Chi vuol comprendere la vita
deve viverla
W. von Weizsaecker
deve viverla
W. von Weizsaecker
Quando, dopo qualche minuto di immobilità e di silenzio, nel cerchio del Dasein-group, il conduttore chiede ai partecipanti: “Che cosa stai provando, adesso?”, la risposta è, di solito, imbarazzante: “Nulla”. In genere, in quei momenti, se qualcuno azzarda a dire qualcosa, è più frutto di un pensato che di un sentito. Lo stato di catalessi motoria iniziale, di fatto, non è trascrivibile in parole. Allo stadio nascente di questo tipo particolare di incontro à plusieurs corrisponde un congelamento corporeo che non consente un accesso diretto alla propria esperienza o, quanto meno, una sua facile commutazione linguistico-verbale. Si tratta di una sorta di blocco sensorimotorio, in parte espresso dalla densità semantica di esperienze inesplicabili come angor, angustia, angusto, angina. Con il progredire dell’atmosfera, invece, cioè quando essa, impregnandosi di sentimenti esternalizzati, si fa ingressiva su ognuno fino a sciogliere l’assedio cenestesico dei partecipanti, cominciano a fluire parole che sgorgano proprio dallo smottamento e dal rimescolamento del terreno affettivo-emotivo. A quel punto il corpo vivo (Leib) di ognuno è già in azione, embedded con la situazione che ha già demarcato il suo confine con la vita di prima. Le posture dei partecipanti cambiano e si sintonizzano in una reciprocità motoria, in una sorta di accordo propriocettivo e muscolocinetico le une con le altre (enacted). In alcuni casi il dolore, le lacrime, la mimica, o i sospiri, i lamenti prendono il campo delle parole (embodied). Ad ogni modo il linguaggio, con la tonalità con-mossa della voce, scandisce il ritmo di fondo del gruppo (Bizzari, 2021)[1]. In cui risuonano i leitmotiv di ognuno. Solo allora l’intercorporeità fa di un insieme di individui un noi interaffettivo ed incarnato che, senza più pudore, costituisce, palpa ed assorbe la paticità del momento: il proprio basilare “sentimento di essere in vita” (Fuchs, 2017). La struttura e la dinamica di quanto ho appena descritto trovano il proprio fondamento teoretico nelle pagine che seguono.
Thomas Fuchs, di cui in questo testo Valeria Bizzari e Raffaele Vanacore, entrambi suoi allievi ad Heidelberg, introducono per la prima volta il pensiero al pubblico italiano attraverso una scelta oculata di articoli, è colui che porta a compimento il lungo “ritorno” del corpo al mondo e del mondo al corpo, aprendo, finalmente, alla possibilità di incontrare una “mente” palpabile: tattile, olfattiva, acustica, visiva, gustativa, cenestesica e propriocettiva.
Era l’ultima decade del Secolo scorso, dunque circa trenta anni fa, quando, da allievo, frequentando via Nizza 59 a Roma, la dimora-studio-biblioteca di Bruno Callieri, mi colpiva la presenza fissa, sull’angolo destro della sua scrivania, di un testo che allora poco attraeva la mia attenzione, non fosse altro che per il titolo strano e il fatto che fosse scritto in inglese : The problem of the embodiment, di M. Zaner, edizioni L’Aja Nijhoff del 1964. Oggi mi domando quanti, in Italia, allora lo avessero letto, quel testo, e quanti sarebbero stati in grado di comprendere o sarebbero, ancora oggi, in grado di comprendere, la voce “Corporeità” che Bruno Callieri estese per l’ Enciclopedia del corpo della Treccani (1999). Ma Bruno veniva da Heidelberg. Quel suo saggio, ancora oggi pienamente valido, effettuava, allora, una perfetta ricognizione fenomenologica sulla corporeità, enunciandone la primarietà nella relazione con il mondo. Tuttavia si fermava, come buona parte della psicopatologia fenomenologica, al suo statuto descrittivo di manifesto, di enunciato. La grandezza di Fuchs, invece, è quella di andare oltre l’enunciato, ovvero di rovesciare la prospettiva affondando nella prassi. Non è più, come ancora in Callieri, la coscienza che si incarna nel mondo. E’, piuttosto, l’indivisibile e primigenia dimensione della carne-mondo che si coscienzializza, nella prospettiva fuchsiana, non più la coscienza che si corporeizza. Sembra strano, ma oggi le maggiori resistenze a rendere applicativa questa rivoluzionaria concezione “incarnata” del mondo, in luogo di una mente disincarnata, sono costituite proprio da noi psichiatri e psicologi. In parte, purtroppo, il prefisso “psy”[2] ci ha disabituati alle frequentazioni corporee e proprio-corporee, legalizzando la nostra astrattezza; in parte, noi stessi ci siamo accomodati in un paradigma introiezionista e rappresentazionista, di cui, a tratti, ci lamentiamo come un esilio dorato, o come un assedio invalicabile. Ma in realtà ce ne sentiamo protetti. Il mentale, nei fatti, è il nostro unico dominio sicuro ed inviolabile, la nostra “riserva indiana”. Ce lo siamo costruito, ombra per ombra, come gli schiavi nella caverna platonica. La maggioranza dei nostri modelli mentali, infatti, sono, per l’appunto, “mentali”. Diventa difficile adesso, sia dall’ottica del conflitto, che da quella del deficit, sia dall’ottica del trauma, sia da quella del sogno, solo per citare alcuni grossolani ambiti, andare a colonizzare, da parte nostra, la dimensione incarnata ed unitaria, pre-dualistica, del corpo-mondo. E’ questa la strada che Fuchs apre nelle pagine seguenti, con una serie di lavori fondamentali incardinati come milestone lungo un preciso percorso logico e vissuto, costruito minuziosamente per il pubblico italiano da Valeria Bizzari e da Raffaele Vanacore. Noi psy siamo stupiti di fronte a questa terra incognita, o terra di nessuno, che si estende tra la trincea soggettiva e quella oggettiva, tra la res cogitans e la res extensa. Come se non avessimo ancora carte nautiche o carte topografiche già abbozzate per poterci muovere con la padronanza che ci è propria, e che abbiamo acquisito in decenni di “mentalismo”. Per quanto Husserl si sia speso per ricreare le condizioni di possibilità di questa unità strutturale/eidetica originaria e predualistica tra la coscienza e il mondo, al di là delle distinzioni tra soggetto ed oggetto, la maggior parte delle nostre