GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Marzo III - Delitti e tradimenti, eredità, canzoni e lettere

Share this
22 marzo, 2014 - 08:19
di Luca Ribolini

MAMME MEDEA. L’AMORE DIVORANTE CHE SI TRASFORMA IN DESIDERIO DI MORTE

di Massimo Recalcati, la Repubblica, 14 marzo 2014

Potremmo definirlo “complesso di Medea” quello che porta le madri a uccidere i propri figli rovesciando d’un sol colpo la catena della generazione: ti ho dato la vita e ora ti do la morte. È a Corinto nel 431 A.C. che Euripide mette in scena la tragedia di Medea. In essa si narra la vicenda di una donna che non può sopportare il tradimento del suo uomo Giasone e che per vendetta uccide spietatamente i suoi figli. La spinta verso il figlicidio è provocata dalla ferita causata dal trauma dell’abbandono. Se di fronte all’amore che univa nell’idillio iniziale Medea a Giasone il coro poteva ricordarci che «è la più grande delle fortune quando una donna va d’accordo con il proprio uomo», Medea dopo il tradimento, subito come una ferita insanabile, ci mostra che «quando una donna si vede tradita nell’amore, la sua ferocia non conosce limiti».

Nel suo caso è la follia della gelosia a pervertire la funzione dell’accudimento e della protezione della vita che caratterizza la funzione materna. Ma quale verità profonda si annida nel gesto estremo di Medea? In esso dobbiamo vedere emergere tutta la differenza che separa l’essere donna dall’essere madre. Alla luce della psicoanalisi sappiamo quanto problematico sia per una donna diventare madre senza perdersi come donna. Un tempo era quasi la regola: divenire madre per una donna significava morire come donna, sacrificare tutta la propria femminilità all’accudimento della vita dei propri figli. Con la conseguenza che il legame materno coi figli diveniva a sua volta patologico, fagocitante, cannibalico. Se, infatti, una donna diventa tutta madre i suoi figli si troveranno inchiodati nella posizione insostenibile di chi deve consolare e colmare la vita che a loro si è dedicata. Il gesto di Medea mostra dunque quanto la non coincidenza tra donna e madre possa rivelarsi tragica. È perché si è sentita rifiutata come donna che si cancella come madre cancellando a sua volta anche la vita dei suoi figli.

Molti casi di cronaca rispondono al complesso di Medea. Una donna non si può accontentare di apparire agli occhi dell’uomo che ama solo come una madre. Esige, giustamente, di continuare a esistere e ad essere desiderata come donna. Sappiamo come la nascita di un figlio possa destabilizzare anche le coppie più solide. Un uomo può faticare a riconoscere la donna che amava e desiderava sessualmente in quella che è divenuta la madre dei suoi figli e una donna può non riconoscere più nel padre dei suoi figli l’uomo che l’ha fatta innamorare.

Ma esistono anche altre ragioni che possono animare il passaggio all’atto del figlicidio. Freud aveva messo in evidenza l’equivalenza del bambino col fallo. Questa equivalenza significava come attraverso la maternità una donna avesse la possibilità di superare l’invidia del pene colmando la propria mancanza con il potere di generare e accudire la vita. È il senso di pienezza e di gioia che accompagna ogni maternità sufficientemente buona. Ma questa rappresentazione del bambino fallo deve essere integrata con qualcosa di più inquietante che si annida in ogni esperienza di maternità sin dal momento del concepimento. Il pensiero inconscio (o conscio) di molte donne relativo al non essere in grado di generare. L’ombra della deformazione, della mostruosità, del figlio inadeguato o malato, cala così sul desiderio di maternità. Come se tra il bambino immaginato nelle sue vesti più ideali (falliche) e il bambino reale vi fosse un divario impossibile da colmare.

