, la sostanza di questo desiderio diventa il riconoscimento. L’essere umano è tale solo quando, e in quanto, è tale per un altro essere umano, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto.
“L’autocoscienza ottiene il proprio appagamento solo in un’altra autocoscienza”4. È così che, dice Hegel, l’infinità si realizza nell’umanità, ed “è un intreccio che presenta molti aspetti ed ha molti significati”5. Quindi, per la vita umana è fondativo l’intreccio dei movimenti del riconoscimento.
Nel volume L’impresa responsabile, riferendosi a Lévinas, Conte parla di “tanti doppi movimenti che si intersecano e si sovrappongono”.
Rita Bruschi riporta un’ampia citazione dall’intervento al Festival nazionale dell’Economia civile, a Firenze, il 31 marzo 2019 (p. 142). Auspicando una visione che superi i confini dell’homo oeconomicus, Conte tratta di una declinazione dell’economia che recuperi “il senso di una disciplina al servizio dell’uomo nella sua concretezza, nella complessità della sua esistenza, all’interno dell’articolato universo di relazioni, delle sue molteplici dimensioni”.
E aggiunge, a mo’ di esplicitazione dell’esigenza di un’economia siffatta: “L’essere umano, infatti, da qualunque angolo visuale lo si osservi, sotto qualunque profilo si indaghi il suo mistero … va compreso in base alla sua naturale vocazione sociale, in base a quella insopprimibile attitudine alla relazione … che lo caratterizza, lo distingue dagli altri esseri viventi” (ibidem, corsivo mio).
Auspica, quindi, la coniugazione di economia e diritto nel considerare “questa specifica attitudine della persona, questo suo insopprimibile desiderio di entrare in dialogo e in relazione con gli altri, non solo per bisogno o per carenza, ma anche per dono, per generosità” (ibidem, corsivo nel testo).
Nello stesso intervento, Conte cita il premio Nobel Amartya Sen, e il suo saggio dal suggestivo titolo La libertà individuale come impegno sociale, un titolo che, da solo, è un insegnamento: “le nostre vite dipendono le une dalle altre. L’idea di una reciproca dipendenza non può che condurre a quella della reciproca responsabilità” (p. 143).
E se, come acutamente sottolinea l’autrice, la parola “responsabilità”deriva dal latino respondere, rispondere, render conto delle proprie azioni, ciò significa che il concetto che essa esprime è strettamente collegato con la libertà del soggetto: io posso rispondere solo di ciò che, liberamente, decido e compio. Ma proprio perché ne devo rispondere, in questo sono limitato nella mia libertà.
“Dunque – riflette Rita Bruschi – nell’esercizio della responsabilità entrano in gioco libertà e limite, potere e misura, dimensioni attive nell’ambito sociale, nel quale occorre tener conto di interessi diversi, ed è proprio per questo che essa costituisce la chiave di volta dell’etica” (pp. 143- 144).
Ed è ancora Lévinas, il quale, come commenta Bruschi, “nel pensare il rapporto interumano in termini etici ha raggiunto limiti difficilmente superabili” (p. 140), che entra in scena nell’orizzonte culturale di riferimento di Conte nel suo intervento all’Inaugurazione dell’a.a. della Scuola del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, a Roma, nel marzo 2019.
Conte, esprimendo la sua gratitudine agli uomini e alle donne del Dipartimento per le Informazioni e per la Sicurezza, nonché a quelli delle Agenzie per le Informazioni e la Sicurezza Interna ed Esterna, richiama la vertiginosa affermazione di Lévinas che “l’epifania del volto è il coinvolgimento immediato nell’etico”, non mancando di sottolineare la suggestività di accostare questo pensiero proprio al loro lavoro e a loro, che, tra l’altro, hanno il compito di “classificare” persino il volto dell’altro (p. 146).