stratificazioni in merito a sentimenti, coscienza, emozioni, stati d’animo, pensieri e percezioni è rimasta collocata in uno spazio virtualmente interno al soggetto. Una turris eburnea da scalare con empatia di primo, secondo e terzo livello; oppure da cogliere d’infilata con una intuizione fulminante di essenza, appena dopo aver praticato un costoso esercizio di epoché. O da triturare in item di rating scales che, credendo di toccare le radici, in realtà sfrondano solo le cime. Anche concezioni più allargate del mentale, pur forzando i confini della scatola cranica e coinvolgendo il piano splancnico e quello muscolare, non hanno, in definitiva, mai veramente superato i confini della pelle. Vedasi l’ormai vetusto paradigma psicosomatico, per non parlare di tutte le cosiddette pratiche corporee. Si apre, dunque, tra queste pagine, quasi imbarazzanti per la portata innovativa che hanno, la via ad una nuova sponda, ancorata nel territorio esterno (ed estremo) del “tra”, inteso non come riflesso o proiezione del territorio dell’ “in”, cioè del “dentro”, né come dimensione astratta a sede intrapsichica, ma come proprietà transitoria, acuta ed emergente dalla situazione, di volta in volta diversa e, soprattutto, come dimensione tutta vivente, intercorporea ed interaffettiva, dell’incontro. Questa resistenza del paradigma psy da un lato è comprensibile, poiché non è facile fare a meno di paradigmi “internalisti” che hanno informato di sé secoli della nostra storia (come disfarsi di un bagaglio inutile, ma che è l’unico bagaglio che si possiede), da un’altra parte risulta ingiustificata, poiché questa prospettiva enattiva ed incarnata è foriera di una portata rivoluzionaria sul piano di una inedita ricomprensione della cura dei mental disorders, diciamo la verità, da tempo piuttosto incagliata in una secca senza uscita. Se, infatti, dal fronte biologico riduzionista non sono arrivati più gli sperati “markers” della follia a legittimare le nostre costruzioni nosografiche ed i nostri trattamenti (farmacologici), dal fronte delle psicoterapie, nonostante gli sforzi fatti per addentrarsi nella cura dei disturbi maggiori, di fatto, i pazienti che ne soffrono sono lasciati piuttosto soli, spesso solo in compagnia di gocce, di compresse e di fiale. Nella migliore delle ipotesi essi vengono inseriti in un percorso di normalizzazione sociale adattativa, che è lontana dall’entrare in dialogo con la peculiarità della loro posizione nel mondo. Credo che un elemento da non sottovalutare, in questa sorta di resistenza passiva e/o di indifferenza al nuovo paradigma dell’embodiment da parte dei clinici psy, sia dato anche dal fatto che, mentre essi hanno acquisito una certa confidenza con il proprio “assetto interno” nelle situazioni cliniche, essi non hanno invece nozione di come potrebbero diversamente atteggiarsi con la propria corporeità nelle stesse situazioni. Ovvero necessita, adesso, di costruire la strada della consapevolezza che ogni “battito di ciglia” può interferire con il mondo del paziente, modificando il medium interaffettivo ed intercorporeo. In altri termini, il ruolo giocato nelle psicoterapie dalla dimensione pretematica e preriflessiva, appare sempre più fondante rispetto al colpo di fioretto della parola giusta al momento giusto. E tutto questo va spogliato dalle facili false parentele con le pratiche più o meno terapeutico/riabilitative che fanno, del corpo, la propria mission. Evidentemente la corporeità di cui qui si parla, proprio in quanto inter-carnata, è trascendentale/immanente, ovvero essa va ricostituita, dal clinico, nella trasparenza della sua struttura e della sua dinamica, altrimenti rimane attiva, ma opaca, silenziosa ed operante in un universo preriflessivo destinato a non emergere. Oppure essa continua ad inghiottire nelle sue crepe quello che continuiamo a chiamare, con una particella sempre più problematica in quanto al suo significato, “sé”, mentre noi ci occupiamo del “mentale”, la patologia mina il fondativo corpo/mondano. Evidentemente, il margine di intervento di un professionista, in questo ambito, è proporzionale alla sua capacità di vedere, di sentire, di muoversi in relazione con l’altro e con il mondo. Di muoversi di consenso, ad ogni modo, seguendo un accordo, un ritmo, una Stimmung che non sono mai dati una volta per sempre, ma cambiano, di situazione in situazione. Lo spazio di azione e di intervento, lo scenario, per così dire, dell’incontro, si sposta, infatti, secondo questo nuovo paradigma, tra i corpi dei pazienti e degli operatori, e non già dentro le loro menti. Bisognerà anche riscrivere i trattati che descrivono le patologie “mentali” in una nuova versione “iperincarnata” o “disincarnata” delle stesse. Se, ad esempio, assumiamo la malinconia e la schizofrenia come due polarità antitetiche dello spettro dei disturbi psichiatrici, ci troviamo a dover avere a che fare con l’ iperincarnazione dell’una, che rende viscosa la fluidità del rapporto con il mondo e con gli altri, e con la disincarnazione dell’altra, che rende, al contrario, scivolosa la loro presa sul mondo. Il lettore troverà in queste pagine non solo una enunciazione di principio, un manifesto di questo paradigma, ma anche il concreto tentativo di declinare una serie di situazioni cliniche in una prospettiva del tutto diversa. Fuchs, nella veste in cui in questo testo ce lo presentano Bizzari e Vanacore, è colui che ha portato fino in fondo una prospettiva che, iniziata con Husserl, è stata di volta in volta ombreggiata e ripresa da Merleau-Ponty (1945), da Straus (1930), da Goldstein (1934), da von Weizsaecker (1940), da Henry (1965), da Varela e Thompson (1991). Non è superfluo ribadire quanto questa prospettiva embodied possa essere rivoluzionaria anche, e soprattutto, per l’organizzazione dei Servizi, e quanto essa possa allargare il termini di comprensibilità e di maneggiabilità dei disturbi psichiatrici, anche lavorando su quella che, classicamente, veniva definita, con superficialità priva di vero interesse, in quanto aspecifica, come la terapia di