Possiamo dire che il cuore della didattica a distanza sia nello spostamento della lezione dalla classe alla rete. Si tratta di una vera e propria migrazione che dagli ormai collaudati territori di Gutenberg sposta la lezione in un nuovo contesto, Internet, i cui usi e costumi sono ignoti, e in ogni caso non ancora condivisi a sufficienza dai più. E ciò sia all’interno della classe da parte dei docenti e, in misura minore, dai discenti (la maggior parte dei quali è composta da nativi digitali); sia all’esterno di essa, e cioè dalle famiglie, così come da tutte le istituzioni che implicitamente o esplicitamente concorrono nell’attestare che il luogo in cui si fa lezione “è” una scuola.
Tutto ciò già in epoca pre-Covid induceva scetticismo nei confronti delle pur presenti esperienze di scuola in rete. Scetticismo che si è trasformato in ostilità di fronte all’improvvisa e parossistica accentuazione del passaggio dalla classe-Gutenberg a quella in rete. La DaD è figlia di questa accelerazione che ha reso impellente un processo di trasformazione che altrimenti sarebbe andato avanti sicuramente con minori scosse, e si sarebbe probabilmente assestato allorché anche la generalità dei docenti sarà composta da nativi digitali. Perciò la prima cosa cui occorre fare attenzione allorché si parla della DaD è il fatto che l’insieme delle reazioni al fenomeno è da ricondursi a questa emergenza.
In passato mi è capitato di interessarmi di ciò che passa a livello affettivo fra docenti e discenti (Angelini, 1998). E ciò a partire da una precedente ricerca (Angelini, 1989\ 2018) su ciò che avviene fra il buon raccontatore in situazione e la propria udienza attuale. Le analogie che avevo riscontrato fra i due contesti erano tantissime. In questa sede mi pare importante riprenderne alcune. E precisamente quelle che emergono, spesso con grande scandalo, proprio a seguito dell’improvviso processo migratorio della classe, da quel luogo discreto e liminale in cui era collocata da oltre 150 anni, alla rete.
Innanzitutto il dato fino a ieri scontatissimo della complanarità, cioè il fatto che in classe docenti e discenti sono (o almeno paiono[1]) disporsi sullo stesso piano.
Nel definire il contesto in cui può essere raccontata una ‘storia’ Cirese affermava che il buon raccontatore e la propria udienza dovevano essere complanari: cioè posti sullo stesso piano. Era questa la caratteristica di fondo che permetteva al buon raccontatore di cogliere, a mano a mano che il racconto procedeva, le reazioni dell’udienza attuale, cioè di quella che aveva di fronte a sé in quel momento specifico[2], e conseguentemente di adattare il proprio racconto a quella particolare udienza.
Sostanzialmente, con un vincolo in più imposto dal programma, è ciò che accade anche al docente quando fa una lezione, cioè una lettura personale tarata su quella particolare udienza chiamata “classe”. Però tutto si complica nel momento in cui la classe, da luogo liminale, discreto e soprattutto definito sia spazialmente che temporalmente (l’orario delle lezioni!), diventa un evento virtuale i cui connotati spaziali e temporali sono, o forse solo sembrano sconvolti.
Certo è che in questo nuovo luogo pare che vengano pericolosamente meno quelle caratteristiche che nella situazione di complanarità permessa dalla classe tradizionale erano date per scontate. Anche se poi nella realtà di tutti i giorni può capitare che anche lì ci sia solo la sembianza di una disposizione alla complanarità sia da parte dei discenti, sia da parte degli stessi docenti[3], che a ben vedere per essere realmente sul piano della complanarità con la classe devono essere capaci e soprattutto disposti ad esserlo.
Quindi il primo problema di fronte al quale ‘il buon docente’ si trova in questo processo migratorio è quello dell’adattamento della sua propensione ‘a raccontagliela’ alle nuove regole, per lo più ancora sconosciute, che la nuova situazione impone.
E parallelamente questo è anche il nuovo problema di fronte al quale si pone la classe e ciascuno dei discenti, che a loro volta devono abituarsi ad essere compresenti in questa nuova situazione.
Il secondo problema di fronte al quale si è trovata all’improvviso la scuola italiana è quello che potremmo definire come ‘il riassetto delle funzioni-cornice’ dentro alle quali letteralmente si colloca la lezione. Come ci ha insegnato Mottana, sulle orme di Kaës, la lezione è incastonata fra le funzioni 'istituente' ed 'in\ludente', e quelle di 'valutazione' e 'separazione'. In questa sede ci interesseremo soprattutto delle prime due funzioni, e accenneremo solo di sfuggita alle ultime due.
