“Nell’ora che volge il fragore d’armi risuona in tutta Europa. Le idee d’imperialismo, di nazionalismo, di tradizionalismo si diffondono dappertutto e tendono a trasformare le diverse nazioni d’Europa in organizzazioni ostili, pronte a precipitarsi le une contro le altre. Invece di concepire l’umanità come un tutto solidale, si vogliono elevare barriere morali, sociali, doganali, anche sentimentali, fra le nazioni grandi o piccole”.
Sono un passaggio del discorso tenuto alla Sorbonne da Charles Robert Richet, illustre fisiologo e premio Nobel per le sue ricerche sull’anafilassi. Era il primo marzo 1914: l’ora incombeva ma i più distoglievano lo sguardo. Charles Richet incarnava per certi versi l’ideale culturale tardo-positivista: grande ed ecclettico studioso, cattedratico di fisiologia, Accademico di Francia, universalmente noto come promotore della sieroterapia coltivava interessi psicologici, sociologici, letterari, ingegneristici ed era da sempre un intransigente pacifista. Aveva manifestato senza ambiguità le proprie idee (mantenute sino alla morte, nel 1935) denunciando in numerosi scritti “le due facce della guerra: ferocia e stupidità” (1). Aveva condiviso col “célèbre ami Cesare Lombroso” – con il quale aveva condotto importanti sperimentazioni nel campo della metapsichica – l’avversione al militarismo e alle avventure coloniali.
Non stupisce dunque che in quella stessa primavera il testo del suo discorso venisse riportato integralmente nel fascicolo dell’Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale (2), diretto da Mario Carrara, genero di Cesare Lombroso e suo successore nell’Ateneo torinese. Il titolo (L’elogio della ragione) rifletteva l’intento di Richet, pienamente condiviso dalla redazione, schierata “contro il pragmatismo, il misticismo, il tradizionalismo, ed il nazionalismo!”.
Il premio Nobel denunciava l’aggressione mossa alla scienza e alla ragione dalle correnti irrazionaliste. L’ecumene degli studiosi, lo spirito scientifico, subivano attacchi in quanto “internazionalisti”. Ed il nazionalismo “come un flagello malsano” dilaga “in tutta Europa e compie le sue devastazioni dappertutto. […] È come un gran soffio di errore pestifero che si diffonde sul mondo”. E ribadiva:
“Prendiamo per esempio una delle tradizioni più antiche e inveterate di tutta l’umanità. Questa: che si deve fare la guerra. Raccogliere eserciti formidabili, consacrare tutte le forze del proprio paese a combattere i propri vicini: ecco la tradizione in tutto il suo orrore” (3).
Per combattere le tenebre incombenti occorreva fare appello all’universalità della ragione e del progresso scientifico, “porre tutte le nostre speranze nella scienza che si deve assumere come guida, come unica guida: tutte le altre ci condurrebbero all’inganno: essa sola indica a tutti noi, amici, la via che si deve seguire: la scienza, la grande liberatrice”.
Erano frasi che riproponevano concetti già cari alla parte più avanzata degli intellettuali positivisti. Lombroso, parecchio tempo addietro, non aveva esitato a inserire la guerra nella categoria criminologica:
“Ma qual delitto più criminoso della guerra, che è un ammasso intero di delitti su grande scala, di stupri, incendi, saccheggi, provocati da cause simili a quelle dei delitti comuni, come le ambizioni personali, le cupidigie ecc., perdonati appunto e solo perché in grande scala!” (4). E ben prima che si diffondesse la spinta futuristica alla guerra “sola igiene del mondo”, rimarcava: “Si è creduto per molto tempo che la guerra fosse moralizzatrice, e v’han molti che nel veder la corrente di corruzione che ci affoga invocano quella a supremo rimedio, come un uragano che spazzerà i morbi da cui siamo inquinati. Oh! Costoro non hanno mai compreso che un guaio non si migliora con un guaio peggiore; e che la guerra è il peggiore di tutti, sicché, appunto come l’uragano, sarà ben facile che essa ci porti del male; ma impossibile ci faccia del bene” (5).
Negli anni successivi la critica radicale di Lombroso si sarebbe estesa all’intera politica occidentale, in una visione del “nuovo secolo” dominata da note di un pessimismo profondo e singolarmente profetico:
“vediamo scatenarsi la violenza bestiale della guerra da un punto all’altro del globo, nell’Africa, nelle Filippine, nella Cina e per parte dei paesi e dei popoli che prima credevamo più civili, più adoratori della pace, e portar in queste guerre una crudeltà che noi credevamo mostruosa nel Medioevo […] E vediamo svilupparsi un’avidità cieca di conquiste nei popoli civili […] li vediamo ingolfarsi in una serie di guerre senza fine, di cui l’unico obbiettivo chiaro appaiono la rovina finanziaria, l’imbarbarimento della coltura, l’odio rovinoso dei vinti” (6).
Come è noto, il padre dell’antropologia criminale morì nel 1909, prima di poter constatare il pieno avveramento della sua amara analisi. Un’esperienza che invece non sarebbe stata risparmiata all’amico Charles Richet, insieme al fallimento delle sue nobili illusioni.