Questo divario è ciò che spiega l’angoscia, a volte spessa altre più sottile, che può accompagnare il periodo della gravidanza ma anche quello della “ricerca” di un figlio. Sarò davvero in grado di generare? Sarò davvero in grado di donare la vita? Dietro queste domande sorge prepotente la figura della madre primordiale e la necessità affinché si realizzi un accesso positivo alla maternità che il cordone ombelicale con questa madre sia stato reciso, ovvero che sia avvenuta una giusta trasmissione del desiderio tra madre e figlia. Per diventare davvero madre una donna non può continuare ad essere figlia. Il giudizio con il quale allora una madre può non tollerare l’imperfezione del figlio – la sua non coincidenza con il figlio immaginato, con quello che Silvia Vegetti Finzi* definisce il «figlio della notte» – sino al punto di sopprimerne la vita, riflette spesso il giudizio severo di cui è stata a sua volta vittima. La volontà narcisistica di avere un figlio ideale, perfetto, coincidente con il figlio immaginato, non può accettare il limite costituito dall’esistenza reale del figlio. L’amore materno che è sempre amore per il figlio nella sua particolarità anche più difettosa, lascia in questi casi il posto ad una sua trasfigurazione perversa: la gioia della maternità non è più quella di donare la vita ma solo quella di avere un figlio ideale. Se il figlio si discosta da questo ideale deve essere rifiutato. Molte depressioni post partum parlano di questo rifiuto che trova la sua manifestazione più crudele nel passaggio all’atto dell’infanticidio.

http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/14Mar2014/14Mar201463458697933d7c75da5b0beb04cb5c0f.pdfhttp://www.psychiatryonline.it/node/4882

*L'articolo di Silvia Vegetti Finzi è reperibile in questa rubrica, Marzo II - Perdono e paura; medicina ed economia; mito, filosofia, arte

PSICOLOGIA, GILGAMEŠ: IL PRIMO SAGGIO SULLA TEORIA SESSUALE

di Marcello Barison, ilfattoquotidiano.it, 15 marzo 2014

Si dice – perché lo si è sempre detto, scritto e insegnato – che gli antichi non conoscessero la psicologia. E in effetti il termine greco psyché, “anima-respiro” – il cui significato deriverebbe da psýcho (“soffiare”) – rimanda più che altro a un’entità in qualche modo “organica”: il soffio che anima i viventi. Per questo – avverte Omero – psyché può essere esalata e, una volta abbandonato il corpo, scompare sotto terra “come fumo” (Il., XXIII, 100). Nel suo monumentale Le origini del pensiero europeoOnians sintetizza così: “La psyché, d’altra parte, è nella persona, ma non si parla di essa come di qualcosa che si trovi nei polmoni o nel petto, né che pensi o senta finché la persona è viva. Sembra piuttosto un “principio vitale” o anima, non coinvolta allo stato di coscienza ordinaria, un’entità che persiste, ancora priva di siffatta coscienza, nella dimora di Ade, dove si identifica con l’eidolon, il sembiante visibile ma impalpabile del defunto”. Tutt’altra cosa, quindi, dalla psiche freudiana, vale a dire (benché in modo grossolano) il complesso delle funzioni mentali e dei processi ‒ consci o inconsci ‒ in cui si articola l’esperienza individuale.

Tutto chiaro, in apparenza. Eppure, rileggendo una pagina dell’epopea mesopotamica di Gilgameš, risalente ad almeno millecinquecento anni prima di Omero, queste assodate paratie storiografiche ‒ cioè la distinzione tra moderno ed antico, tra psiche e psyché ‒ sembrano per certi versi sgretolarsi. Ma andiamo direttamente alla scena in questione.