Per funzione istituente[4] s’intende il fatto che un determinato luogo, in certe ore, con determinate modalità e con degli specifici programmi da svolgere, viene riconosciuto dalle autorità e dalle famiglie come “scuola”.
Nella vecchia scuola – quella di Edipo – questa funzione, che istituiva la scuola come tale sia nei luoghi del governo, sia coram populo, era così scontata che non si faceva caso all’importanza ch’essa effettivamente ha[5].
Nella scuola di Narciso (Angelini, 2020) però da un po’ di tempo lo è sempre meno perché da una parte le famiglie non sono più tanto disposte a riconoscerne l’autorevolezza, dall’altra lo Stato nei fatti disinveste progressivamente su di essa, e soprattutto sulla scuola pubblica.
Con la DaD almeno per ora il disamore delle famiglie si accentua, e si somma a quello della maggioranza dei docenti, dovuto essenzialmente al fatto che all’improvviso, ed in maniera del tutto adialettica, il disinteresse dello Stato per la didattica si è trasformato in una ingiunzione di una didattica a distanza che fino a pochi mesi fa era un terreno di sperimentazione di sparuti e non coordinati gruppi di docenti.
Superare nel tempo questi pesantissimi ostacoli interni (poiché le famiglie sono parte interna al processo formativo) sarà forse lo sforzo più grande che l’ecosistema adulto che ruota intorno alla scuola dovrà affrontare.
Con la funzione in\ludente[6] ci riconnettiamo a quanto dicevamo prima sulla complanarità. E facciamo un passo avanti nella comprensione di ciò che è necessario per creare quel clima particolare senza il quale non c’è lezione degna di questo nome.
Infatti la complanarità di per sé non basta. Non basta essere compresenti in classe. Occorre anche incendiare i cuori. Portarli a voler attuare ciò che la psicoanalista francese Francoise Dolto diceva del desiderio che il docente deve saper infondere nei discenti: “fammi qualcosa sul mio corpo!” è nel linguaggio immaginifico della Dolto il desiderio che il buon docente deve saper far nascere nel discente.
Se noi guardiamo ai mille e mille webinar che ormai fioriscono in rete possiamo farci una sia pur vaga idea di ciò che potrebbe derivare dall’adattamento delle capacità di sapergliela raccontare acquisite in classe al nuovo contesto che si profila all’orizzonte. Certo, i volti sempre sorridenti, e a volte un po’ ebeti che tendiamo ad assumere nei webinar risente ancora del fatto che “stare in rete” fa un affetto che fa venire in mente i corpi fermi e le facce sorridenti assunte un po’ da tutti nei primi video fatti in casa, come se l’operatore stesse per scattare una foto. Ma anche su questo piano a mio avviso occorre dar tempo al tempo.
Viene poi la lezione[7], che la stragrande maggioranza dei docenti non è ancora in grado di fare usando i nuovi strumenti offerti da internet; e che spesso diventa solo un momento legato, più che alla ‘lettura’ personale e alla spiegazione di ciò che è all’ordine del giorno, alla dettatura dei compiti e all’interrogazione (come ormai spesso avviene già in classe, soprattutto alle secondarie). E a questo livello è urgente far nascere e crescere una didattica della DaD, possibilmente in base ad un confronto che non può che venire nella comunicazione e nello scambio fra docenti.
Una didattica che deve adeguare alla DaD anche la valutazione[8], che – non dimentichiamolo – è anche autovalutazione, e perciò invito al riconoscimento dei propri limiti attuali come premessa di miglioramento.
E infine la funzione di separazione che nel caso della DaD significa come incontrarsi e separarsi in questa nuova dimensione della scuola: ogni ora, ogni giorno, ogni anno, ogni ciclo. Laddove, come dicevamo all’inizio, l’uso dello spazio e del tempo con la DaD è destinato a mutare radicalmente.
