Innanzitutto, dott. Guidi, che differenza c’è tra comicità e umorismo?
Se prendiamo il comico inteso come il personaggio che su un palcoscenico fa ridere, il professionista della risata, che cosa osserviamo? Osserviamo che la comicità necessita di un mittente che intenzionalmente vuole estrarre il riso dal corpo dell’ascoltatore ovvero dal destinatario cui è indirizzato il materiale costruito per estrarre la sostanza esplosiva del riso. Perché si manifesti nel destinatario l’impulso a ridere, è necessario che il testo comico sia costruito in anticipo rispetto all’interpretazione da parte del comico e soprattutto che questo testo sia costruito su un senso paradossale o insensato, che venga riconosciuto come tale da chi lo ascolta. Lo spettatore partecipa all’evento comico nella posizione dell’Altro che decifra e riconosce e dunque dà senso alla costruzione tecnica del testo, tecnica che include nella costruzione già questo Altro (contesto) che ha le caratteristiche necessarie per far ridere: la risata comica nasce dal contrasto esplosivo di due elementi contrari all’interno di uno stesso materiale che cerca di contenerli entrambi. Senza questo Altro che riconosce il senso del testo, non ci sarebbe comicità perché il testo si ridurrebbe a una sequenza di parole vuote senza alcun senso comico pur avendo comunque un senso. Il non senso che ha un senso comico per l’Altro, va distinto dal non senso comico che non ha alcun senso per l’Altro perché non lo riconosce come indirizzato al contesto che rappresenta. Dunque l’Altro è il luogo della catena significante da cui il soggetto stesso costruisce la sua comicità per essere riconosciuta, prima di incarnarsi nel destinatario cui, nella dialettica tra il comico e lo spettatore, è indirizzato il senso comico. Da tutta questa dialettica si può capire come la comicità sia costruita con una tecnica fondata sulla struttura del significante che ci fa spostare dal metalinguaggio all’inconscio che è strutturato come un linguaggio, ma che in esso cade anche ciò che non è linguaggio ma che ha che fare con le fonti del piacere che provocano il riso.
Queste fonti ci permettono di ricondurre ciò che fa ridere a ciò che non è significante ma che quest’ultimo come rappresentante dell’inconscio, cioè dell’Altro, permette a ciò che fa ridere, la fonte del piacere, di essere inclusa nel meccanismo prendendo così il suo senso. E a partire da ciò si dipana la differenza tra l’umorismo e la comicità. Infatti la comicità passa dall’Altro del soggetto, su cui l’atto comico è costruito, all’Altro sociale (al pubblico, e in generale al destinatario cui il messaggio è indirizzato per suscitare il riso, per essere riconosciuto, cioè, come soggetto-autore del comico) mentre l’umorismo corrisponde all’exploit, all’irruzione pulsionale non intenzionale di una frase o di una parola che all’interno del contesto, dove si manifesta, non ha alcun senso, ma proprio per questo l’altro che ascolta ride perché riconosce in questo non-senso una sorta di umorismo che svela, qualcosa d’indeterminato in colui che pronuncia la battuta, un’intenzionalità inconscia, cioè pulsionale, che fa emergere quello che di materno (indeterminato) ancora permane nel soggetto stesso. In una battuta umoristica il rimosso fa fatica a nascondersi e quando capita l’occasione nell’Altro del linguaggio, si fa largo nel contesto della vita quotidiana, mostrandosi, per esempio, attraverso formazioni dell’inconscio, come il lapsus, o il motto di spirito che non sono indirizzate all’altro, testimone involontario del fenomeno umoristico. Nell’umorismo non c’è una costruzione intenzionale preventiva da parte del soggetto dell’enunciato, c’è invece la combinazione di una sorpresa al livello del soggetto dell’enunciazione che testimonia il suo desiderio di dire una verità nascosta e la battuta umoristica è l’occasione di mostrarla in altro modo. Quindi l’umorismo è composto di due interlocutori: l’uno, il soggetto dell’enunciato o significato della frase detta, e l’Altro che contiene il soggetto dell’enunciazione o dei significanti che lo rappresentano presso l’Altro cui il messaggio della battuta viene indirizzato. L’effetto umoristico presso un terzo presente (spettatore interlocutore nel comico) è secondario rispetto all’Altro dell’inconscio, che coincide con il messaggio indirizzato al soggetto dell’enunciazione e al suo desiderio di riconoscimento della verità profonda contenente la battuta umoristica.
Il percorso di psicoanalisi mi ha permesso di affinare e comprendere meglio il mio pensiero narrativo e l’immaginario comico della parola. Che senso ha oggi, e con quali difficoltà, si può proporre un percorso psicoanalitico?