Enkidu, deuteragonista virile, viene generato da Aruru, dea della creazione, affinché Gilgameš abbia un suo pari. Egli è dunque figura del compagno primordiale ‒ l’”amico”, diremo noi. Il primo mito dell’uomo non riguarda l’amore di una donna o l’annientamento di un mostro, ma la condivisione, l’esigenza di un complemento solidale con cui dividere tribolazioni, imprese e desideri. “Ignaro dell’umanità”, Enkidu viene plasmato secondo un’immagine che ha la sostanza del firmamento. Il suo corpo è “aspro”, “ricoperto di pelo arruffato come quello di Sumuquan, dio del bestiame”. Si nutre d’erba e di radici, spartendo il suo giaciglio con le bestie. La sua esistenza, selvatica e randagia, ci riporta al paleolitico superiore, prima che l’uomo, fattosi stanziale, adotti l’agricoltura (il che, nell’area della Mezzaluna Fertile, accadde grossomodo intorno al X millennio a.C.). Ma ecco che un secondo personaggio, intento nella caccia, l’incontra, raggelando per lo spavento innanzi a quella brada creatura, ancora indomita nella sua bestialità. Così il cacciatore, atterrito, si rivolge a suo padre: “[...] C’è un uomo, da ogni altro dissimile, che è sceso dalle colline. Egli è il più forte del mondo, è come un immortale dal cielo [...] Ho paura e non oso avvicinarmi a lui [...] aiuta le bestie a fuggire e ora esse mi sfuggono fra le dita”: l’ordine civile, ormai pienamente costituito, percepisce l’animalità di Enkidu come un’atavica minaccia, intravvede nella sua ferocia la sopravvivenza di uno stadio pre-politico, precedente l’organizzarsi degli individui in società.

Il padre del cacciatore consiglia allora quest’ultimo sul da farsi. Per ammansire Enkidu, dunque per renderlo fatalmente innocuo, egli deve rivolgersi a Gilgameš, sovrano di Uruk, colui che “è forte come una stella del cielo”. “[...] Trova Gilgameš, esalta la forza di questo selvaggio. Chiedigli di darti una prostituta, una femmina lasciva del tempio dell’amore; assieme a lei fa ritorno e lascia che il suo potere di donna conquisti costui. La prossima volta che scenderà ai pozzi per bere la troverà lì, ignuda, e quando vedrà il suo cenno invitante si congiungerà con lei; allora le bestie selvatiche lo respingeranno”.

Mi pare un passaggio di grande suggestione oltreché d’una modernità sconcertante: Enkidu non viene addomesticato col ricorso alla forza o perché costretto ad un particolare disciplinamento: a sedarlo, assimilandolo così alla civiltà, è una specifica iniziazione sessuale. Una volta toccato dall’amore di una donna ‒ antivestale o prostituta sacra ‒ le bestie lo disconoscono: egli ha perduto la propria animalità e può così integrarsi nella società civile. Ma ciò significa che già nel primo poema epico di cui vi sia traccia (fatta forse eccezione per il frammento dell’Atramkhasis), la sessualità organizzata in base a precisi parametri sociali è già pensata come una forma di repressione fondamentale funzionale al costituirsi della civiltà. Aderendo ai costumi sessuali previsti dall’ordinamento sociale vigente, l’individuo rinuncia a un libero soddisfacimento delle proprie pulsioni istintuali ‒ ed è precisamente in questi termini che viene a compiersi il passaggio dall’”animalità” alla cultura, un vero e proprio mutamento di paradigma che risulta mediato da un asservimento repressivo dei propri impulsi sessuali.

Inutile dire che, se letto in questa chiave, il passo tratto da Gilgameš rassomiglia incredibilmente ‒ pur non essendovi sovrapponibile in toto ‒ alle tesi esposte da Freud ne Il disagio della civiltà: “[...] la parola “civiltà” (Kultur) designa la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l’umanità contro la natura e a regolare le relazioni degli uomini tra loro”. A un incondizionato soddisfacimento dei propri istinti, conforme al solo principio di piacere, deve cioè necessariamente subentrare la sottomissione al “più modesto” principio di realtà il quale, con lo scopo di evitare ogni destabilizzazione essenzialmente distruttiva ‒ e dunque esiziale per il mantenimento della coesione sociale ‒ “relega nello sfondo il compito di procurarsi il piacere”.

