all’interno di un ciclo di incontri con i dirigenti scolastici reggiani sul tema:
Nuova società, nuove famiglie, nuova scuola, nuove regole,
16 Aprile 2008
(ora su: Angelini L, La scuola di Narciso, pp.13\30)
1) Scuola e riproduzione sociale ieri ed oggi a Reggio Emilia
La scuola e la famiglia svolgono una funzione di riproduzione sociale, ovvero garantiscono il passaggio dei caratteri distintivi della società – di qualsiasi società – da una generazione all’altra: entrambe svolgono questa importante funzione attraverso l’educazione. Certo, in ogni società è possibile intravedere altri luoghi, altre istituzioni che in modo più o meno autocosciente svolgono questa importante funzione, decisiva sul piano identitario sia nelle società statiche, sia ancor più nelle società dinamiche. Fatto sta però che scuola e famiglia rimangono sempre i due attori principali della riproduzione sociale.
Dicevamo che la promozione della riproduzione sociale è più facilmente garantita nelle società statiche – ad esempio nelle vecchie società contadine – poiché in queste società il passaggio da una generazione all’altra non comporta soverchi cambiamenti, ed anzi richiede (spesso impone) una fedeltà ai vecchi principi, alle vecchie modalità di vita e di lavoro che facilita il compito dei membri adulti della società, e in special modo dei genitori e dei docenti.
Mentre risulta mediamente più difficile nelle società dinamiche che per innovare hanno bisogno di rivedere sempre le ragioni di fondo che erano alla base della vita delle generazioni che declinano e di adattarle alle nuove esigenze del presente. Perciò in queste società il rapporto intergenerazionale risulta sempre più esposto a una serie di rischi, che aumentano vertiginosamente allorché il cambiamento risulta troppo radicale e repentino.
Ebbene il primo argomento che vorrei proporvi oggi è questo: è indubbio che una delle componenti di fondo che caratterizza la nuova società metropolitana, e quella reggiana in particolare, è la sua estrema dinamicità.
La società reggiana ha affrontato il passaggio da una dimensione statica ad una estremamente dinamica nell’arco di due sole generazioni; mentre – come affermano Basini e Lugli – l’Inghilterra e Francia sono state sottoposte allo stesso processo rispettivamente nell’arco di otto e sette generazioni: ciò determina per la società reggiana un rischio di anomia estremamente alto.
Cercheremo ora di vedere come si è attrezzata la scuola, e la scuola reggiana in particolare, di fronte a questi cambiamenti.
Se prendiamo come spartiacque il boom economico del ‘61\’62 noteremo che c’è una società reggiana pre-boom più statica, alla quale segue dopo il boom una società molto più dinamica. E noteremo anche che all’interno di questa società che cambia rapidamente dapprima – e fino alla fine degli anni 70 – persiste una scuola incentrata sul rituale pedagogico (Fürstenau), cioè intrisa – come vedremo meglio più avanti – di formalità e distanza fra docenti e discenti. Mentre successivamente, a partire dalla metà degli anni ’70 e fino ad oggi, questo tipo di scuola diventa pian piano obsoleto e viene sostituito da una scuola centrata sulla teatralizzazione della scena scolastica, in cui la “mozione degli affetti” fra docenti e discenti, lungi dall’essere disarticolata e ingessata nel rituale pedagogico, emerge e passa in primo piano.
Nel rapporto fra scuola e società dal dopoguerra ad oggi distingueremo tre fasi: A. la prima che va, appunto, dal primo dopoguerra al boom economico, cioè fino alla fine degli anni ’60; B. la seconda dal boom alla piena espansione del processo d’industrializzazione, e cioè dagli anni ’70 alla fine degli anni ‘80; C. e infine la terza, che comprende gli ultimi 17 / 18 anni, e che corrisponde all’emergere e all’affermarsi in provincia del processo di terziarizzazione.
A. – La prima fase in tutta Italia è caratterizzata: – dalla presenza di un forte settore agricolo, cui al Nord si affiancano spesso enclaves protoindustriali, che a Reggio erano “Le Reggiane”; – dalla presenza di una classe dirigente esigua all’interno di una situazione contrassegnata da una scarsissima mobilità verticale. Si trattava cioè di una società statica che presentava scarsi livelli di mobilità verticale.
In questo clima la scuola partecipava, insieme alla famiglia, ad un processo che sembrava facile e scontato[1] in cui essenzialmente bisognava ricondurre le nuove generazioni ai principi e ai postulati delle vecchie generazioni. Per la maggior parte dei discenti l’importante era imparare a leggere e a far di conto. Mentre una divaricazione precoce tra scuola media e avviamento professionale sanciva la prevalenza della selezione di censo rispetto alla selezione di merito.