milieu, o di ambiente. Nel senso di una piena rivalutazione (e ristrutturazione fondativa) di una serie di componenti terapeutiche o riabilitative finora ritenute marginali, poiché non andavano strettamente nel senso dell’ oro colato del mentale, ma incentravano la loro attenzione sulla ganga ambientale. Con il nuovo paradigma embodied è come se si passasse da una marcatura ad uomo ad una marcatura a zona. La partita si svolge con il coinvolgimento di più attori simultaneamente, ovvero di una squadra e di un campo, non più di un palleggio solitario contro il muro o di uno scambio di passaggi a due. Cosa c’è di più consono di questa impostazione per una prospettiva territoriale o di comunità? In altri termini non si tratta più qui solo di individuare in maniera puntiforme e discreta la traiettoria intenzionale del singolo vissuto che va ad intenzionare il singolo vissuto, o di individuare nel mondo interno del paziente una gerarchia valoriale di vissuti che ne strutturano l’esperienza. Si tratta di orientare e curvare in senso riparativo una molteplicità di interazioni che si rivelano potentemente ri-strutturanti sul mondo del paziente. Questo è possibile proprio, ed è qui lo specifico fenomenologico, perché lo spostamento sulla corporeità non tralascia dietro di sé il discorso degli apriori che rendono possibili le esperienze strutturandone le forme. Semplicemente li incarna, ovvero li rinviene indovati in dispositivi funzionali e dinamici, preriflessivi, preoggettuali, pretematici e, praticamente, coincidenti con il piano biologico, quel piano proprio di una biologia della vita, interattiva e significante, rispetto alla quale uno straordinario precursore può sicuramente essere considerato von Uexskuell (1920). Tutta la sintomatologia psichiatrica maggiore viene ascritta, qui, sulla scia di Binswanger, Minkowski e Blankenburg, alla rottura della confidenza (confiance e/o Vertrautheit) con il mondo e con gli altri e al ciclo della slancio vitale. Ovvero il primum moves, qui, diventa la frana di quel terreno interpatico di fondo, su cui silenziosamente si inscrive il senso comune. A dire il vero tutto l’impianto descrittivo della psicopatologia fenomenologica trova nuova linfa e nuovo fondamento in questo fondo della vita predualistico e preriflessivo. Esso è lo spazio, insieme, del trascendentale e dell’immaginario. Uno spazio terzo. Un punto di vista neutro ed altro, per certi aspetti disindividualizzante e dunque anche, in modo assai salutare, deresponsabilizzante, che consente di far si che il mondo accada come accade, che l’esperienza si presenti sempre nello stesso stile costitutivo, e che le soggettività ritornino al loro significato originario di sub-jecti inter esse, ovvero di polarità impressivo/espressive di un fenomeno che accade solo al confine di contatto tra i viventi. Il confine di contatto diventa così il vero epicentro del dramma, non lo spazio intrapsichico del singolo, in questo modo sottratto all’enigma del segreto noumenico ed inviolabile (forse perché inesistente?) che giaceva nelle segrete di una mente monadica ed inaccessibile. Anche sintomi maggiori, come i deliri, appaiono non essere più il prodotto di un cervello rotto, ma scaturiscono dall’intoppo dell’ essere-tra. Questo restituisce ai deliri la loro piena relazionalità e lascia aperta la possibilità di ridurre la loro intensità migliorando il livello di sintonia tra il paziente e l’ ambiance. Il corpo vivo nel mondo è, a suo modo, secondo Fuchs, un vero e proprio archivio del dolore vissuto. Dall’autolesionismo al suicidio, il dolore vissuto diventa un potente tentativo, per il paziente, di ripersonalizzazione, un modo di sentirsi vivi, dunque un motore di storia che il terapeuta deve sapere incontrare per una sua ricircolarizzazione. L’evento nel quale quell’uomo, questo uomo qua che ho adesso di fronte a me, questo uomo che anche io sono, ha incontrato il dolore, ha una sua memoria duratura scritta nelle pieghe del corpo, memoria che si esprime tutta nell’azione del corpo sul mondo, che situa gli accadimenti in un certo angolo di attacco. Molti sintomi, addotti da questi pazienti, sono sintomi corporei, cioè che mettono il corpo in primo piano, e non solo nell’isteria. E il loro significato non è solo simbolico, ma ha a che fare con la parte che vive quel dolore, che lo sente, che lo incontra. La memoria del dolore, di quel dolore, rimane nelle posture, nell’andatura, nelle linee del volto, nei gesti, nello stile di approccio al mondo di ognuno di noi. Molte descrizioni psicopatologiche che si attagliano a questi pazienti sono sostanziate da tematiche corporee, e l’intera esperienza corporea è descritta dai pazienti come pesante o leggera, vuota o percorsa da fremiti e correnti. Il paziente sente il fegato o lo stomaco, la testa o la pelle, il tremore o il blocco, il respiro o il palpito del cuore come dimensioni strutturanti del suo essere nel mondo. Questi sintomi da noi sono sempre stati intesi come somatizzazioni o cenestopatie, o reazioni di conversione somatica, o disturbi somatoformi. Ad ogni modo, essi rimandavano ad una struttura psicopatologica sottostante, di cui erano, nei nostri modelli mentali, poco più che la proiezione riflessa. Ora, grazie al lavoro di Fuchs, si inverte completamente la gerarchia di valore (upside-down, direbbero gli Inglesi). Questi sintomi, tutti i sintomi, diventano espressivi essi stessi della mancata intesa preriflessiva: il corpo/mondo di questi pazienti da silenzioso e trasparente diviene rumoroso, doloroso e opaco. Ma è sempre il loro corpo vivo nel mondo che parla, e con il quale il nostro corpo urta, si fonde, si rigetta, capisce. E’ sempre il mondo, ogni volta, fatto a pezzi nel corpo. Mai però il corpo cadavere. O il corpo anatomico. Mai il mondo preso in sé, distaccato. Il corpo vivo, nostro e dei pazienti, e quello che con loro costituiamo in comune, è, se lo sentiamo, questa trasparenza del mondo, esso è il mio trovarmi immediatamente in contatto con me stesso, con l’altro e con il mondo, in una risonanza vibratile e fluente.