Ma il punto di maggior interesse ‒ che meriterebbe oggi adeguato approfondimento ‒ consiste forse nel fatto che la repressione non avviene attraverso una proibizione generalizzata nei confronti della sessualità, bensì tramite l’obbligo che vincola a comportamenti sessuali predefiniti e pertanto socialmente accettati. Esiste cioè, tanto in Gilgameš quanto in Freud, un aperto conflitto tra il sesso come libera espressione istintuale (almeno in termini potenziali) e il sesso come strumento di repressione sostanziale. Bisognerebbe allora chiedersi a quale di queste due polarità appartenga l’apparente disinibizione sessuale ovunque sbandierata dall’odierna società pornocratica: si tratta di liberazione o repressione?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/15/psicologia-gilgames-il-primo-saggio-sulla-teoria-sessuale/915007/

ANGELO VILLA, ‘PINK FREUD’. Le canzoni sono come tatuaggi, cantava Joni Mitchell in Blue. Un’eco di ninnananna. Un pulpito laico per mettere sulla scena le pulsioni di cui si soddisfa rimanendo, nel contempo, sempre insoddisfatta. Un libro affronta la canzone d’autore in una jam psicanalitica che spazia da Bob Dylan a Davide Van de Sfroos

di Michele Lauro, cultura.panorama.it, 16 marzo 2014

Il titolo è un colpo di genio, anche se la silhouette del severo Sigmund sullo sfondo di The Wall rende la copertina meno giocosa di quel che avrebbe potuto essere: Pink Freud. Un viaggio nella geografia affettiva della canzone d’autore occidentale che lo psicoanalista Angelo Villa affronta su un robusto impianto di matrice freudiana-lacaniana, lasciandosi trasportare però da un flusso asistematico di suggestioni e libere associazioni. Una struttura free jazz per parlare del rock in chiave psicanalitica.

Pink Freud o Punk Freud, citando un album della band polacca a cui si deve la paternità del calembour. Il paradosso del padre della psicanalisi, che amava l’arte ma si tappava le orecchie infastidito dal suono di un pianoforte, fa da antipasto alla carrellata di icone mondiali stese sul suo lettino. Le storie e le canzoni di Bob Dylan e Leonard Cohen sono i modelli per indagare la morte del padre e la via per diventare uomo. John Lennon e Fabrizio de André offrono meravigliose letture complementari della questione materna e della metafora dell’amore. Janis JoplinPatti Smith e Joni Mitchell furono le prime interpreti di una colonna sonora del desiderio che attraverso il rock fornì una soluzione alternativa al dilemma di essere donna. Temi classici del rock e del processo di crescita individuale, la fuga e la trasgressione, hanno come numi tutelari Bruce Springsteen e Neil Young.

Le melodie delle mie canzoni, ha raccontato Dylan, “sono quelle che ho ascoltato nell’infanzia”. La matrice inconscia dei suoni, spiega Villa, risale alla funzione materna di contenimento del neonato, studiata dai discepoli di Freud che retrodatarono la pre-conoscenza del mondo addirittura alla fase intrauterina, esperita attraverso il suono. Per tranquillizzare il bambino la madre lo culla ritmicamente cantandogli la ninna nanna, permettendogli di ristabilire il contatto con l’oggetto d’amore percepito come fonte di benessere. I suoni sono cioè la prima esperienza di relazione narcisistica, condizionata dalla presenza e dall’investimento materno, ma continueranno per sempre a rimanere un’entità magica, salvifica, rituale, capace di riattivare fenomeni transizionali: quell’area intermedia del Sé dove soggetto e oggetto rimangono indistinti.

La voce, le parole e il ritmo, gli elementi costitutivi della canzone trobadorica da cui ha tratto i suoi stilemi la canzone d’autore, sono il medesimo architrave su cui poggiano i processi di simbolizzazione. A chi, di chi e che cosa si canta quando si canta? Il passaggio di testimone dal romanzo alla canzone d’autore segnò negli anni Sessanta la fine della modernità e l’ingresso nell’era contemporanea. I nuovi battistrada dell’emancipazione del soggetto diventarono i menestrelli con la chitarra: nella canzone, come ha scritto Manlio Sgalambro, “si è concentrata tutta la poesia possibile del nostro tempo”.

Vero, falso, provocatorio. Poco importa. Mentre psicanalisi, letteratura e filosofia stringono il pop nel loro abbraccio fatalePink Freud affronta questioni serissime con la lingua dei sogni.Imagine: Fabrizio de André al pub con Samuel Beckett, Theodor Adorno a un concerto di Lou Reed, Janis Joplin nell’alcova di Colette, Jim Morrison sul palco con Sofocle, Nick Drake a scuola di onomatopea da James Joyce, Neil Young in cantina con Dostoevskij e i Crazy Horse, Patti Smith sul rogo di Giovanna d’Arco, Roger Waters negli incubi di Lacan, Bob Dylan e Socrate a passeggio nel Peripatos, Leonard Cohen e Albert Camus coautori dello Straniero.