Reggio Emilia, 14.12.21
Bibliografia:
Tutto ciò già in epoca pre-Covid induceva scetticismo nei confronti delle pur presenti esperienze di scuola in rete. Scetticismo che si è trasformato in ostilità di fronte all’improvvisa e parossistica accentuazione del passaggio dalla classe-Gutenberg a quella in rete. La DaD è figlia di questa accelerazione che ha reso impellente un processo di trasformazione che altrimenti sarebbe andato avanti sicuramente con minori scosse, e si sarebbe probabilmente assestato allorché anche la generalità dei docenti sarà composta da nativi digitali. Perciò la prima cosa cui occorre fare attenzione allorché si parla della DaD è il fatto che l’insieme delle reazioni al fenomeno è da ricondursi a questa emergenza.
In passato mi è capitato di interessarmi di ciò che passa a livello affettivo fra docenti e discenti (Angelini, 1998). E ciò a partire da una precedente ricerca (Angelini, 1989\ 2018) su ciò che avviene fra il buon raccontatore in situazione e la propria udienza attuale. Le analogie che avevo riscontrato fra i due contesti erano tantissime. In questa sede mi pare importante riprenderne alcune. E precisamente quelle che emergono, spesso con grande scandalo, proprio a seguito dell’improvviso processo migratorio della classe, da quel luogo discreto e liminale in cui era collocata da oltre 150 anni, alla rete.
Innanzitutto il dato fino a ieri scontatissimo della complanarità, cioè il fatto che in classe docenti e discenti sono (o almeno paiono[1]) disporsi sullo stesso piano.
Nel definire il contesto in cui può essere raccontata una ‘storia’ Cirese affermava che il buon raccontatore e la propria udienza dovevano essere complanari: cioè posti sullo stesso piano. Era questa la caratteristica di fondo che permetteva al buon raccontatore di cogliere, a mano a mano che il racconto procedeva, le reazioni dell’udienza attuale, cioè di quella che aveva di fronte a sé in quel momento specifico[2], e conseguentemente di adattare il proprio racconto a quella particolare udienza.
Sostanzialmente, con un vincolo in più imposto dal programma, è ciò che accade anche al docente quando fa una lezione, cioè una lettura personale tarata su quella particolare udienza chiamata “classe”. Però tutto si complica nel momento in cui la classe, da luogo liminale, discreto e soprattutto definito sia spazialmente che temporalmente (l’orario delle lezioni!), diventa un evento virtuale i cui connotati spaziali e temporali sono, o forse solo sembrano sconvolti.
Certo è che in questo nuovo luogo pare che vengano pericolosamente meno quelle caratteristiche che nella situazione di complanarità permessa dalla classe tradizionale erano date per scontate. Anche se poi nella realtà di tutti i giorni può capitare che anche lì ci sia solo la sembianza di una disposizione alla complanarità sia da parte dei discenti, sia da parte degli stessi docenti[3], che a ben vedere per essere realmente sul piano della complanarità con la classe devono essere capaci e soprattutto disposti ad esserlo.
Quindi il primo problema di fronte al quale ‘il buon docente’ si trova in questo processo migratorio è quello dell’adattamento della sua propensione ‘a raccontagliela’ alle nuove regole, per lo più ancora sconosciute, che la nuova situazione impone.
E parallelamente questo è anche il nuovo problema di fronte al quale si pone la classe e ciascuno dei discenti, che a loro volta devono abituarsi ad essere compresenti in questa nuova situazione.
Il secondo problema di fronte al quale si è trovata all’improvviso la scuola italiana è quello che potremmo definire come ‘il riassetto delle funzioni-cornice’ dentro alle quali letteralmente si colloca la lezione. Come ci ha insegnato Mottana, sulle orme di Kaës, la lezione è incastonata fra le funzioni 'istituente' ed 'in\ludente', e quelle di 'valutazione' e 'separazione'. In questa sede ci interesseremo soprattutto delle prime due funzioni, e accenneremo solo di sfuggita alle ultime due.
Per funzione istituente[4] s’intende il fatto che un determinato luogo, in certe ore, con determinate modalità e con degli specifici programmi da svolgere, viene riconosciuto dalle autorità e dalle famiglie come “scuola”.
Nella vecchia scuola – quella di Edipo – questa funzione, che istituiva la scuola come tale sia nei luoghi del governo, sia coram populo, era così scontata che non si faceva caso all’importanza ch’essa effettivamente ha[5].
Nella scuola di Narciso (Angelini, 2020) però da un po’ di tempo lo è sempre meno perché da una parte le famiglie non sono più tanto disposte a riconoscerne l’autorevolezza, dall’altra lo Stato nei fatti disinveste progressivamente su di essa, e soprattutto sulla scuola pubblica.