Questa transizione in atto dal paradigma rappresentazionale al paragima espressivo/impressivo, basato sull’assimilazione intercorporea o incorporazione reciproca, comporta, come dicevo all’inizio, un drastico capovolgimento epistemologico. Il corpo-mondo viene prima della mente, è il vero teatro del dramma; e il linguaggio è solo un epifenomeno di un qualcosa che accade laddove il linguaggio ancora non c’è, e forse non ci sarà mai. Del resto, da sempre, che sia furia pantoclastica o blocco catatonico, la follia è fisicità allo stato puro. La follia (Wahn) è deriva (Wanderung) ovvero viaggio, cammino, senza origine e senza meta, che noi da un certo punto in poi abbiamo fermato, prima con le mura, poi con farmaci che, non a caso, arrestano proprio al funzione motoria. Non a caso per lungo tempo, prima dell’arrivo della chemioterapia bradicinetizzante, la galassia delle cosiddette terapia fisiche, dal trattamento morale (che prevedeva la messa in scena di una o più azioni finalizzate) all’ECT o TEC, il movimento, anche se non ancora concettualizzato come movimento vissuto, è stato il protagonista della scena. Il paradigma dell’ embodiment, valorizzando la fenomenologia dell’azione, colma il vuoto cartesiano tra mente e mondo, e ricolloca pienamente i saperi della psiche dentro una biologia strutturale e dinamica. In questa prospettiva gli a priori della psichiatria fenomenologica, mutuati dalla filosofia trascendentale, ridiventano, oltre che trascendentali, immanenti e incarnati. Essi dànno forma al vivente e, se intuiti, ne portano allo scoperto la struttura, in quella senso-direzione o senso-significazione (Maldiney, 1963) del divenire (Minkowski, 1967). Il cervello, a questo punto, diventa, da organo di localizzazione, organo di mediazione (Fuchs, 2017), di trasformazione, di risonanza e di relazione. Il demenzialismo, prepotentemente rimesso in auge dal paradigma neokraepeliniano gemellato con il riduzionismo neurobiologico, è finalmente lontano da qui. Esso decade del tutto, insieme alle topiche frenologiche e all’associazionismo. Con esso si allontana anche lo psicologismo.
Questo tentativo, sofferto per tutto un secolo, da Jaspers a Fuchs, di unire finalmente Leben e Dasein, cioè il vivente e l’esistente, in una direzione significativa (Bedeutungsrichtung), secondo l’articolazione normativa e naturale delle sue forme, fa della psichiatria, forse, il vero (ed unico?) campo dell’incontro possibile tra biologia e filosofia. E’ la genesi delle forme, in questa circolarità circondata, che consente di collocare l’atto di significazione, nel suo fondamento espressivo, in quella che è la grande arena della vita (Minkowski, 1967). Infine il problema dei problemi, ovvero la trasmissione di “stati mentali” da un soggetto all’altro, finora descritto in termini di transfert e controtransfert, empatia, simpatia, intuizione e quant’altro, può essere finalmente ricompreso sulla base di un terreno comune e corporeo di fondo. E’ lì che si verifica quella temperie e quel gioco intenzionale che consente ad ognuno di noi di sentire, ad un certo punto, il proprio cuore battere al ritmo dell’altro. E, a proposito di temperie e di ritmo, Fuchs ricolloca, in queste dense pagine, anche la forma del tempo in una prospettiva incarnata. In questo, molto elegantemente, Raffaele Vanacore accosta il pensiero dello psicopatologo tedesco a quello di una grande filosofo del Sud Italia, Aldo Masullo: l’acuzie temporale, il taglio, la ferita lacerante dell’emergente kairotico co-incide con l’acme della paticità. E’ questo l’istante, già preconizzato da Binswanger, che frantuma il ghiacciaio dello Zeitstillstand (l’arresto del tempo) ed innesca, come un pacemaker, la possibilità del divenire: ed è, sempre di nuovo, la sistole e la diastole della vita.
Certo, la psichiatria fenomenologica (questa “gloriosa inutilità”..), mi pare, in queste pagine, essere giunta alla maturità della sua parabola, pur pagando fino in fondo la propria extraterritorialità tra scienze della natura e scienze umane, in quanto orfana di un sistema stabile di riferimento. Ed è bello che siano proprio due giovani ricercatori a portarne avanti il labaro.