Dopo una seduta impegnativa con i mostri sacri della canzone d’autore, l’analisi di Villa termina sulle rive del Lario dove Davide Van de Sfroos ambientò Akuaduulza (Acqua dolce), title track dell’omonimo album del 2005. Una ballata in cui la potenzialità espressiva del connubio parole-musica è esaltata dal dialetto: la lingua-melodia che, come sosteneva Andrea Zanzotto, “non ha grammatiche”. Nostalgie intrauterine e storie di fuga e confine si rincorrono fra lo spirar dei venti sulle note delicate del trovatore delle valli, outsider della musica italiana. L’ambiguo sciabordio dell’inconscio fa capolino dai versi, mentre il dolce naufragar nell’acqua dolce lascia la bocca amara.

Perché, si chiedeva Ludwig Wittgenstein nei Quaderni 1914-1916, non ci dev’essere un modo di espressione con il quale io posso parlare “sopra” il linguaggio? Suppongo, concludeva, che la musica sia quel modo di espressione. Pink Freud è la musica che gira intorno a questa ineffabile suggestione. Il linguaggio della canzone – simile al sogno, alla poesia, alle parole degli innamorati – permette di riaccendere fugacemente quell’”altro da sé” che appartiene al regno degli affetti. Una magia che si compie nella dialettica fra pulsione, riconoscimento e incompletezza. Provate ad ascoltare Neil Young quando canta la sua Borrowed Tune, melodia presa a prestito. L’infanzia gli è stata strappata dalle mani, ma lui “vi è rimasto aggrappato, con tutto quel che ne consegue”.

Angelo Villa, Pink Freud, Mimesis, 286 pp., 20 euro

http://cultura.panorama.it/libri/angelo-villa-pink-freud-psicoanalisi-canzone-d-autore

L’AMORE AI TEMPI DEL DOPO LACAN

di Redazione, Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2014*

Non è più come prima. Proprio così. Prima era Lacan, la rivoluzione dell’incomprensibile. Ma, adesso che l’obiettivo sono le vendite, meglio farsi capire. Soprattutto da chi ama la posta del cuore. Da chi si emoziona per il libro di Massimo Recalcati (Cortina editore) con la rosa secca in copertina**. Il libro del guru rigorosamente in nero, stile fonzie-esistenzialista, racconta la forza dell’amore ai tempi del consumismo. Quando sentite uno psicoanalista che rispolvera l’evergreen o tempora, o mores!, che generalizza sui modi di amare – gli uomini così e le donne cosà, oppure: è meglio una lunga storia d’amore piuttosto che amori veloci ed egoisti, e che insomma l’amore, perdono incluso, è la forza più grande del mondo – quando insomma vedete che la banalità ha fatto scuola anche nella cura della psiche, iniziate a farvi qualche domanda. Per esempio se l’epoca del consumo e del narcisismo, oltre che vituperabile non sia anche contagiosa. L’amore è sempre un business, che talvolta spinge a riscrivere lo stesso libro.

* L’articolo è apparso senza nome nella rubrica Il graffio

** Il libro è Non è più come prima. Elogio del perdono

http://www.banchedati.ilsole24ore.com/doc.get?uid=domenica-DO20140316027FAA

MARIO LAVAGETTO. RICORDI, LIBRI, PASSIONI. Il critico si racconta. Il vecchio romanzo si chiude con Tolstoj. Poi arriva Proust.“ Ho inseguito i fantasmi dei grandi scrittori ma la letteratura non ti salva se la vita va in pezzi”