Distinguerei tra il tuo percorso di psicoanalisi, che ti ha portato a prendere consapevolezza della passione per il comico, passione già inscritta nella tua storia, e il tuo ruolo di operatore a orientamento psicoanalitico che ti porta a proporre il percorso psicoanalitico con la speranza magari di ottenere lo stesso tuo risultato. La psicoanalisi non si può consigliare perché quello che succede durante il tempo dell’analisi sta dalla parte dell’umorismo piuttosto che del comico, perché la sorpresa che emerge nella storia del paziente senza preavviso rimanda a elementi rimossi dimenticati cui il soggetto non ha dato valore per motivi anch’essi da decifrare; pertanto anche l’incontro con l’analista risponde a una sorta di sorpresa non programmata in anticipo: quello che un soggetto può programmare è solo l’appuntamento con un analista ma non il suo incontro. Quindi considerando che siamo in una società altamente tecnologica, che ha come modello epistemologico il computer, costruito sul modello cognitivo, tutto ciò che sorprende non è controllato preventivamente dal soggetto, viene scartato e diffidato, pertanto anche la psicoanalisi, sia sul piano della cura che del sapere, viene generalmente scartata, rispetto, per esempio, a ciò che accadeva nella seconda metà del XX secolo. In sostanza, soltanto chi ancora crede all’esistenza dell’inconscio si inscrive nel campo analitico per averlo incontrato casualmente senza averlo programmato. E questo incontro casuale si è imposto da sé, rivelando al soggetto, in seguito, un desiderio inconscio per il sapere che si snoda lungo un’esperienza interiore che ha come punti di riferimento il tempo, l’amore, il gioco e il sapere (il Tempo dell’amore gioca con il sapere.)
Con il tempo ho compreso come il laboratorio non sia uno spazio-luogo fine a sé stesso e nemmeno una dimostrazione egocentrica della bravura dell’io-operatore, per quanto il mio ruolo di comico implichi una buona dose di narcisismo. Come ha funzionato, nel primo appuntamento, il laboratorio rispetto all’istanza narcisistica e a quella della condivisione?
Il laboratorio sulla comicità, così come la psicoanalisi lo pratica e lo costruisce, è innanzitutto un’esperienza che serve ai partecipanti a capire la differenza tra comicità e umorismo. La comicità è già data e codificata in materiali (pezzi di film comici, battute comiche, barzellette, ecc.) che hanno lo scopo di far ridere l’ascoltatore (i partecipanti al laboratorio) per dare così un senso comico a ciò che hanno ascoltato. Mentre l’umorismo, come sottolinea Freud, ha invece a che fare con l’umore che appartiene al “carattere” di ogni soggetto che partecipa all’attività del laboratorio, soggetto disponibile a ridere di qualcosa che si presenta come comico. Infatti, ogni partecipante ride secondo la sua capacità umoristica caratteriale e contingente emersa nel vedere e ascoltare il materiale presentato e nella successiva elaborazione della esperienza. La connessione con l’inconscio (con il proprio Altro) stabilisce la relazione tra il comico legato al materiale presentato e l’umorismo legato alla capacità di ridere di ciascuno soggetto cioè legato all’umore personale. L’umorismo, come Freud sottolinea, mette in evidenza il legame esistente tra la madre e le formazioni dell’inconscio di cui l’umorismo fa parte. L’estetica del comico, insieme al narcisismo, sono i contesti che fanno emergere nel fenomeno del riso la relazione tra la figura materna con la fase primaria della costruzione del soggetto personale. In questa fase (0-18 mesi) avviene l’incontro tra il bambino e il volto materno all’incrocio tra il terzo momento dello stadio dello specchio e la prima fase edipica. Ed è in questo punto che si forma il narcisismo primario fondato sul desiderio del bambino di essere riconosciuto dalla madre per come lui stesso si è riconosciuto con gioia allo specchio. Il buono o il cattivo umore che il soggetto avrà a disposizione dipende da quest’incontro che influenzerà la futura voglia del soggetto di ridere. Perché l’immagine che il soggetto ha di sé è il riflesso del volto della madre.