Le vite di molti di noi, e di quelli che ci hanno preceduto, si sono consumate in questa lunga marcia dentro l’esistenza, cercando il fondo della vita.
Cosa resta, di questa psichiatria fenomenologica, alla fine, tra le nostre mani, se non l’incontro con l’altro? Anche quando questo incontro accade sullo sfondo del silenzio preriflessivo? Con l’altro folle, ad esempio, rimasto, tra tanti paradigmi mentalisti, privo di senso, privo di corpo e privo di mondo.
“Ma ciò non significa, allora, avanzare l’ipotesi paradossale che, forse, l’ancora di salvezza teorica della psichiatria fenomenologica sta proprio nella sua pratica, ovvero nella sua pratica clinica?” (Basso, 2009)[3]
Grazie, Thomas Fuchs, Valeria Bizzari e Raffaele Vanacore, per questo prezioso viatico.
Thomas Fuchs, di cui in questo testo Valeria Bizzari e Raffaele Vanacore, entrambi suoi allievi ad Heidelberg, introducono per la prima volta il pensiero al pubblico italiano attraverso una scelta oculata di articoli, è colui che porta a compimento il lungo “ritorno” del corpo al mondo e del mondo al corpo, aprendo, finalmente, alla possibilità di incontrare una “mente” palpabile: tattile, olfattiva, acustica, visiva, gustativa, cenestesica e propriocettiva.
Era l’ultima decade del Secolo scorso, dunque circa trenta anni fa, quando, da allievo, frequentando via Nizza 59 a Roma, la dimora-studio-biblioteca di Bruno Callieri, mi colpiva la presenza fissa, sull’angolo destro della sua scrivania, di un testo che allora poco attraeva la mia attenzione, non fosse altro che per il titolo strano e il fatto che fosse scritto in inglese : The problem of the embodiment, di M. Zaner, edizioni L’Aja Nijhoff del 1964. Oggi mi domando quanti, in Italia, allora lo avessero letto, quel testo, e quanti sarebbero stati in grado di comprendere o sarebbero, ancora oggi, in grado di comprendere, la voce “Corporeità” che Bruno Callieri estese per l’ Enciclopedia del corpo della Treccani (1999). Ma Bruno veniva da Heidelberg. Quel suo saggio, ancora oggi pienamente valido, effettuava, allora, una perfetta ricognizione fenomenologica sulla corporeità, enunciandone la primarietà nella relazione con il mondo. Tuttavia si fermava, come buona parte della psicopatologia fenomenologica, al suo statuto descrittivo di manifesto, di enunciato. La grandezza di Fuchs, invece, è quella di andare oltre l’enunciato, ovvero di rovesciare la prospettiva affondando nella prassi. Non è più, come ancora in Callieri, la coscienza che si incarna nel mondo. E’, piuttosto, l’indivisibile e primigenia dimensione della carne-mondo che si coscienzializza, nella prospettiva fuchsiana, non più la coscienza che si corporeizza. Sembra strano, ma oggi le maggiori resistenze a rendere applicativa questa rivoluzionaria concezione “incarnata” del mondo, in luogo di una mente disincarnata, sono costituite proprio da noi psichiatri e psicologi. In parte, purtroppo, il prefisso “psy”[2] ci ha disabituati alle frequentazioni corporee e proprio-corporee, legalizzando la nostra astrattezza; in parte, noi stessi ci siamo accomodati in un paradigma introiezionista e rappresentazionista, di cui, a tratti, ci lamentiamo come un esilio dorato, o come un assedio invalicabile. Ma in realtà ce ne sentiamo protetti. Il mentale, nei fatti, è il nostro unico dominio sicuro ed inviolabile, la nostra “riserva indiana”. Ce lo siamo costruito, ombra per ombra, come gli schiavi nella caverna platonica. La maggioranza dei nostri modelli mentali, infatti, sono, per l’appunto, “mentali”. Diventa difficile adesso, sia dall’ottica del conflitto, che da quella del deficit, sia dall’ottica del trauma, sia da quella del sogno, solo per citare alcuni grossolani ambiti, andare a colonizzare, da parte nostra, la dimensione incarnata ed unitaria, pre-dualistica, del corpo-mondo. E’ questa la strada che Fuchs apre nelle pagine seguenti, con una serie di lavori fondamentali incardinati come milestone lungo un preciso percorso logico e vissuto, costruito minuziosamente per il pubblico italiano da Valeria Bizzari e da Raffaele Vanacore. Noi psy siamo stupiti di fronte a questa terra incognita, o terra di nessuno, che si estende tra la trincea soggettiva e quella oggettiva, tra la res cogitans e la res extensa. Come se non avessimo ancora carte nautiche o carte topografiche già abbozzate per poterci muovere con la padronanza che ci è propria, e che abbiamo acquisito in decenni di “mentalismo”. Per quanto Husserl si sia speso per ricreare le condizioni di possibilità di questa unità strutturale/eidetica originaria e predualistica tra la coscienza e il mondo, al di là delle distinzioni tra soggetto ed oggetto, la maggior parte delle nostre stratificazioni in merito a sentimenti, coscienza, emozioni, stati d’animo, pensieri e percezioni è rimasta collocata in uno spazio virtualmente interno al soggetto. Una turris eburnea da scalare con empatia di primo, secondo e terzo livello; oppure da cogliere d’infilata con una intuizione fulminante di essenza, appena dopo aver praticato un costoso esercizio di epoché. O da triturare in item di rating scales che, credendo di toccare le radici, in realtà sfrondano solo le cime. Anche concezioni più allargate del mentale, pur forzando i confini della scatola cranica e coinvolgendo il piano splancnico e quello muscolare, non hanno, in definitiva, mai veramente superato i confini della pelle. Vedasi l’ormai vetusto paradigma psicosomatico, per non parlare di tutte le cosiddette pratiche corporee. Si apre, dunque, tra queste pagine, quasi imbarazzanti per la portata innovativa che hanno, la via ad una nuova