Il fine di questa scuola era da una parte quella di favorire la formazione della classe dirigente già selezionata in base al censo; dall’altra di ricondurre precocemente la stragrande maggioranza dei discenti all’interno di un clima incentrato sulla disciplina e sull’obbedienza.
La presenza, infine, di una folta schiera di docenti uomini in ogni ordine di scuola, nonché la suddivisione in classi che comprendevano distintamente alunni maschi e alunne femmine indirizzava ad attese e prescrizioni di ruolo legate al genere molto rigide, sia per i discenti maschi che per le femmine.
B. – A partire dal boom economico c’è una spettacolare contrazione del settore agricolo, collegato specie a Reggio E., ad un inurbamento massiccio e ad un passaggio degli ex contadini inurbati dalla famiglia allargata alla famiglia nucleare, dal lavoro nei campi a quello industriale.
Ho avuto modo di intervistare una ventina di donne di una certa età che avevano vissuto questo duplice passaggio che mi hanno descritto con quale fatica hanno dovuto adattarsi alla vita all’interno di un’abitazione (il condominio) che non permetteva più da un punto di vista architettonico la permanenza delle tre generazioni in casa; e quanta per adattarsi ai nuovi orari e ai nuovi ritmi legati ai nuovi lavori.
A fianco a questa rivoluzione si assiste in molte parti del Nord allo sviluppo e, in certe situazioni, l’esplosione del processo migratorio – da cui Reggio allora fu sostanzialmente preservata – che si dirige ormai oltre che in direzione del triangolo industriale, anche verso le nuove enclaves industriali e, più in generale, verso le grandi città[2].
Un altro elemento che caratterizza quest’epoca è la nascita di un terziario legato all’industria, ma soprattutto al neonato welfare italiano. Neonato perché è solo in questo periodo che nascono in Italia la scuola media unica, le scuole materne comunali e statali, e poco più tardi gli asili nido. A tutto ciò si accompagna la liberalizzazione degli accessi all’università, che indica in maniera eloquente l’apertura ad una società sempre più aperta alla mobilità verticale.
Cambiano cioè gli involucri, i contenitori, e questo determina uno sconvolgimento totale all’interno della scuola: la maggiore mobilità verticale rende ora possibile alle famiglie aspirare a una condizione nuova per i propri figli, e tutto ciò si riverbera sulla scuola ingenerando attese nuove e fortissime, che non possono più assolutamente coincidere con l’alfabetizzazione e l’abitudine all’ordine e all’obbedienza.
L’Italia e Reggio in particolare – in cui, come abbiamo appena visto, il boom arriva a sconvolgere profondamente e rapidissimamente l’assetto territoriale, lavorativo e familiare – vengono a trovarsi quasi all’improvviso all’interno di una società dinamica dove alla mobilità orizzontale si sommano la mobilità verticale, e soprattutto l’attesa di un cambiamento che pone in profonda crisi la vecchia scuola. Ricorderete Il maestro di Vigevano: libro e film rappresentano bene com’era la scuola in quegli anni nei nuovi luoghi della ricchezza italiana.
La presenza di questo nuovo e più complesso tessuto sociale comporta l’esigenza di avere una classe dirigente più ampia e articolata rispetto a quella del periodo precedente in cui la realtà sociale appariva come una specie di piramide mancante del pezzo intermedio, con alla cima una classe dirigente esigua e molto più in basso un’enorme massa di lavoratori.
Adesso invece c’è un ampliamento della classe dirigente e, più in giù, una stratificazione molto più accentuata e segmentata. In questo secondo periodo aumentano le esigenze formative a tutti i livelli.
Il passaggio alla famiglia nucleare poi implica una enorme trasformazione della prescuola con la materna che, da assistenziale che era, si trasforma in istanza di tipo educativo (la scuola dell’infanzia!) ed è diretta non solo ai poveri, ma anche ai figli dei borghesi; e con gli asili nido, nati in un secondo momento, e destinati a sconvolgere ancor di più i sistemi di educazione precoce[3].
Mentre abbastanza velocemente si passa dalla selezione di censo alla selezione di merito e, per questa strada che all’improvviso sembra praticabile per la maggior parte dei lavoratori, si determina un grosso investimento da parte delle famiglie sulla scuola legato alle maggiori attese presenti sul piano della mobilità verticale.
Nasce in questo momento la scuola media unica; aumentano, soprattutto al nord, gli indirizzi tecnico-scientifici nelle superiori; e inizia, in parallelo all’esplosione del welfare, un processo di femminilizzazione della docenza ad ogni livello, per cui abbiamo le donne che contemporaneamente diventano attrici e fruitici del welfare. Passa la liberalizzazione dell’accesso all’Università e nasce l’Università di massa: nel mio corso di laurea alla facoltà di sociologia di Trento nel ‘63\’64 eravamo in poco più di duecento iscritti; all’improvviso nell’anno ‘66/’67 le iscrizioni salgono ad oltre duemila.