Nelle sue considerazioni Bruschi illumina questo richiamo al volto umano. Afferma, infatti: “Il volto è un «ideale regolativo» nel senso di Kant” (p. 146).
Se pensiamo che Kant aveva chiamato “idee regolative” quelle di Dio, Anima e Mondo, capiamo tutta la portata e l’intensità di queste parole.
Continua l’autrice: “L’interiorità che si riflette nel volto è ciò che dell’altro mi appare, ciò che contiene, custodisce e nasconde un inesprimibile ed inafferrabile, ciò che mi ricambia tramite lo sguardo, ciò che mi interpella all’ammissione della comune umanità e mi chiama alla risposta irrevocabile, non cedibile: come mi comporto, cosa ne faccio, come me ne occupo?” (pp. 146-147).
Sembra la traduzione in termini attuali delle parole di Hegel sull’autocoscienza e il riconoscimento. Termini attuali, sì, ma con la stessa intensità spirituale e la stessa portata intellettuale delle parole del grande filosofo tedesco.
E ancora: il volto dell’altro “è una vocazione … Il riconoscimento dell’interlocutore, il tu con cui parlare, comporta non solo che la mia umanità ha origine nell’altro, ma gli è affidata e si misura su di lui. Il punto nodale consiste nel tener conto che vi è nel mondo qualcosa di cui non è né possibile né ammissibile appropriarsi …” (ibidem).
Solo vedendo nel volto dell’altro un ideale regolativo in senso kantiano, una bussola, per così dire, in base alla quale orientare le nostre decisioni, potremo assumerci il dovere di “temere le conseguenze potenzialmente esiziali delle nostre azioni”6.
“La responsabilità è una rete – sostiene l’autrice – un legame reciproco … e gli esseri umani devono trovare la risposta che consenta loro di sostenere libertà e distruttività insieme” (p. 150).
Perché, se c’è la meraviglia dell’“essere qui una volta, una volta sola” (Rilke), qui c’è anche l’orrore. L’essere umano è un abisso, sa rasentare le regioni celesti, ma è anche capace di sprofondare in quelle infere.
Nel suo saggio Bruschi ci offre una lunga riflessione sul capolavoro di Dostoevskij I fratelli Karamazov, dove il grande scrittore “racchiude la sua teoria della libertà come rischio e responsabilità” (p. 150), poiché esso è richiamato da Conte in taluni suoi interventi pubblici.
Dio intima a chi incontrerà Caino di lasciarlo vivere, si osserva, di conseguenza “tutti sono interpellati a misurarsi con il sopruso, con la violenza, ed è quello il tribunale in cui formulare il giudizio, il tribunale immanente, umano” (p.150).
Se gli altri viventi (gli animali) sono “imbrigliati nell’ambiente” (Heidegger), vale a dire i confini della loro individualità sono ben stagliati nel loro apparato biologico, l’uomo, “il vivente che ha la parola” (Aristotele), ha il mondo: il suo modo di essere travalica la semplice presenza biologica, non è soltanto una questione di azione e reazione del sistema nervoso, si fonda su quel qualcosa di inesprimibile che è la possibilità di ogni possibilità, la scelta.
Ecco perché è sempre urgente l’appello di trovare una risposta alle pulsioni distruttive che abitano l’essere umano. È la risposta a una domanda “essenziale”, che riposa nell’intima costituzione dell’essere umano in quanto umano, sempre urgente e sempre aperta.
Fu ancora Heidegger a dire che la risposta a una domanda essenziale non chiude la domanda.
La risposta essenziale è “soltanto l’inizio di una responsabilità”7.
Mi fa piacere sottolineare un vivido passaggio in cui l’invito di Giuseppe Conte, nel suo L’impresa responsabile, a un’indagine delle radici filosofiche del principio di responsabilità, non viene lasciato cadere nel vuoto.