Con la DaD almeno per ora il disamore delle famiglie si accentua, e si somma a quello della maggioranza dei docenti, dovuto essenzialmente al fatto che all’improvviso, ed in maniera del tutto adialettica, il disinteresse dello Stato per la didattica si è trasformato in una ingiunzione di una didattica a distanza che fino a pochi mesi fa era un terreno di sperimentazione di sparuti e non coordinati gruppi di docenti.
Superare nel tempo questi pesantissimi ostacoli interni (poiché le famiglie sono parte interna al processo formativo) sarà forse lo sforzo più grande che l’ecosistema adulto che ruota intorno alla scuola dovrà affrontare.
Con la funzione in\ludente[6] ci riconnettiamo a quanto dicevamo prima sulla complanarità. E facciamo un passo avanti nella comprensione di ciò che è necessario per creare quel clima particolare senza il quale non c’è lezione degna di questo nome.
Infatti la complanarità di per sé non basta. Non basta essere compresenti in classe. Occorre anche incendiare i cuori. Portarli a voler attuare ciò che la psicoanalista francese Francoise Dolto diceva del desiderio che il docente deve saper infondere nei discenti: “fammi qualcosa sul mio corpo!” è nel linguaggio immaginifico della Dolto il desiderio che il buon docente deve saper far nascere nel discente.
Se noi guardiamo ai mille e mille webinar che ormai fioriscono in rete possiamo farci una sia pur vaga idea di ciò che potrebbe derivare dall’adattamento delle capacità di sapergliela raccontare acquisite in classe al nuovo contesto che si profila all’orizzonte. Certo, i volti sempre sorridenti, e a volte un po’ ebeti che tendiamo ad assumere nei webinar risente ancora del fatto che “stare in rete” fa un affetto che fa venire in mente i corpi fermi e le facce sorridenti assunte un po’ da tutti nei primi video fatti in casa, come se l’operatore stesse per scattare una foto. Ma anche su questo piano a mio avviso occorre dar tempo al tempo.
Viene poi la lezione[7], che la stragrande maggioranza dei docenti non è ancora in grado di fare usando i nuovi strumenti offerti da internet; e che spesso diventa solo un momento legato, più che alla ‘lettura’ personale e alla spiegazione di ciò che è all’ordine del giorno, alla dettatura dei compiti e all’interrogazione (come ormai spesso avviene già in classe, soprattutto alle secondarie). E a questo livello è urgente far nascere e crescere una didattica della DaD, possibilmente in base ad un confronto che non può che venire nella comunicazione e nello scambio fra docenti.
Una didattica che deve adeguare alla DaD anche la valutazione[8], che – non dimentichiamolo – è anche autovalutazione, e perciò invito al riconoscimento dei propri limiti attuali come premessa di miglioramento.
E infine la funzione di separazione che nel caso della DaD significa come incontrarsi e separarsi in questa nuova dimensione della scuola: ogni ora, ogni giorno, ogni anno, ogni ciclo. Laddove, come dicevamo all’inizio, l’uso dello spazio e del tempo con la DaD è destinato a mutare radicalmente.
Reggio Emilia, 14.12.21
Bibliografia:
- Angelini L.; Affabulazione e formazione: docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
- Angelini L.; Raccontami una storia. Fiabe e racconti di Locorotondo. Funzioni e significati del narrare orale in situazione, Edizioni di Pagina, Bari, II Ediz. 2018
- Angelini L.; La scuola di Narciso – Analisi, note, progetti, Amazon, 2020,
- Cirese A. M., “Qualcosa è fiaba, ma cosa? Spezzoni di un discorso”, in: AA.VV. “Tutto è fiaba”, Emme Edizioni, Milano, 1980, pp.5\19
- Dolto F., cit. in: Kaës
- Kaës R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
- Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma, 1993
[2] Sono note a tutti coloro che si sono interessati al narrare orale quali siano le capacità del buon raccontatore di compiere i vari artifici che gli consentono di allungare o di contrarre la narrazione in base alle reazioni dell’udienza.
[3] L’immagine del film “Il maestro di Vigevano”, interpretato da Alberto Sordi, che durante il doposcuola sembra presente, ma in effetti dorme, nascosto dietro un paio di occhialoni neri.
[5] Con l’eccezione di scuole come quella di Barbiana, che non apparivano come scuola perché troppo eccentriche.
[7] Cfr.: La lezione in controluce
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