Nasce in questo clima tumultuoso il problema della pianificazione degli obiettivi generali dell’insegnamento in base alle previsioni, spesso sbagliate, dei percorsi di espansione futura della società: e praticamente comincia non solo in Italia, ma – come ci ricorda Klaus Offe – in tutta Europa un’era di fallimenti nella pianificazione della formazione.
C. – L’ultimo periodo è quello dell’odierna società terziarizzata e globalizzata, con un’immigrazione esterna che vede Reggio e la scuola reggiana in una situazione nucleare, e perciò vulnerabile perché i livelli d’immigrazione – al contrario di quanto avveniva all’inizio degli anni ’70 – qui da noi ora sono tra i più alti in Italia.
Vi è una forte espansione del terziario avanzato: i giovani autoctoni lavorano nel campo della finanza, della comunicazione, della pianificazione, della dislocazione e gestione delle risorse. Questo non cancella il settore secondario, ma determina una serie di emergenze nuove, e concorre a determinare un profilo caratteriale nuovo che Charmet ha descritto in modo molto acuto nei suoi libri e nel nostro primo incontro.
Dalla famiglia nucleare si passa alla famiglia prolungata: la “famiglia lunga”, come dicono quelli del gruppo milanese della Scabini che hanno studiato questo fenomeno. Una famiglia cioè in cui due generazioni adulte convivono: la generazione che declina che non si persuade a considerare i livelli di autonomia raggiunti dalla generazione che sta emergendo, e quella che emerge che è sostanzialmente autonoma da un punto di vista emozionale, ma che però non può letteralmente uscire di casa per via del precariato, che crea una situazione di confusività nel rapporto fra generazioni in cui non si capisce bene se un giovane è ancora in formazione o se è già entrato in produzione; se un giovane può considerarsi autonomo anche da un punto di vista finanziario o meno, se un giovane può pensare al proprio futuro o no[4] (Angelini, 2003).
Ci troviamo altresì, come aveva già intravisto Mitscherlich, di fronte una eclisse sempre più accentuata dell’autorità genitoriale legata ai nuovi mestieri, ed in particolare al fatto che, mentre nella vecchia società preindustriale il contadino, pur nel suo limitato universo, si muove con una sicurezza che lo rende autorevole agli occhi dei propri figli, il lavoratore all’interno dei nuovi mestieri appare invece fragile agli occhi dei figli poiché inserito in un apparato mastodontico che lo schiaccia (Marcuse). È per questo che i genitori d’oggi devono imparare a negoziare la propria autorità con i propri figli (Angelini, Bertani, 2003).
La crisi del welfare, infine, si riflette soprattutto sul mercato femminile con ricadute doppiamente negative per le donne, che sono colpite sia come lavoratrici, sia come fruitrici del welfare. Tutto ciò in una società estremamente dinamica in cui assistiamo ad un aumento delle difficoltà e dei problemi circa il futuro della scuola segnalati da Offe negli anni ’80.
La scuola quindi deve occuparsi dell’integrazione, del meticciamento, dell’autoctonizzazione dei giovani figli dei migranti: e in ultima istanza della programmazione di una scuola multietnica. Tutto ciò in una situazione in cui assistiamo ad una moltiplicazione dei percorsi formativi, ad una loro estrema flessibilità (non sempre giustificata dalla complessità della situazione sociale e lavorativa[5]), ad una licealizzazione dell’Università che innesca percorsi formativi post lauream che diventano realmente o illusoriamente selettivi e, in ogni caso, rendono la formazione infinita, nonché indeterminata nei suoi confini (Laffi).
Assistiamo infine ad una trasformazione dell’accesso al mercato del lavoro, all’irrompere cioè del precariato, e ad un ulteriore incremento della femminilizzazione della docenza. Ci sono dei dati di una commissione che ha fatto un’analisi di genere del corpo docente, e che ha posto in evidenza il grado di notevolissima estensione del fenomeno della femminilizzazione della docenza: ciò determina l’emergere di un profilo di carriera molto diverso rispetto a quello che fu tipico del docente maschio.
2) Dal rituale pedagogico all’isterizzazione della scena scolastica
Partiamo da un assunto della psicologia gruppale: in famiglia vige un clima basato sull’affettività ma questo non significa – dicono gli psicologi che studiano i gruppi – che nel gruppo affettivo per eccellenza non vi sia operatività: ma solo che in questo tipo di gruppo l’operatività rimane in sottofondo.