Se la responsabilità, scrive Bruschi, deve “tener conto di diversi interessi e di un ampio spettro di soggetti di diritti da rispettare, [essa] emerge come una chiave di volta della costruzione della cittadinanza politica e sociale e come segno di contraddizione di un’economia asociale, distaccata a tal punto da tutte le altre istanze da rischiare di produrre una trasformazione antropologica, la sussunzione non più solo del lavoro al capitale, ma dei contenuti della stessa vita umana al capitale” (p.141, corsivo mio).
La parola “sussunzione” ha un preciso significato filosofico spiegato in una nota a piè di pagina. Si tratta di una parola tratta dalla Critica del Giudizio di Kant dove indica “la riconduzione di un termine al rapporto, insieme di inclusione e di subordinazione, che gli è proprio, rispetto ad un termine più esteso”, aggiungendo che “Marx la utilizza per inquadrarvi i termini di capitale e lavoro”.
Questa bella spiegazione fa ricordare le riflessioni di Cartesio sui diversi livelli di realtà delle cose. In particolare Cartesio chiamava “realtà eminente” di una cosa quella del suo esistere nel principio da cui deriva la sua realtà fattuale (fosse in una relazione di emanazione, o appartenenza, o ancora subordinazione). Per esempio, la “realtà eminente” della pietra è la montagna, di cui la pietra è parte.
Se dovessimo formulare con le parole di Cartesio il rischio denunciato dall’autrice di “sussunzione” della stessa vita umana al capitale, dovremmo concludere che la realtà “eminente” dell’umanità è il capitale! E apparirebbe ancor più chiaramente, forse, in tutta la sua spettrale luce, lo spettacolo agghiacciante di un’umanità disumanizzata.
Nelle sue pagine Rita Bruschi ci mostra che lo studio del “ carattere di una politica”, e qui aggiungo, di qualsiasi politica, non può che essere un esame condotto alla luce dell’etica.
Da quando i Greci inventarono la democrazia, ethos e polis si affratellano in un intreccio fondante, ma sempre coniugabile in molteplici modi, sfumature e derive.
La parola ethos, nella sua accezione comune di “carattere”, “costume”, anche di un popolo, ad indicare la sua modalità culturale, è tradotta da Heidegger con ‘soggiorno’, ad indicare il “luogo” (nel senso strettamente antropico di “modo”, “visione di sé”) da cui l’uomo abita il mondo.
Essendo la polis la “città”, intesa come “stato”, comunità normata sull’intreccio delle molteplici esigenze collettive (cosa che comporta un’elevata consapevolezza di sé come comunità), va da sé che l’etico e il politico sono due facce della stessa medaglia.
Ma, come detto sopra, nell’intenso saggio di Bruschi si trovano anche incursioni nel campo della psicologia del profondo.
Viene sottolineata la costante apertura di Conte al dialogo, al confronto, all’interlocuzione. La sua “postura anaggressiva” (p. 158), poiché lo scopo “non è competitivo, ma cooperativo”, è costruttiva, facilita la trasformazione delle spinte al contrasto in “indipendenza di giudizio, integrità morale, coraggio …” (ibidem). E ancora: “La mitezza, per essere praticata, esige libertà interiore…”. È un’analisi profonda, oltre che del “carattere di una politica”, degli aspetti universali della natura umana, delle sue contraddizioni, dei suoi punti di forza e delle sue fragilità.
E qui viene offerta una delle (per la verità numerose) perle di questa acuta indagine: “Perché il punto è questo: concettualizzare la contraddizione e sostenerla come una realtà affettiva affrontabile con sicurezza” (corsivo mio, p. 157).
Lo scrive Bruschi riferendosi all’intervento di Conte alla cerimonia in onore di Willy Monteiro Duarte, ventunenne pestato a morte nel tentativo di difendere un compagno. La “contraddizione” può diventare una “realtà affettiva” sostenibile, se appropriatamente concettualizzata. L’uomo può imparare a regolare l’aggressività, depotenziandone la carica distruttiva. La luminosità di queste parole e l’oscurità drammatica dell’episodio che le ha occasionate, sono un monito per tutti “gli uomini di buona volontà”.