sponda, ancorata nel territorio esterno (ed estremo) del “tra”, inteso non come riflesso o proiezione del territorio dell’ “in”, cioè del “dentro”, né come dimensione astratta a sede intrapsichica, ma come proprietà transitoria, acuta ed emergente dalla situazione, di volta in volta diversa e, soprattutto, come dimensione tutta vivente, intercorporea ed interaffettiva, dell’incontro. Questa resistenza del paradigma psy da un lato è comprensibile, poiché non è facile fare a meno di paradigmi “internalisti” che hanno informato di sé secoli della nostra storia (come disfarsi di un bagaglio inutile, ma che è l’unico bagaglio che si possiede), da un’altra parte risulta ingiustificata, poiché questa prospettiva enattiva ed incarnata è foriera di una portata rivoluzionaria sul piano di una inedita ricomprensione della cura dei mental disorders, diciamo la verità, da tempo piuttosto incagliata in una secca senza uscita. Se, infatti, dal fronte biologico riduzionista non sono arrivati più gli sperati “markers” della follia a legittimare le nostre costruzioni nosografiche ed i nostri trattamenti (farmacologici), dal fronte delle psicoterapie, nonostante gli sforzi fatti per addentrarsi nella cura dei disturbi maggiori, di fatto, i pazienti che ne soffrono sono lasciati piuttosto soli, spesso solo in compagnia di gocce, di compresse e di fiale. Nella migliore delle ipotesi essi vengono inseriti in un percorso di normalizzazione sociale adattativa, che è lontana dall’entrare in dialogo con la peculiarità della loro posizione nel mondo. Credo che un elemento da non sottovalutare, in questa sorta di resistenza passiva e/o di indifferenza al nuovo paradigma dell’embodiment da parte dei clinici psy, sia dato anche dal fatto che, mentre essi hanno acquisito una certa confidenza con il proprio “assetto interno” nelle situazioni cliniche, essi non hanno invece nozione di come potrebbero diversamente atteggiarsi con la propria corporeità nelle stesse situazioni. Ovvero necessita, adesso, di costruire la strada della consapevolezza che ogni “battito di ciglia” può interferire con il mondo del paziente, modificando il medium interaffettivo ed intercorporeo. In altri termini, il ruolo giocato nelle psicoterapie dalla dimensione pretematica e preriflessiva, appare sempre più fondante rispetto al colpo di fioretto della parola giusta al momento giusto. E tutto questo va spogliato dalle facili false parentele con le pratiche più o meno terapeutico/riabilitative che fanno, del corpo, la propria mission. Evidentemente la corporeità di cui qui si parla, proprio in quanto inter-carnata, è trascendentale/immanente, ovvero essa va ricostituita, dal clinico, nella trasparenza della sua struttura e della sua dinamica, altrimenti rimane attiva, ma opaca, silenziosa ed operante in un universo preriflessivo destinato a non emergere. Oppure essa continua ad inghiottire nelle sue crepe quello che continuiamo a chiamare, con una particella sempre più problematica in quanto al suo significato, “sé”, mentre noi ci occupiamo del “mentale”, la patologia mina il fondativo corpo/mondano. Evidentemente, il margine di intervento di un professionista, in questo ambito, è proporzionale alla sua capacità di vedere, di sentire, di muoversi in relazione con l’altro e con il mondo. Di muoversi di consenso, ad ogni modo, seguendo un accordo, un ritmo, una Stimmung che non sono mai dati una volta per sempre, ma cambiano, di situazione in situazione. Lo spazio di azione e di intervento, lo scenario, per così dire, dell’incontro, si sposta, infatti, secondo questo nuovo paradigma, tra i corpi dei pazienti e degli operatori, e non già dentro le loro menti. Bisognerà anche riscrivere i trattati che descrivono le patologie “mentali” in una nuova versione “iperincarnata” o “disincarnata” delle stesse. Se, ad esempio, assumiamo la malinconia e la schizofrenia come due polarità antitetiche dello spettro dei disturbi psichiatrici, ci troviamo a dover avere a che fare con l’ iperincarnazione dell’una, che rende viscosa la fluidità del rapporto con il mondo e con gli altri, e con la disincarnazione dell’altra, che rende, al contrario, scivolosa la loro presa sul mondo. Il lettore troverà in queste pagine non solo una enunciazione di principio, un manifesto di questo paradigma, ma anche il concreto tentativo di declinare una serie di situazioni cliniche in una prospettiva del tutto diversa. Fuchs, nella veste in cui in questo testo ce lo presentano Bizzari e Vanacore, è colui che ha portato fino in fondo una prospettiva che, iniziata con Husserl, è stata di volta in volta ombreggiata e ripresa da Merleau-Ponty (1945), da Straus (1930), da Goldstein (1934), da von Weizsaecker (1940), da Henry (1965), da Varela e Thompson (1991). Non è superfluo ribadire quanto questa prospettiva embodied possa essere rivoluzionaria anche, e soprattutto, per l’organizzazione dei Servizi, e quanto essa possa allargare il termini di comprensibilità e di maneggiabilità dei disturbi psichiatrici, anche lavorando su quella che, classicamente, veniva definita, con superficialità priva di vero interesse, in quanto aspecifica, come la terapia di milieu, o di ambiente. Nel senso di una piena rivalutazione (e ristrutturazione fondativa) di una serie di componenti terapeutiche o riabilitative finora ritenute marginali, poiché non andavano strettamente nel senso dell’ oro colato del mentale, ma incentravano la loro attenzione sulla ganga ambientale. Con il nuovo paradigma embodied è come se si passasse da una marcatura ad uomo ad una marcatura a zona. La partita si svolge con il coinvolgimento di più