Al contrario i gruppi di lavoro, e fra questi il gruppo-classe, sono dei gruppi operativi, però – ribadiscono gli psicologi – questo non significa che a scuola o sul lavoro non vi sia spazio per affettività: anche in situazioni altamente incentrate sulla formalità, infatti, e cioè sia a scuola che sul lavoro in sottofondo persiste sempre un quid d’affettività, per quanto denegata essa sia.
Detto questo veniamo al tema dell’affettività a scuola: c’è un testo di Janine Filloux che affronta il tema della distribuzione dell’amore del docente all’interno della classe, fra i singoli discenti. L’affettività a scuola è presente – afferma la Filloux – ma non è mai equamente distribuita, così come è altrettanto poco equamente distribuita l’aggressività del docente nei confronti dei singoli discenti.
Veniamo ora più in particolare il rapporto fra vecchia e nuova scuola. La vecchia scuola era incentrata sul rituale pedagogico, la nuova sulla teatralizzazione della scena scolastica. E badate bene: sia quando parlo di rituale pedagogico, sia quando parlo di teatralizzazione (o isterizzazione) della scena scolastica non sto parlando degli stili personali secondo i quali ciascun docente si rivolgeva o si rivolge alla propria classe, ma sto parlando del clima che imperava ieri nella vecchia scuola e del clima imperante oggi nella nuova.
Per cui è chiaro, ad esempio, che un docente ossessivo, portato alla ritualizzazione, si sarebbe trovato meglio nella vecchia scuola, mentre oggi fa più fatica a relazionarsi con i propri discenti. Così come un docente con un carattere più “isterico”, portato all’effervescenza affettiva, oggi si trova più a suo agio nella nuova scuola, mentre nella vecchia scuola avrebbe dovuto frenare le proprie tendenze all’affettività, e nasconderle all’interno del rituale pedagogico.
Ma, detto questo, deve essere chiaro che quando parliamo del passaggio dal rituale pedagogico alla teatralizzazione della scena scolastica, non stiamo parlando di un’uniformità di comportamenti o – peggio – di caratteri individuali, ma del clima che impregnava e imperava nella vecchia scuola e di clima oggi vigente nella nuova scuola. Indipendentemente dalle soggettività dei docenti. Non dobbiamo confondere, cioè, i comportamenti e gli stili difensivi personali con il clima imperante nel sistema scolastico vecchio e in quello nuovo.
Ad esempio è chiaro che ciascun docente “gioca” con la propria propensione ad amare e ad odiare in maniera del tutto personale, ma una cosa è che questo gioco avvenga più occultamente in un clima centrato sul rituale pedagogico, un’altra se più apertamente sulla scena teatrale della nuova scuola.
Un altro dato che ci risulta utile se vogliamo capire cosa c’è sotto questo profondo cambiamento “climatico” che caratterizza la scuola d’oggi – o almeno quella italiana, e quella reggiana in particolare – è la conoscenza e soprattutto la coscienza, direi, del fatto che lo squilibrio di saperi e di poteri genera situazioni di forte tentazione per il docente (Fürstenau).
Mutatis mutandis, avviene a scuola ciò che avviene anche sulla scena della psicoterapia. Sul piano psicoterapeutico nel momento in cui il paziente mette in piedi un transfert mette in piedi una dipendenza, dalla quale deriva una situazione di squilibrio di potere che pone il terapeuta in una situazione di tentazione nei confronti del paziente. Lo stesso avviene nella scena scolastica, anche se non siamo portati a pensarlo perché con l’asimmetria scolastica abbiamo fatto i conti tutti (sulla nostra pelle, direi), e ci pare ovvio ch’essa ci sia.
È bene che siamo coscienti però che anche nella scena scolastica la tentazione del docente di approfittare della situazione di asimmetria c’è, anche se solitamente non è centrata su Eros ma sull’aggressività: soprattutto nei confronti di quell’altro da me, che è il bambino o ragazzo che dà fastidio o che in ogni caso non mi riconduce all’immagine di scolaro che io docente amo.
A questo punto si tratta di capire cosa succede e come è possibile che questi aspetti legati all’affettività e all’aggressività passino: a come passavano ieri e a come passano oggi.
La vecchia scuola era un luogo liminale. Ad esempio se provate a cercare in internet delle vecchie foto scolastiche al massimo trovate quelle delle classi in posa per la foto di fine anno. Invece – a proposito di isterizzazione della scena scolastica! – la nuova scuola è piena di foto: la nuova scuola, lungi dal disporsi come luogo nascosto e liminale, è un continuo teatro che viene esibito in ogni suo dettaglio, anche il più osceno e impresentabile.
Nella scuola del rituale pedagogico c’era una distanziazione tra docente e discente, che si giocava intorno a delle cerimonie: il voto, l’interrogazione.. e a tutta quella serie di cerimoniali che tenevano a freno l’affettività e l’aggressività, per cui nella vecchia scuola le stesse regole intorno alle quali s’incardinava la quotidianità scolastica erano dettate in base a questa esigenza di cerimonialità, che aveva alla spalle un preciso apparato “difensivo” incentrato, come ogni elemento ossessivo, sul dato dell’allontanamento e della negazione.