Ma c’è di più.
L’autrice, soffermandosi sulla formula con cui venne battezzato il primo governo Conte, ‘il Governo del Cambiamento’, richiama l’immagine dell’acqua in Talete e del divenire in Eraclito: il divenire come compendio di limite e molteplicità, di posizione e opposizione, e l’acqua come eterno fluire di una capacità di penetrazione e trasformazione, che “vince cedendo”.
Questa immagine si trova compendiata nella dichiarazione di Conte di voler essere premier di “un Esecutivo che intende fare della capacità di mediazione e di ascolto la cifra più genuina del suo indirizzo politico”8.
La democrazia ha nell’ascolto e nella mediazione il suo fondamento: considera ogni uomo come portatore, nella sua individualità, di un valore universale. E, partendo da questo fondamentale assunto, l’autrice fa un’incursione, come sopra accennato, nel territorio della psicologia del profondo, con un inatteso quanto brillante riferimento al grande psicoanalista inglese Donald W. Winnicott.
In un saggio pubblicato nel 1950, Winnicott sviluppò un’interessante disamina sul significato psicologico della democrazia.
Una società democratica è composta da individui maturi. “Individuo maturo è colui che in base all’età e al gruppo sociale di appartenenza ha raggiunto un grado adeguato di sviluppo emozionale ed è divenuto intelligentemente cosciente di se stesso” (p. 116, corsivo mio).
Nel libero voto a scrutinio segreto, meccanismo fondamentale della democrazia, si concretizza la possibilità per i cittadini di esprimere in libertà i sentimenti profondi e i pensieri consci e inconsci.
Nella decisione sul voto “la scena esterna … viene personalizzata dall’individuo, nel senso che il suo mondo interiore diventa per un certo periodo una scena politica. Si può anche dire che in qualche misura, nell’elezione democratica, persone mature eleggono temporanee figure genitoriali” (pp. 116-117).
Ma è esaminando le risposte aggressive, ripetute e pesanti, con accenti molto denigratori, che l’azione politica di Conte ha spesso scatenato nei suoi oppositori, che Rita Bruschi ci presenta uno dei punti salienti della sua fine analisi.
Si tratta del concetto elaborato da Winnicott di sopravvivenza dell’oggetto.
L’essere umano è fisiologicamente abitato dalle pulsioni. Alcune, realizzandosi in azioni nel mondo esterno (fossero anche le poppate della primissima infanzia), lo spingono ad aumentare l’intima soddisfazione di sé e del suo essere vivo, comportando gratitudine e un senso buono della vita. Altre, al contrario, oscurano tali percezioni con cariche distruttive, che implicano, perciò, sensazioni-sentimenti aggressivi, come l’invidia e l’odio, che avranno bisogno della possibilità di un’elaborazione per smussare la distruttività. Questa elaborazione avviene con l’apporto di un ambiente primario sufficientemente buono e, più tardi, con l’apporto dell’introiezione delle norme sociali e delle istanze culturali.
Ora, un assunto fondamentale del pensiero di Winnicott è che l’oggetto buono viene costantemente attaccato, non viene lasciato in pace. L’oggetto buono, proprio perché buono, viene distrutto. “Gli uomini non possono lasciare in pace ciò che è buono”.
Come mai, allora, esistono oggetti buoni? Perché la cosa buona “sopravvive”. Con il suo sopravvivere (e qui sopravvivere significa non fare ritorsione, cioè significa che l'oggetto buono aggredito non risponde con una reazione a sua volta aggressiva), la cosa buona può allora essere amata, riconosciuta, valorizzata, perché ha superato la prova dei nostri istinti più distruttivi.