attori simultaneamente, ovvero di una squadra e di un campo, non più di un palleggio solitario contro il muro o di uno scambio di passaggi a due. Cosa c’è di più consono di questa impostazione per una prospettiva territoriale o di comunità? In altri termini non si tratta più qui solo di individuare in maniera puntiforme e discreta la traiettoria intenzionale del singolo vissuto che va ad intenzionare il singolo vissuto, o di individuare nel mondo interno del paziente una gerarchia valoriale di vissuti che ne strutturano l’esperienza. Si tratta di orientare e curvare in senso riparativo una molteplicità di interazioni che si rivelano potentemente ri-strutturanti sul mondo del paziente. Questo è possibile proprio, ed è qui lo specifico fenomenologico, perché lo spostamento sulla corporeità non tralascia dietro di sé il discorso degli apriori che rendono possibili le esperienze strutturandone le forme. Semplicemente li incarna, ovvero li rinviene indovati in dispositivi funzionali e dinamici, preriflessivi, preoggettuali, pretematici e, praticamente, coincidenti con il piano biologico, quel piano proprio di una biologia della vita, interattiva e significante, rispetto alla quale uno straordinario precursore può sicuramente essere considerato von Uexskuell (1920). Tutta la sintomatologia psichiatrica maggiore viene ascritta, qui, sulla scia di Binswanger, Minkowski e Blankenburg, alla rottura della confidenza (confiance e/o Vertrautheit) con il mondo e con gli altri e al ciclo della slancio vitale. Ovvero il primum moves, qui, diventa la frana di quel terreno interpatico di fondo, su cui silenziosamente si inscrive il senso comune. A dire il vero tutto l’impianto descrittivo della psicopatologia fenomenologica trova nuova linfa e nuovo fondamento in questo fondo della vita predualistico e preriflessivo. Esso è lo spazio, insieme, del trascendentale e dell’immaginario. Uno spazio terzo. Un punto di vista neutro ed altro, per certi aspetti disindividualizzante e dunque anche, in modo assai salutare, deresponsabilizzante, che consente di far si che il mondo accada come accade, che l’esperienza si presenti sempre nello stesso stile costitutivo, e che le soggettività ritornino al loro significato originario di sub-jecti inter esse, ovvero di polarità impressivo/espressive di un fenomeno che accade solo al confine di contatto tra i viventi. Il confine di contatto diventa così il vero epicentro del dramma, non lo spazio intrapsichico del singolo, in questo modo sottratto all’enigma del segreto noumenico ed inviolabile (forse perché inesistente?) che giaceva nelle segrete di una mente monadica ed inaccessibile. Anche sintomi maggiori, come i deliri, appaiono non essere più il prodotto di un cervello rotto, ma scaturiscono dall’intoppo dell’ essere-tra. Questo restituisce ai deliri la loro piena relazionalità e lascia aperta la possibilità di ridurre la loro intensità migliorando il livello di sintonia tra il paziente e l’ ambiance. Il corpo vivo nel mondo è, a suo modo, secondo Fuchs, un vero e proprio archivio del dolore vissuto. Dall’autolesionismo al suicidio, il dolore vissuto diventa un potente tentativo, per il paziente, di ripersonalizzazione, un modo di sentirsi vivi, dunque un motore di storia che il terapeuta deve sapere incontrare per una sua ricircolarizzazione. L’evento nel quale quell’uomo, questo uomo qua che ho adesso di fronte a me, questo uomo che anche io sono, ha incontrato il dolore, ha una sua memoria duratura scritta nelle pieghe del corpo, memoria che si esprime tutta nell’azione del corpo sul mondo, che situa gli accadimenti in un certo angolo di attacco. Molti sintomi, addotti da questi pazienti, sono sintomi corporei, cioè che mettono il corpo in primo piano, e non solo nell’isteria. E il loro significato non è solo simbolico, ma ha a che fare con la parte che vive quel dolore, che lo sente, che lo incontra. La memoria del dolore, di quel dolore, rimane nelle posture, nell’andatura, nelle linee del volto, nei gesti, nello stile di approccio al mondo di ognuno di noi. Molte descrizioni psicopatologiche che si attagliano a questi pazienti sono sostanziate da tematiche corporee, e l’intera esperienza corporea è descritta dai pazienti come pesante o leggera, vuota o percorsa da fremiti e correnti. Il paziente sente il fegato o lo stomaco, la testa o la pelle, il tremore o il blocco, il respiro o il palpito del cuore come dimensioni strutturanti del suo essere nel mondo. Questi sintomi da noi sono sempre stati intesi come somatizzazioni o cenestopatie, o reazioni di conversione somatica, o disturbi somatoformi. Ad ogni modo, essi rimandavano ad una struttura psicopatologica sottostante, di cui erano, nei nostri modelli mentali, poco più che la proiezione riflessa. Ora, grazie al lavoro di Fuchs, si inverte completamente la gerarchia di valore (upside-down, direbbero gli Inglesi). Questi sintomi, tutti i sintomi, diventano espressivi essi stessi della mancata intesa preriflessiva: il corpo/mondo di questi pazienti da silenzioso e trasparente diviene rumoroso, doloroso e opaco. Ma è sempre il loro corpo vivo nel mondo che parla, e con il quale il nostro corpo urta, si fonde, si rigetta, capisce. E’ sempre il mondo, ogni volta, fatto a pezzi nel corpo. Mai però il corpo cadavere. O il corpo anatomico. Mai il mondo preso in sé, distaccato. Il corpo vivo, nostro e dei pazienti, e quello che con loro costituiamo in comune, è, se lo sentiamo, questa trasparenza del mondo, esso è il mio trovarmi immediatamente in contatto con me stesso, con l’altro e con il mondo, in una risonanza vibratile e fluente.