Fürstenau sosteneva nel ‘66\’67: nella vecchia scuola prevale un’atmosfera formale, il fine della formalità è quello di allontanare da sé il dato dell’informalità, cioè le emozioni; si mira ad una spersonalizzazione dei rapporti; c’è nella vecchia scuola un’aggressione contro la tendenza alla familiarità sia negli allievi che nel maestro; il maestro deve aderire ad un’idea molto cerimonializzata del docente; e anche i discenti devono tendere ad uniformarsi in tutti i modi (insomma è il trionfo del grembiule[6]!). Ciò implica una presa di distanza dai problemi inerenti la relazione e l’affetto, centrata su questa ossessivizzazione e cerimonializzazione della scena.
Fürstenau aggiunge che anche il burn out dei docenti di allora, cioè nella vecchia scuola, in fondo era legato al fallimento di queste difese. Ad esempio in questo clima i docenti più creativi si sentivano incapsulati in una camicia di Nesso che impediva loro di essere se stessi e quindi correvano il rischio di spegnersi a poco a poco nelle loro parti più propositive e creative.
A un certo punto, intorno al ’68, per le ragioni che abbiamo già visto nel paragrafo precedente, tutto ciò che era nascosto all’interno e, direi, sotto la coltre del rituale pedagogico emerge, e il clima nuovo che s’instaura è un clima basato sulla teatralità e sull’orizzontalità dei rapporti, per cui all’improvviso ci si vuole bene, quasi quasi ci si abbraccia[7].
Le cose da allora a scuola prendono ad esprimersi in modo teatrale: l’amore e l’odio si esprimono molto più apertamente; la situazione è molto più orizzontale, meno verticale, per cui ci sono anche dei rischi sul piano delle regole.
In questo nuovo clima la classe – che nel vecchio ordinamento era un luogo liminale e nascosto – si trasforma in un vero e proprio “scenario” teatrale, dove vengono esaltati i drammi legati ai problemi scolastici ed extrascolastici di ognuno. Per cui non solo la scuola non è più luogo liminale, ma risulta come invasa da una folla di istanze, fra i quali i giornali, i video, i vigili urbani, i tecnici dell’Ausl, le istanze proprie, quelle dei propri simili, di tutti gli altri, del mondo intero. In essa ovviamente vengono esaltati tutti i drammi originati nei docenti e nei discenti dalle problematiche relazionali legate alla crescita.
Ciò porta al rischio di un rovesciamento adialettico della precedente esclusiva concentrazione sul curricolo e sulle materie. Perché, se nella vecchia scuola l’importante era solo il rendimento, oggi, con l’approdo in essa di ogni contenuto, di ogni istanza, si rischia di perdere l’ordine del giorno rispetto al rendimento e al curricolo.
In questo clima infine assistiamo – a volte compiaciuti, più spesso angosciati – alla sottovalutazione della presenza della distanza generazionale fra docenti e discenti[8].
Sottovalutazione dello squilibrio dei poteri e dei saperi che accentua il dato della tentazione, sia rispetto a Eros che a Thanatos. Sottovalutazione che è ancora più evidente nel rapporto con le famiglie che pretendono d’imporre il proprio punto di vista senza alcuna deferenza nei confronti del docente che, in base a questo assunto di vicinanza, è come se almeno su questo piano abbia abdicato alla propria autorevolezza, ponendosi però in una situazione emozionalmente pericolosa, specie se i propri modelli di docenza – che come sappiamo in Italia provengono dalla propria passata esperienza personale – sono modelli forti e autorevoli.
Ostentazione di una vicinanza di interessi, di un iperdemocraticismo e di una idealizzazione della classe, particolarmente usuranti perché alla idealizzazione segue sempre una deidealizzazione tanto più forte quanto più alta era stata l’idealizzazione precedente, perché la vecchia classe è sempre migliore di quella attuale, per cui le cose vanno sempre peggio.
Vertecchi afferma che l’elemento nucleare del rapporto docente – discente non è solo la lezione ma che, a fianco alla lezione, e spesso ad essa intrecciati, ci sono anche l’esempio ed il precettorato. Dove, per esempio, s’intende quel processo di rallentamento e di “banalizzazione” dei contenuti e soprattutto dei metodi in base alla quale “ti faccio vedere come si fa”. Mentre il “precettorato” è quel processo in base al quale io, docente, che ne so più di te, discente, ti spiego quali sono i nodi del problema, i trucchi per risolverlo, le scorciatoie per venirne a capo.