La sopravvivenza dell’oggetto ci dà sollievo, aumenta la fiducia in noi stessi, perché possiamo constatare che la nostra distruttività abitava la realtà psichica interna, e che “il desiderio di distruggere ha a che fare con una sorta di amore primitivo molto ambivalente, che poi è modellato su quello dei figli verso i genitori” (p. 117).
È con la constatazione della sopravvivenza delle cose buone che il mondo diventa un luogo abitabile, non spaventoso e temibile. E qui viene espresso uno dei punti cruciali, che contempla l’applicazione alla dimensione sociale del concetto di sopravvivenza dell’oggetto.
“La continuità dell’oggetto oltre gli attacchi che gli si fanno subire, passando dal piano individuale a quello collettivo, indica e conferma che esistono le condizioni per cui il sistema politico può essere caratterizzato dalla democrazia e la comparsa della dittatura può essere per il momento scongiurata” (p. 117, corsivo nel testo).
È un’analisi penetrante, che ci mette sull’avviso che più siamo in grado di elaborare le nostre spinte distruttive, più saremo in grado di sostenere quelle altrui verso di noi, creando così un terreno fecondo per la democrazia, uno dei beni fondamentali per l’individuo e la collettività.
Sembra che Conte, scrive Bruschi, “abbia messo serenamente in conto di andare a collocarsi in una posizione fatta apposta per ricevere proiezioni aggressive, manifestazioni di invidia, gelosia, livore, di rifiuto anche violento, perché nel complesso le tollera bene” (ibidem).
L’interessante nota 37, a piè di pagina 117, riporta una divertente osservazione di Sallusti che dice “Io, se fossi in lui, se mi incontrassi mi sputerei in faccia, con tutto quello che gli dico e gli scrivo, lui invece è sempre gentilissimo …”.
È una questione di tempra!
L’oggetto “buono” che sopravvive agli attacchi, che, dopo l’aggressione, è ancora vivo, ha delle proprietà che gli consentono di superare la prova.
Una di queste è la pazienza, la capacità di aspettare, la capacità di accettare la realtà, adattandosi ai suoi movimenti e alle sue sorprese, anche le più ostiche, con calma e padronanza di sé.
La pazienza comporta la possibilità dell’adattamento, che non significa “simulazione”; al contrario, fa riferimento al ricorso a capacità cognitive appropriate al contesto, quindi all’impiego di strumenti caratteriali e culturali del soggetto nella sua azione politica, nella piena e libera espressione della sua personalità.
A questo proposito, Rita Bruschi ricorre alle parole di un filosofo e poeta della prima metà del ’600, Torquato Accetto.
Nel regno di Napoli, dove si era trasferito dalla sua Puglia, costui scrisse un trattato dal curioso titolo Della dissimulazione onesta. È importante chiarire la differenza tra simulare e dissimulare. Se “simulare” significa “fare finta di avere ciò che non si ha” (per es. posso simulare simpatia o affetto per una persona che odio o invidio), “dissimulare” significa “fare finta di non avere ciò che si ha” (per es. posso dissimulare la mia accortezza, facendo finta di non aver capito una situazione che, invece, mi appare con chiarezza).
Detto questo, appaiono in tutta la loro luce le parole di Torquato Accetto, citate da Bruschi nella nota 46 a piè di pagina 89: “Così è amator di pace chi dissimula con l’onesto fine che dico, tollerando, tacendo, aspettando, e si va rendendo conforme a quanto gli succede. … Chi ha soverchio concetto di se stesso, ha gran difficoltà di dissimulare …”. La nota prosegue con le parole dell’autrice: “Sì, perché va anche accettato il sacrificio di smorzarsi. Senza tanti giri di parole, ne bastan due: intelligenza e misura, di nuovo. Ma poi, coscienza dei limiti, anche in politica, e senso del tempo e dei tempi; equilibrio e dosaggio” (pp. 89-90).
L’opera di Torquato Accetto ha la portata di un’accurata indagine morale.
