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COME SI FA AD AMARE IL LAVORO DI PSICOANALISTA?

2 Ott 23

A cura di Annalisa Piergallini

Quello che amo di questo lavoro è il viaggio, sempre diverso, che ogni persona fa, con me, nei meandri del suo inconscio, come si risveglia, come cambia, come si rivela e come si libera di fardelli inutili, di tutti quei dolori in più che si trascina dietro, come un bagaglio pesante, una catena. Mi piace vedere le catene che si spezzano, le personalità che emergono. Mi piace vedere le schiene che si raddrizzano, i volti che si distendono, i pregiudizi che si sgretolano. Mi piace come le storie e le connessioni variano e si modificano. Come le palpebre si sollevano, gli sguardi si accendono, le facce si abbelliscono.
Mi piace quando vanno veloci e io fatico a stargli dietro, mi piace quando si inventano infinite vie per non essere solo servi, solo lamento, solo tormento, solo frammentazione.
Mi piace la funambolica vita sociale fuori dal lavoro, ora sì, perfino quello, come tutto si complica e si riformula quando ammetti di fare l’analista. Mi piace esserci per chi vuole sul serio farne qualcosa del proprio sintomo, per chi ha smesso di fare la lagna e comincia a lottare. Mi piace pure chi lotta da sempre e sceglie di fidarsi di me per avere una spalla. Chi ha tante spalle, ma non ha trovato ancora il modo di guardarsi certe cose. Perché le spalle da sole non bastano e le lacrime e le ricette.
Mi piace come ognuno in analisi scriva il suo libro che è solo suo e di nessun altro. Perché non hai ancora scritto un saggio? Mi chiedono. Ma come tu, che scrivi così bene? Ma ogni giorno sono lì, per chi vuole costruire la sua storia e i paragrafi si susseguono, poi i capitoli, poi i volumi. Voluminosi pacchi di male di vivere, vere paure, distrutte illusioni, antichi terrori, ma anche invenzioni, parole opere e missioni. Riconciliazioni, liberazioni, compromessi e nessi. Essi vivono e io scompaio.
Mi piace scomparire quando serve, mettermi in ombra, per lasciarli parlare.
Una donna una volta, in un bar, mentre prendevo un caffè, mi ha chiesto:
– ah da te ci vengono i matti?
– No, signora i matti stanno tutti in giro!
Mi piace, quando voglio, fregarmene e rispondere come mi và. Con l’ironia che mi ha insegnato mio padre. Perché anche i santi fanno pause. Mi piace quando mi dicono che non mi vedono come psicoanalista. E meno male, infatti non lo sono, lo faccio solo. Solo un vero folle può credere di essere uno psicoanalista, dice Jacques Lacan. Matto, folle, pazzo, schizzato, esaurito, psichiatrico, disagiato, parole che sono usate per denigrare, ma anche per vantarsi, oggi, perché il mondo è cambiato e il dovere è il dovere consumistico del post-capitalismo: devi godere! E ormai l’hanno cominciato a capire che i folli godono di più.
Ma la felicità è un’altra storia, la felicità è soggettività, avere uno spazio proprio, conoscersi, amarsi, almeno sopportarsi e non solo godere o primeggiare o godere primeggiando o primeggiare godendo.
Non so con che stile scriverai il tuo libro, non so cosa ne farai, né se mi ringrazierai o finirai per odiarmi, per potermi abbandonare. Non sta a me decidere cosa ne farai del tuo volume rilegato in significanti. Non sarò io a dirti se lasciarlo o licenziarti o ribellarti. Non sta a me dirti per cosa vale la pena vivere, svegliarsi, rimanere alzati a scrivere, come sto facendo io.
Non sta a me decidere cosa è meglio per te, ma sta a me condurti là dove vuoi arrivare, col tuo sapere, fino al punto dove vorrai spingerti. Di solito si sta meglio, mi aveva detto onestamente il mio analista, una volta avuta la verità. La fine analisi non è la fine del fantasma inconscio o l’uscita completa dalla ripetizione, ma è la fine della cieca collaborazione con la propria pulsione di morte, la fine della sorda orda di scuse giustificazioni lunghe dissertazioni. Le nubi sono diradate, piove lo stesso, ma è tutto diverso.
Poi ci sono altri motivi per cui amo questo folle lavoro, ma quelli non li dico, almeno stavolta

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