Ora basta considerare quelle “nuove” situazioni formative in cui non c’è lezione, come avviene ad esempio avviene negli stage e nei tirocini, per capire l’importanza crescente che questi due elementi assumono nel nuovo contesto.
Nella vecchia scuola si tendeva a mettere tra parentesi questi due elementi – che pure erano presenti e attivi anche allora sul piano didattico – anche se mai esplicitamente citati. La nuova scuola invece pone più in primo piano esempio e precettorato: molti docenti sono autocoscienti della loro importanza; essi sono sempre compresi all’interno del piano didattico. Spesso però non facciamo caso all’importanza crescente che essi assumono nel rendere ancora più ravvicinato il rapporto docente – discente: si pensi al fatto che i tutor di stage e di tirocinio spesso si trovano in un rapporto uno ad uno con il discente che è stato loro affidato.
In conclusione su questo secondo punto va detto che, da una parte, ieri nella vecchia scuola l’apparato difensivo di tipo ossessivo su cui era costruito il rituale pedagogico tendeva ad allontanare da sé eros e aggressività e a pietrificarli nell’onnipresente cerimoniale: e ciò di fronte al fallimento delle difese portava il docente a convivere molto pericolosamente con un’eruzione delle emozioni e dei sentimenti alla quale non era assolutamente preparato.
Dall’altra oggi nella nuova scuola il fallimento delle difese incentrate sulla teatralità e sull’isterizzazione del rapporto docente – discente conduce, altrettanto pericolosamente, ad un più o meno improvviso calo della spinta idealizzante, che normalmente alimenta la spinta alla teatralità. Calo che a sua volta conduce alla depressione.
3) Le funzioni – cornice ieri ed oggi
Le funzioni – cornice (Käes) sono quelle istanze che stanno a monte e a valle della lezione. Sono quelle precondizioni che mettono la lezione con i piedi per terra. Precondizioni, però, alle quali solitamente, finché le cose in classe vanno sufficientemente bene, i docenti e i didatti non danno soverchia importanza.
Sostiene Käes che la lezione sta nel mezzo: preceduta da manovre istituenti e in\ludenti, e seguita da gesti ed atti individualizzanti e da cerimonie di separazione. Queste quattro funzioni – cornice, che fra un po’ vedremo nel dettaglio, sempre secondo Käes possono essere paragonate a quattro funzioni genitoriali. Anzi secondo Käes la prima e l’ultima funzione (quella istituente e quella di separazione) sono apparentabili a funzioni più tipicamente paterne, mentre le due intermedie (la funzione illudente e quella individualizzante) a funzioni materne. Vediamole adesso una per volta.
Lo faremo nella convinzione che, in un momento di profonda trasformazione della scuola, la mancata attenzione a ciascuna di esse possa essere all’origine di disagio in classe e in istituto, e prestare il fianco a vari problemi sul piano delle regole.
-La funzione istituente è quella più banale, ma proprio per questo meno attentamente studiata: c’è qualcosa che istituisce questo posto, quest’aula, questo edificio come una scuola. A prima vista sembra che ciò sia condiviso da tutti e non problematico per alcuno.
Le cose appaiono più chiare se guardiamo a luoghi che sono “scuola” anche se non tutti condividono questa loro natura. Ad esempio storicamente in Italia un luogo che non era istituzionalmente previsto come scuola era la Scuola di Barbiana. Ricordiamo tutti i problemi che ha avuto Don Milani a far riconoscere quella che per lui era una scuola come una istituzione scolastica, come tale riconosciuta[9].
Tornando a noi, lo solitamente Stato, il preside, i professori, le famiglie, nel momento in cui riconoscono implicitamente “quel luogo” e “quel tempo” come scuola (pubblica), compiono senza avvedersene una funzione istituente, importantissima sul piano del riconoscimento dell’importanza di quel luogo e di quel tempo in base a ciò che in esso si fa. Ma questo oggi è uno di quegli elementi che dai genitori, dagli studenti – ed anche in certo senso dallo stesso stato – viene messo in discussione, a volte implicitamente, a volte in maniera esplicita.
Gli studenti lo fanno attraverso molte azioni che sono alla base della loro indisciplina, i genitori ponendo spesso in crisi la sacralità della scuola (per riprendere la relazione di Deliana Bertani); lo stato nel momento in cui attribuisce indiscriminatamente ai docenti la patente di fannulloni, eccetera. Tutti questi elementi minano la connotazione di questo luogo come luogo che è scuola e che funziona come scuola.