La dissimulazione è un invito al raccoglimento, alla misura, all’esercizio dell’attesa.
Per lui una condotta quieta e contenuta era il modo per difendersi dai simulatori, di cui la società civile era piena (ma, forse, è il problema di ogni epoca storica!).
L’intelligenza e la misura come diventano la guida morale di una vita, possono, allo stesso modo, diventare la guida di una politica. Si tratta di nutrire una passione che si misura sulla concretezza. Passione e concretezza, poi, avranno un’unica unità di misura: i contenuti.
Un’ultima osservazione.
Dopo un anno circa di servizio come Primo Ministro, Conte ricordò, in una conferenza stampa, le parole declamate con il giuramento di fedeltà alla Repubblica prestato in occasione del suo insediamento. “Non ho mai giurato altra fedeltà all’infuori di questa”, precisò (p. 75).
Rita Bruschi ci rammenta che Cicerone, nel suo De officiis, fa risalire il potere costringente del giuramento alla fides, la fiducia, fondamento della giustizia, regolatrice dei rapporti fra uomini e popoli. “Colui che viola un giuramento, viola la fiducia” (p. 75).
Insomma, iustitia e fides si compenetrano e la loro espressione simbolica è racchiusa nelle parole di un giuramento.
D’altronde, nell’essere umano (ancora una volta, “il vivente che ha la parola” secondo la definizione di Aristotele), i significati, la totalità del senso che l’uomo dà alle cose, sfociano in parole9, e Agamben, citato nel saggio, sottolinea che l’uomo è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita (p. 75).
Ora, “il giuramento – scrive Bruschi – è il dispositivo che, ponendo una corrispondenza vincolata tra le azioni e il linguaggio, esprime l’esigenza di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni” (p.75, corsivo mio).
Ma in che modo il giuramento pone una “corrispondenza vincolata” tra le parole e le azioni?
Qui ci viene in aiuto la linguistica anglosassone, con il suo studio dell’aspetto performativo del linguaggio.
Il filosofo inglese John Langshaw Austin nella prima metà del ’900 coniò l’espressione “enunciati performativi” e raccolse le lezioni tenute tra il ’51 e il ’55 in un libro dal titolo Come fare cose con le parole.
Gli enunciati performativi sono quelle espressioni, frasi o parole che, mentre vengono pronunciate, mettono in atto ciò che enunciano. Per esempio basta che sia pronunciata l’espressione “Tanti auguri!” perché avvenga ciò che dice, cioè che siano fatti gli auguri. Così, l’espressione “Giuro che …” mette in atto ciò che dice, cioè quel comportamento che chiamiamo giuramento.
Dunque l’atto che le parole significano, non è significato da esse, ma consiste in esse. Il ‘giuramento’ non è solo un’espressione linguistica, è un’azione. Come tale, ha una pregnanza etica di notevole portata, chiamando in causa, nella stessa sfera pratica che le è essenziale, il contenuto delle parole che enuncia. Se questo avviene, dice la teoria della performatività del linguaggio, allora un enunciato performativo sarà “felice”.
A pagina 76 viene riportata una lunga citazione dal discorso di Conte alla Camera dei Deputati il 2 dicembre del 2019.
Si tratta dell’informativa al Parlamento sulle modifiche del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità. L’intervento di Conte, lui stesso tiene a precisarlo, va al di là dell’ordinaria interlocuzione tra Governo e Parlamento. Il premier, infatti, è stato accusato di aver assunto una condotta impropria durante il negoziato con le Istituzioni europee, una condotta tanto illegittima da essere accusato di “alto tradimento”. “Sarei quindi uno spergiuro”, dice Conte .
Sottolineando che tale accusa, “dobbiamo convenirne tutti, non rientra nell’ambito della ordinaria polemica politica”, Conte ricorda di aver invocato, all’inizio della stagione politica che inaugurava il suo governo, “un linguaggio mite”, auspicando “che la Politica, con la P maiuscola, potesse riporre particolare attenzione alla «cura delle parole»”.