Sono un passaggio del discorso tenuto alla Sorbonne da Charles Robert Richet, illustre fisiologo e premio Nobel per le sue ricerche sull’anafilassi. Era il primo marzo 1914: l’ora incombeva ma i più distoglievano lo sguardo. Charles Richet incarnava per certi versi l’ideale culturale tardo-positivista: grande ed ecclettico studioso, cattedratico di fisiologia, Accademico di Francia, universalmente noto come promotore della sieroterapia coltivava interessi psicologici, sociologici, letterari, ingegneristici ed era da sempre un intransigente pacifista. Aveva manifestato senza ambiguità le proprie idee (mantenute sino alla morte, nel 1935) denunciando in numerosi scritti “le due facce della guerra: ferocia e stupidità” (1). Aveva condiviso col “célèbre ami Cesare Lombroso” – con il quale aveva condotto importanti sperimentazioni nel campo della metapsichica – l’avversione al militarismo e alle avventure coloniali.
Non stupisce dunque che in quella stessa primavera il testo del suo discorso venisse riportato integralmente nel fascicolo dell’Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale (2), diretto da Mario Carrara, genero di Cesare Lombroso e suo successore nell’Ateneo torinese. Il titolo (L’elogio della ragione) rifletteva l’intento di Richet, pienamente condiviso dalla redazione, schierata “contro il pragmatismo, il misticismo, il tradizionalismo, ed il nazionalismo!”.
Il premio Nobel denunciava l’aggressione mossa alla scienza e alla ragione dalle correnti irrazionaliste. L’ecumene degli studiosi, lo spirito scientifico, subivano attacchi in quanto “internazionalisti”. Ed il nazionalismo “come un flagello malsano” dilaga “in tutta Europa e compie le sue devastazioni dappertutto. […] È come un gran soffio di errore pestifero che si diffonde sul mondo”. E ribadiva:
“Prendiamo per esempio una delle tradizioni più antiche e inveterate di tutta l’umanità. Questa: che si deve fare la guerra. Raccogliere eserciti formidabili, consacrare tutte le forze del proprio paese a combattere i propri vicini: ecco la tradizione in tutto il suo orrore” (3).
Per combattere le tenebre incombenti occorreva fare appello all’universalità della ragione e del progresso scientifico, “porre tutte le nostre speranze nella scienza che si deve assumere come guida, come unica guida: tutte le altre ci condurrebbero all’inganno: essa sola indica a tutti noi, amici, la via che si deve seguire: la scienza, la grande liberatrice”.
Erano frasi che riproponevano concetti già cari alla parte più avanzata degli intellettuali positivisti. Lombroso, parecchio tempo addietro, non aveva esitato a inserire la guerra nella categoria criminologica:
“Ma qual delitto più criminoso della guerra, che è un ammasso intero di delitti su grande scala, di stupri, incendi, saccheggi, provocati da cause simili a quelle dei delitti comuni, come le ambizioni personali, le cupidigie ecc., perdonati appunto e solo perché in grande scala!” (4). E ben prima che si diffondesse la spinta futuristica alla guerra “sola igiene del mondo”, rimarcava: “Si è creduto per molto tempo che la guerra fosse moralizzatrice, e v’han molti che nel veder la corrente di corruzione che ci affoga invocano quella a supremo rimedio, come un uragano che spazzerà i morbi da cui siamo inquinati. Oh! Costoro non hanno mai compreso che un guaio non si migliora con un guaio peggiore; e che la guerra è il peggiore di tutti, sicché, appunto come l’uragano, sarà ben facile che essa ci porti del male; ma impossibile ci faccia del bene” (5).
Negli anni successivi la critica radicale di Lombroso si sarebbe estesa all’intera politica occidentale, in una visione del “nuovo secolo” dominata da note di un pessimismo profondo e singolarmente profetico:
“vediamo scatenarsi la violenza bestiale della guerra da un punto all’altro del globo, nell’Africa, nelle Filippine, nella Cina e per parte dei paesi e dei popoli che prima credevamo più civili, più adoratori della pace, e portar in queste guerre una crudeltà che noi credevamo mostruosa nel Medioevo […] E vediamo svilupparsi un’avidità cieca di conquiste nei popoli civili […] li vediamo ingolfarsi in una serie di guerre senza fine, di cui l’unico obbiettivo chiaro appaiono la rovina finanziaria, l’imbarbarimento della coltura, l’odio rovinoso dei vinti” (6).
Come è noto, il padre dell’antropologia criminale morì nel 1909, prima di poter constatare il pieno avveramento della sua amara analisi. Un’esperienza che invece non sarebbe stata risparmiata all’amico Charles Richet, insieme al fallimento delle sue nobili illusioni.
NOTE
- Richet, C. (1907). Le passé de la guerre et l’avenir de la paix. Paris: Société d’Éditions Littéraires et Artistiques.
- L’Archivio di Psichiatria, Scienze penali ed Antropologia Criminale per servire allo studio dell'uomo alienato e delinquente, storico periodico fondato da Lombroso e Garofalo nel 1880, aveva cessato le pubblicazioni nel 1909, trasformandosi poi in Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale, sotto la direzione di Mario Carrara.
- Richet, C. (1914). “L’elogio della ragione”, in Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale, 263-268.
- Lombroso, C. (1896). La funzione sociale del delitto. Palermo: Sandron, p.3.
- Lombroso, C. (1903). Le piaghe d’Italia [1893]. In Lombroso, C., Il momento attuale. Milano: casa editrice Moderna, p. 21,
- Lombroso, C. (1903). Il nuovo secolo [1901]. In Lombroso, C., Il momento attuale. Milano: casa editrice Moderna, p.29.
0 commenti