Per quanto riguarda il narcisismo insito nel comico-operatore, viene esaltato dalla centralità del proprio Io idealizzato ogni volta che mette i partecipanti nelle condizioni di ridere della sua comicità. Il laboratorio psicoanalitico, al contrario, taglia il narcisismo del comico conduttore attraverso la presenza dell’analista che svuota di senso la sua conduzione fondata sulla risata personalizzata, “sono Io che vi ho fatto ridere”: questa operazione è tesa a sottolineare come ogni azione comica compiuta nel laboratorio, sia il frutto di un meccanismo che parte dall’inconscio del comico legato alla sua parola creativa, liberata dalle frustrazioni d’amore, piuttosto che dal suo narcisismo legato all’immagine esaltata del proprio Io: “sono l’unico che vi può far ridere così.” Così come d’ogni partecipante al laboratorio, va messa in questione la natura della sua capacità di ridere che include la carica umoristica nata dalla funzione narcisistica primaria che può portare a quell’evoluzione patologica immaginaria dell’Io idealizzato. Significativo, a questo proposito, un verso di Heine che Freud riporta in Introduzione al narcisismo del 1914:
Fu malattia ciò che mi diè
L’ultimo impulso creativo
Creando vidi che guarivo
Crear fu guarir per me.
Durante il laboratorio sono state presentate alcune scene tratte da film comici, sitcom e spettacoli di cabaret: una selezione variegata condivisa per mostrare le differenze tecniche del comico cinematografico da quello televisivo e teatrale. In sostanza che rapporto c’è tra desiderio e risata? E perché alcuni soggetti non sanno, non riescono o non vogliono ridere?
La pulsione spinge all’esterno una quantità d’energia che fa abbassare l’entropia nel sistema psichico del soggetto e ha come conseguenza liberatoria la risata talvolta irriverente o incontenibile, sparata in faccia all’altro senza remore di sorta. L’economia pulsionale ne guadagna perché l’investimento è fruttifero in quanto produce un desiderio puro senza oggetto, produce un cambiamento di prospettiva dovuta alla disidentificazione del soggetto dal materiale in gioco. Certamente questo processo non è facile da raggiungere in pochi incontri laboratoriali ma si indica una direzione da prendere nella vita quotidiana attraverso gli strumenti della psicoanalisi. Infatti la funzione del ridere è quella di far prendere al soggetto le distanze dalla sua identificazione al luogo dell’Altro, cioè dal luogo familiare che gli impedisce di progredire verso la separazione e ridere poi dello stato forzato in cui ha perso tempo inutilmente giocando spesso eroicamente a fare il Sisifo.
Il materiale comico mostrato nel laboratorio ha preso questa direzione liberatoria in quanto è stata una dimostrazione ironica di ciò che accade al soggetto quando tutto il peso eroico del sacrificio alla fin fine produce solo una grande caduta pesante, uno spreco di energie senza guadagno, un’entropia gigantesca e dunque un disordine interno al soggetto perché la direzione da prendere per il soggetto dopo la rovinosa caduta sotto il peso della storia imposta dall’Altro non è stata per niente chiara rispetto a quella tenuta durante l’identificazione a Sisifo svelata alla fine del laboratorio: insomma il comico rivela la sua potenza rivoluzionaria nella caduta del sacrificio oppure quando smantella con una battuta tutta il marcio in Danimarca come accade in Amleto per esempio quando il principe dimostra tutta la sua umoralità grottesca nell’amore per Ofelia: “Qui c’è una potente calamita” dice Amleto, accucciandosi tra le gambe della sua ripudiata donna di fronte a sua madre. L’amore è un sentimento comico, ci dice Lacan, un sentimento comico svelato proprio dall’umorismo amaro di Amleto che indica la sua identificazione alla scena edipica familiare, scena del crimine e dei grandi affetti: “il riso comunica, si indirizza a colui che al di là della presenza significata è la molla e la risorsa del piacere. L’identificazione? È il contrario. Non si ride più. Si è seri come un papa o un papà. Si fa finta di niente perché colui che è lì fa una faccia tetra e scura. (Lacan Seminario V, Einaudi, Torino, 2004, pag. 342). Questa scena madre ci indica anche che il comico vissuto dallo spettatore come terzo del comico in una commedia, rivela l’umorismo del protagonista, Amleto, perché l’umorismo è costituito da due personaggi, cioè da colui che parla e dall’Altro cui si identifica o cui si rivolge senza terzi come invece accade nel comico. Questa differenza nel laboratorio viene sollecitata fino alla messa in gioco del desiderio dei partecipanti spinti dalla voglia di saperne di più su queste forme in cui si sentono implicati nella loro vita quotidiana familiare, senza però poterle distinguere con chiarezza. Curiosa la domanda di un partecipante al laboratorio che, dopo avermi raccontato un episodio accaduto in famiglia, mi ha chiesto: “Ma la mia risata è stata umoristica o comica?” E da questa domanda è partito un supplemento laboratoriale incentrato sulla differenza tra il comico, l’umorismo e il loro modo di ridere delle cose della vita.
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