-La funzione in\ludente consiste in sostanza nel momento immediatamente successivo a quello istituente: non basta infatti che tutti siano lì per quel determinato tempo per far si che lì ci sia una lezione! Ci deve essere anche una complanarità fra docenti e i discenti, che può essere innescata solo se il docente è in grado di in\ludere, di sé\durre la propria classe in un ludus, cioè in un gioco che chiama “lezione”. Immaginate ad esempio cos’accadrebbe se qui arrivasse ora uno che dicesse «Ma cosa state facendo qui? Fuori c’è un bel sole! Su, basta ascoltare queste fesserie! Venite fuori con me a non far nulla». Si romperebbe quell’aura che ci permette di essere insieme in una situazione apprendimento.
E immaginate ora se qui ci fossero dei soggetti in età evolutiva meno propensi di voi[10] ad ascoltare spontaneamente una lezione: se io sono un bambino di sei anni mi dispongo facilmente ad ascoltare una fiaba, ma se devo in\ludermi per entrare in un’atmosfera operativa – che fra l’altro prevede la selezione, il voto, il rischio dell’insuccesso e, a seguire, tutta una serie di grane – altrettanto facilmente la disposizione all’ascolto fa a farsi friggere.
Per cui perché sia in certo qual modo garantita questa complanarità, perché docente e discenti si dispongano sullo stesso piano è l’adulto che deve mettere in piedi dei processi che siano in grado di catturare l’attenzione della classe, o almeno di una parte consistente di essa (così come è il buon conferenziere che per illudere la propria udienza e mettersi su un piano di complementarietà con essa di solito compie un piccolo gesto seduttivo, facendo una battuta iniziale o raccontando una storia etc., facendo cioè ciò che i latini chiamavano captatio benevolentiae).
Ed anche in classe normalmente bastano dei piccoli gesti da parte del docente, ad esempio l’apertura del registro come segnale che è finito il tempo dell’attesa, per far scattare la funzione istituente; o il cambiamento del tono di voce per far comprendere che sta per cominciare una lezione.
Ma di fronte ad una classe irrequieta tutto diventa più difficile ed il passaggio dal rituale pedagogico alla teatralizzazione della scena scolastica certamente non aiuta. O forse richiede operazioni più chiare ed ostentate.
-Nel mezzo c’è la lezione. E quando la lezione è finita seguono dapprima la valutazione e l’autovalutazione, che Käes definisce come funzioni individualizzanti perché contribuiscono a definire il profilo dei discenti, che mano a mano che sono valutati devono rinunciare alle loro parti onnipotenti ed accettare quelli che sono dinamicamente i loro pregi e i loro limiti attuali. Anche tale funzione – afferma Käes – è equiparabile ad una funzione genitoriale. Infatti all’occhio del genitore non tutti i figli sono uguali, ed attraverso lo sguardo individualizzante del genitore ciascun figlio si abitua ad essere se stesso, a non essere totalmente sovrapponibile ai propri fratelli, ad accettare la singolarità e la limitatezza del proprio profilo.
Allo stesso modo nella scuola la valutazione è una funzione volta a favorire l’orientamento. E tanto più ampio è il grado di libertà che il discente e i genitori hanno rispetto all’immagine che la comunità dei docenti ha restituito alla famiglia, tanto più il discente e la famiglia poi saranno liberi di interpretare e cambiare le indicazioni che provengono dalla scuola.
In questo percorso è importante l’opera di peeling quotidiano che la scuola quotidianamente fa attraverso i voti, la valutazione. Peeling quotidiano che – come avrete compreso – per Käes non è solo connesso al rendimento sulle materie, ma è qualcosa che ha a che fare con una funzione simil-genitoriale di tipo individualizzante.
-Infine, a chiudere sempre l’ora, la giornata, il trimestre, l’anno, il ciclo, vi è ciò che Käes chiama funzione di separazione, che penso sia la più semplice da capire poiché viene iterata ad libitum, con maggiore o minore tasso di cerimonialità.
Nella vecchia scuola la separazione era meno dolorosa perché incardinata, come si conveniva, a precisi cerimoniali. Nella nuova scuola, proprio perché sono state messe apertamente in campo l’affettività e l’aggressività – ovvero i due grandi fuochi della vita – proprio perché spesso ci troviamo di fronte, non a cerimoniali in se stessi conchiusi, ma a quell’eccesso di idealizzazione e di vicinanza di cui abbiamo parlato prima, è possibile che nel momento della separazione emergano più facilmente il burn out, la rabbia, tutta una serie di elementi che sono legati alla delusione, il lutto ecc. ecc. –
Due note finali:
1. Oggi, nella famiglia di Narciso – per dirla con Pietropolli Charmet – l’autorità genitoriale è meno forte, e quindi solitamente si negozia fra genitori e figli; negoziare significa letteralmente “non rimanere in ozio”: quindi il genitore di oggi se vuole giocare la propria autorità deve saperla e sapersi giocare sul piano della negoziazione. Si tratta di un mestiere nuovo, legato all’eclissi dell’autorità genitoriale; un mestiere che richiede competenze nuove da parte dei genitori.