È, questo della “cura delle parole”, un aspetto della sua politica a cui Rita Bruschi dedica una particolare attenzione.
Le parole ‘onore e disciplina’, tratte dall’articolo 54 della nostra Costituzione, ricorrono spesso nel vocabolario di Conte.
L’autrice non manca di ricordarci la radice latina di ‘onore’: honos e honor, honoris da cui deriva honestus, che significa “degno di onore”, perché leale, retto, serio. Con questa parola viene espresso tutto il senso di un impegno leale e serio.
E ‘disciplina’, da disco, verbo latino che significa “imparare”, “aver appreso”, “sapere”, racchiude il senso di una competenza irrinunciabile, dell’acquisizione di un sapere “tecnico” fondamentale nell’esercizio di ogni ars, di ogni mestiere, anche quello della politica.
Il vocabolario di Conte, sottolinea Bruschi, è pieno di parole a “valenza psicologica, se non morale: orgoglio è gettonatissimo, seguito da responsabilità e fiducia, parecchio distanziata ambizione” (p. 84).
La parola ‘orgoglio’ è uno dei protagonisti dello scenario linguistico-psicologico di Conte.
Notevole l’analisi che ne viene svolta alle pagine 85-86. Qui possiamo solo accennarne.
L’orgoglio è inteso come un rinforzo positivo dell’immagine che si ha di se stessi, rispecchiata in quello che si fa. Quindi, lungi dall’essere uno sterile autorispecchiamento, è un rinforzo motivante a perseverare nel raggiungimento degli obiettivi di uno sforzo costruttivo.
Ma, pronunciata da Conte, la parola acquisisce anche due valenze sovraindividuali: è uno sprone per tutti ad un comportamento sociale positivo, e, nel momento in cui egli non manca di riconoscere l’orgoglio negli italiani, fa in modo che sulla collettività si irradi la forza positiva del proprio. Per questo aggancio che Conte opera tra sé e gli altri, scrive Bruschi, l’orgoglio in lui non diventa mai arroganza o superbia.
Responsabilità e fiducia (a cui abbiamo accennato), determinazione e massimo impegno, interesse generale, sono voci che ricorrono spesso.
Le parole, qui, sono pennellate. Delineano un ritratto, colorano un personaggio, ne creano uno sfondo.
E l’ispirazione dell’autrice, che le rintraccia (si vedano le innumerevoli e ampie citazioni dagli interventi di Conte), le esamina (con il potente riflettore della sua preparazione culturale), le arricchisce (con le sfumature della propria sensibilità e vitale tempra umana), crea, senza che questo sia lo scopo dichiarato del suo lavoro, un’opera etica di grandissimo spessore e notevole respiro.
D’altronde è solo così che si può ritrarre “il carattere di una politica”.
1 Un esempio di impresa fondata su una simile concezione penso possa ritrovarsi in una delle prime grandi imprese della nostra modernità, l'impresa commerciale di Aristide Boucicaut, che fondò a Parigi, nel 1877, il Bon Marché, il primo Grande Magazzino della storia.
2 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 263.
3 G.W.F. Hegel, op. cit., p. 265.
4 G.W.F. Hegel, op. cit., p. 273.
5 G.W.F. Hegel, op. cit., p. 275.
6 Intervento di G. Conte all’Inaugurazione dell’a.a. della Scuola del Sistema di Informazione, cit. p. 145.
7 M. Heidegger, Poscritto a «Che cos’è Metafisica?» (1943), Adelphi, Milano 2001, p. 73.
8 G. Conte, Intervento all’Inaugurazione dell’a.a. della Scuola del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, cit., p. 110, corsivo dell’autrice.
9 M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), Longanesi, Milano 1995, p. 204.
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