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Senso di Colpa, Genetica e Dolore Mentale

9 Gen 22

A cura di Sarantis Thanopulos

“Per tutta la vita mi sono sentita una stupida, incapace di affrontare situazioni che per tutti gli altri sono normali”. A parlare, sulle pagine di un giornale nazionale, è una donna medico genetista. La dottoressa confessa che lei, suo marito e i loro tre figli sono risultati, attraverso un test che ha rivelato mutazioni multigeniche, affetti da autismo (i figli in modo più grave). La donna ha vissuto la rivelazione come liberazione dalla colpa di sentirsi impotente di fronte al bullismo, quando era piccola, o della sua difficoltà, ancor oggi, di mettere piede nei bar perché si sente agitata e confusa. Mettere nel calderone autistico la genetista e suo marito è un azzardo: pur con le loro difficoltà umane e con le loro ansie e angosce, sono persone realizzate professionalmente, legate da innamoramento sincero e in grado di esprimere i loro sentimenti e idee in modo appropriato.
La  diagnosi genetica di autismo, attraverso un test, semplicemente non sussiste, può essere solo il frutto di inferenze. La genesi del disagio autistico, alla luce delle ricerche più ampie e approfondite, sembra sia mista: ereditaria e ambientale. Mancano studi epigenetici (che indaghino la relazione tra genetica e ambiente) degni di questo nome. La loro esigenza è ignorata perché richiedono conoscenze  complesse, multidisciplinari e la collaborazione di saperi diversi. La definizione di “spettro autistico” congloba situazioni molto eterogenee sul piano clinico e esistenziale e tende sempre di più a espandersi in tutto il campo della psicopatologia. Siccome tutto fa brodo, tutte le volte che i conti non tornano, gli esperti ampliano lo spazio della definizione di un disagio e pescano quello che vogliono.
Molti tecnici della genetica applicata alla psicologia hanno smarrito la strada della scienza: il dubbio, l’interrogazione, la precisione che è al servizio della complessità (pronta a mettere in discussione la prospettiva assunta). Puntano sull’affermazione di una verità ideologica che ottiene consenso attraverso lo sfruttamento del senso di colpa per la propria sofferenza e per la sofferenza dei propri figli. Si sta facendo strada un’interpretazione del dolore umano fondata sulla genetica che strumentalizza la sofferenza emotiva attribuendo la sua “colpa” alla biologia. Se sono i nostri geni ad aver determinato il nostro malessere o quello dei nostri figli, allora nessuno ci può accusare di mancanza di volontà, di scelte errate o di cattiva fede.
Il senso di colpa più difficile da gestire nei confronti del nostro disagio psichico e di quello dei nostri cari, non ha a che fare con una colpa oggettiva (per quanto il suo fantasma possa ossessionarci), ma con la percezione oscura di un’inadeguatezza a farsi carico di noi stessi e delle nostre relazioni. Il sentimento di inadeguatezza deriva da una congiuntura pregressa avversa alla possibilità psichica di scelte libere che è determinata da fattori ereditari, sociali, microambientali. L’impossibilità di una  scelta reale sfocia, inevitabilmente, in errori preterintenzionali e li fa apparire come causa della nostra infelicità, creando una grave mistificazione esistenziale.
Prendere cura delle persone che soffrono significa aiutarli a capire che, a prescindere dalla causa del loro malessere, la colpa provata è impropria, che il loro dolore è legato a situazioni che escludono una scelta personale. Ascoltare i genitori di bambini sofferenti significa far loro comprendere che sentirsi in colpa per il dolore di chi si ama è umano: spinge a voler stargli vicino, a farsi carico delle sue difficoltà. Ciò è diverso da rimuginare sui propri errori, veri o supposti, o dal voler discolparsi, che devono cedere il posto al senso di responsabilità. Il circuito della colpa/discolpa   rimanda infinitamente agli errori delle generazioni passate. Quello che serve è darsi da fare per riparare il danno, o per alleviarlo, senza cercare un colpevole.   

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