Bisognerebbe fare dei corsi di aggiornamento per genitori su come imparare a negoziare. Insomma nella famiglia affettiva la minore autorità dei genitori implica l’esigenza di negoziare.
Ma anche a scuola avviene la stessa cosa: nella vecchia scuola tutto era incapsulato nel rituale pedagogico: vedi ad esempio le giustificazioni. Non si negoziava niente, la negoziazione stessa – quando c’era – era incapsulata all’interno di un rituale.
Nella nuova scuola invece da una parte rimangono i simulacri di questi rituali (più che i rituali stessi); dall’altra c’è la sensazione che in ogni ora viga una legge diversa. Il ripristino di regole più condivise potrebbe aiutare (ad es. le interrogazioni programmate alle superiori). Ed aiutare anche per la preparazione all’Università, dove spesso l’assenza totale sul piano della docenza di interlocutori interessati alla negoziazione può ingenerare tutta una serie di equivoci e fallimenti.
2. Infine la femminilizzazione della docenza. Accennavamo prima al fatto che il Dott. Rondanini ha guidato un gruppo regionale su uno studio sui neoassunti, da cui emerge che l’ 86 % delle new entry nella scuola dell’obbligo è composta da donne. Percentuale che sale al 96,6 % negli asili nido e nelle scuole per l’infanzia e “cala” al 66 % nelle scuole superiori.
Ho trovato in internet una serie di lavori, prevalentemente dei sindacati, che legano questo discorso ai profili di carriera: bisogna studiare un profilo di carriera dei docenti differente rispetto a quello vecchio – dicono i sindacati – perché si tratta di donne, che possono fare figli, che hanno una serie di esigenze specifiche nel loro ciclo di vita.
Ho trovato anche un documento di una scuola media inferiore di Napoli dove, in modo molto azzardato, si dice che il problema del bullismo diventa di difficile controllo, perché la maggior parte delle docenti nella scuola in questione erano donne e i bulli del quartiere di fronte a delle donne “non portano rispetto”.
Sostanzialmente ciò che ci comunica questo documento – al di là del dato antifemminile che è senz’altro tipico dei bulli – è lo sforzo che tutti noi dobbiamo fare per fornire alle ragazze, ai ragazzi e alle famiglie un’immagine di “autorevolezza al femminile” che oggi viene negata dagli stereotipi che provengono dai media, e per armarci contro questi stereotipi.
I docenti napoletani però non si rendono conto che, nel momento in cui affermano “qui ci vorrebbero più uomini”, implicitamente danno per acquisito un fatto che invece è uno stereotipo antifemminile. Come se la donna non fosse capace di esprimersi sul piano dell’autorevolezza.
Ciò a mio avviso ci dovrebbe spronare sul piano della prevenzione, che va iniziata molto precocemente in modo tale che nell’imago di femminilità che inizia ad essere introiettata dai bambini e dalle bambine emerga un profilo, una rappresentazione sociale della femminilità, che non cada nello stereotipo e che aiuti a comprendere come l’autorevolezza possa essere giocata dagli uomini e dalle donne, magari con stili differenti.
E in ogni caso la docenza al femminile è diventato un fenomeno di così vasta portata che una sua analisi sistematica mi pare importante ed urgente.
Bibliografia
- Angelini L., Precariato e adolescenza: i Peter Pan della globalizzazione, in: La rivista del Manifesto, Ottobre 2003 – n. 43, pp.54\59
- Angelini L, Bertani D., Essere genitore oggi: un mestiere che sin dai primi mesi si coniuga con altre istanze di tipo educativo, in: Angelini L. e Bertani D.: , 2001, “Gioco, scambio e alterità”, Provincia di Reggio Emilia, pp.137\162
- Basini G. L., Lugli G., L’affermazione dell’industria: Reggio Emilia 1940-1973, Roma – Bari, Laterza, 1999
- Käes R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
- Filloux J., Le posizioni dell’insegnante e dell’adulto nel campo della pedagogia, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
- Fürstenau P., Contributo alla psicoanalisi della scuola in quanto istituzione, in: AA.VV., Educazione o condizionamento? Savelli, Roma 1975
- Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del mediterraneo Ed., Napoli, 1999
- Marcuse H., L’autorità e la famiglia, Einaudi, Torino 1970
- Mitscherlich A., Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano, 1970
- Offe C., Lo stato del capitalismo maturo (in particolare: “Sistema educativo, sistema occupazionale e politica dell’educazione. Per una definizione della funzione sociale complessiva del sistema educativo”), Etas Libri, Milano, 1977
- Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, R. Cortina, Milano, 2000
- Scabini E., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e Pensiero, Milano, 1997
0 commenti