Questa transizione in atto dal paradigma rappresentazionale al paragima espressivo/impressivo, basato sull’assimilazione intercorporea o incorporazione reciproca, comporta, come dicevo all’inizio, un drastico capovolgimento epistemologico. Il corpo-mondo viene prima della mente, è il vero teatro del dramma; e il linguaggio è solo un epifenomeno di un qualcosa che accade laddove il linguaggio ancora non c’è, e forse non ci sarà mai. Del resto, da sempre, che sia furia pantoclastica o blocco catatonico, la follia è fisicità allo stato puro. La follia (Wahn) è deriva (Wanderung) ovvero viaggio, cammino, senza origine e senza meta, che noi da un certo punto in poi abbiamo fermato, prima con le mura, poi con farmaci che, non a caso, arrestano proprio al funzione motoria. Non a caso per lungo tempo, prima dell’arrivo della chemioterapia bradicinetizzante, la galassia delle cosiddette terapia fisiche, dal trattamento morale (che prevedeva la messa in scena di una o più azioni finalizzate) all’ECT o TEC, il movimento, anche se non ancora concettualizzato come movimento vissuto, è stato il protagonista della scena. Il paradigma dell’ embodiment, valorizzando la fenomenologia dell’azione, colma il vuoto cartesiano tra mente e mondo, e ricolloca pienamente i saperi della psiche dentro una biologia strutturale e dinamica. In questa prospettiva gli a priori della psichiatria fenomenologica, mutuati dalla filosofia trascendentale, ridiventano, oltre che trascendentali, immanenti e incarnati. Essi dànno forma al vivente e, se intuiti, ne portano allo scoperto la struttura, in quella senso-direzione o senso-significazione (Maldiney, 1963) del divenire (Minkowski, 1967). Il cervello, a questo punto, diventa, da organo di localizzazione, organo di mediazione (Fuchs, 2017), di trasformazione, di risonanza e di relazione. Il demenzialismo, prepotentemente rimesso in auge dal paradigma neokraepeliniano gemellato con il riduzionismo neurobiologico, è finalmente lontano da qui. Esso decade del tutto, insieme alle topiche frenologiche e all’associazionismo. Con esso si allontana anche lo psicologismo.
Questo tentativo, sofferto per tutto un secolo, da Jaspers a Fuchs, di unire finalmente Leben e Dasein, cioè il vivente e l’esistente, in una direzione significativa (Bedeutungsrichtung), secondo l’articolazione normativa e naturale delle sue forme, fa della psichiatria, forse, il vero (ed unico?) campo dell’incontro possibile tra biologia e filosofia. E’ la genesi delle forme, in questa circolarità circondata, che consente di collocare l’atto di significazione, nel suo fondamento espressivo, in quella che è la grande arena della vita (Minkowski, 1967). Infine il problema dei problemi, ovvero la trasmissione di “stati mentali” da un soggetto all’altro, finora descritto in termini di transfert e controtransfert, empatia, simpatia, intuizione e quant’altro, può essere finalmente ricompreso sulla base di un terreno comune e corporeo di fondo. E’ lì che si verifica quella temperie e quel gioco intenzionale che consente ad ognuno di noi di sentire, ad un certo punto, il proprio cuore battere al ritmo dell’altro. E, a proposito di temperie e di ritmo, Fuchs ricolloca, in queste dense pagine, anche la forma del tempo in una prospettiva incarnata. In questo, molto elegantemente, Raffaele Vanacore accosta il pensiero dello psicopatologo tedesco a quello di una grande filosofo del Sud Italia, Aldo Masullo: l’acuzie temporale, il taglio, la ferita lacerante dell’emergente kairotico co-incide con l’acme della paticità. E’ questo l’istante, già preconizzato da Binswanger, che frantuma il ghiacciaio dello Zeitstillstand (l’arresto del tempo) ed innesca, come un pacemaker, la possibilità del divenire: ed è, sempre di nuovo, la sistole e la diastole della vita.
Certo, la psichiatria fenomenologica (questa “gloriosa inutilità”..), mi pare, in queste pagine, essere giunta alla maturità della sua parabola, pur pagando fino in fondo la propria extraterritorialità tra scienze della natura e scienze umane, in quanto orfana di un sistema stabile di riferimento. Ed è bello che siano proprio due giovani ricercatori a portarne avanti il labaro.
Le vite di molti di noi, e di quelli che ci hanno preceduto, si sono consumate in questa lunga marcia dentro l’esistenza, cercando il fondo della vita.
Cosa resta, di questa psichiatria fenomenologica, alla fine, tra le nostre mani, se non l’incontro con l’altro? Anche quando questo incontro accade sullo sfondo del silenzio preriflessivo? Con l’altro folle, ad esempio, rimasto, tra tanti paradigmi mentalisti, privo di senso, privo di corpo e privo di mondo.
“Ma ciò non significa, allora, avanzare l’ipotesi paradossale che, forse, l’ancora di salvezza teorica della psichiatria fenomenologica sta proprio nella sua pratica, ovvero nella sua pratica clinica?” (Basso, 2009)[3]
Grazie, Thomas Fuchs, Valeria Bizzari e Raffaele Vanacore, per questo prezioso viatico.
[1] 2”La musicalità dell’essere”, Bizzari V, In Circolo, 2021.
[2] Ci siamo evidentemente dimenticati che il termine psiche deriva dal greco antico psychè che significa soffio, “spiro” vitale. Dunque la sua estrazione è totalmente corporea e carnale, anzi, di un carnale al limite della sua dissoluzione.
[3] “L’apriori nella psichiatria fenomenologica”. In Lo sguardo in anticipo. Quattro studi
sull’apriori. A cura di L. Bisin, Edizioni di Sofia, Milano, 2009
sull’apriori. A cura di L. Bisin, Edizioni di Sofia, Milano, 2009
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