di Antonio Gnoli, repubblica.it, 16 marzo 2014

Che cos’è un uomo che vive in mezzo ai libri? Non più di due ore prima dell’incontro con Mario Lavagetto — un critico tra i più straordinari e solitari del nostro mondo letterario — pensavo che un paesaggio di pile e di scaffali con i volumi allineati fosse quanto di più ovvio si possa immaginare nella casa di uno scrittore o di un critico. Ne rivelasse i gusti, la storia, il mondo. Ma poi, trascorso il tempo della conversazione, non ero più così certo. E vedevo, quella stessa scena, fatta di tranquille abitudini e di piccole certezze, trasformarsi in qualcos’altro. In cosa? ho pensato quando il suo cellulare ha preso a suonare e lui l’ha spento, estraendo dal taschino una scatolina: «Quel suono mi ricorda che è l’ora della mia medicina più importante. Dovessi dimenticare di assumerla, sarebbe grave», dice. E con un gesto rapido ha ingoiato la pillola. «È stato un anno duro e pieno di guai. Ho guardato ai miei libri come a un territorio ostile, che non riconoscevo più, che stancava e impauriva. Volevo attraversarlo, ma non ce la facevo. Volevo ingraziarmelo ma era gelido e inospitale come una tundra d’inverno», aggiunge.

Nell’ambiente ovattato, di un appartamento di Parma, la voce mi arriva monotona e un po’ irreale. È degno di nota che Lavagetto parli di sé con lo stessa indifferenza con cui descrive le sue strepitose avventure letterarie. L’azione letteraria del dolore non è poi, sospetto, tanto diversa da quella che la vita ci riserva.
C’è un rapporto tra letteratura e vita?
«C’è, ma è meglio non codificarlo».
Uno strumento per provarci è la psicoanalisi.
«Me ne sono servito, ma con cautela. Non aiuta a fare diagnosi complete sugli scrittori. Non funziona con tutti».

Quindi non è un metodo.
«Non lo è».
E su chi ha funzionato?
«Su Umberto Saba perfettamente. Per leggere il Canzoniere la psicoanalisi è utile. Alla fine degli anni Venti, a Trieste, va in analisi da Edoardo Weiss».
Ci va perché?
«L’analisi gli consente di capire e di riuscire a convivere con la sua omosessualità».
Farà poi una specie di coming out con il romanzo incompiuto Ernesto.
«È vero ma uscì solo postumo».
L’inconscio è fondamentale nella scrittura?
«Ne sono convinto».
È una relazione rischiosa?
«Scrivere è anche nascondersi. Julien Gracq ha detto che dentro a un libro che leggiamo ci sono le tracce di più testi fantasmi che sono stati rifiutati o scartati. Un buon critico si mette alla ricerca di quei fantasmi».
Viene in mente Flaubert.
«È un punto di svolta interessante per il nostro discorso. Penso allo straordinario controcanto alla sua opera che è l’Epistolario, in cui butta fuori tutto quello che viceversa nei romanzi trattiene. Lui paga qualsiasi parola scriva».
Nel senso?
«Deve costruire virgola per virgola il suo edificio letterario. Una fatica e una sofferenza terribile. È una figura cruciale della modernità. Un altro autore dell’800 che amo moltissimo è Balzac. Ma è uno scrittore diverso, meno problematico».
Più di superficie?
«Non proprio. C’è tutta una zona oscura che lievita nei suoi romanzi. Fa da sottofondo».
Cosa l’affascina del sottofondo?
«L’oscurità può diventare una risorsa narrativa. Non è un caso che mi sia laureato su Dino Campana. La sua follia mi incuriosiva. Impiegai alcuni strumenti analitici derivati, però, più da Jung che da Freud».
Una preferenza che giustificherebbe come?
«La psicoanalisi di Freud applicata alla letteratura mi risulta meccanica e prevedibile. Jung opera una discesa agli inferi. Provò a spiegare anche Joyce, che pure non amava la psicoanalisi».
Lei con chi si è laureato?
«Con Giacomo Debenedetti».
Si dice che le sue lezioni fossero straordinarie.
«Lo erano. Un meccanismo perfetto. Una costruzione trasparente, senza pecche. Ascoltavi con la sensazione che tutto fosse chiaro».
Non lasciava spazio ai dubbi?
«Totalmente persuasive. Noi ragazzi vivevamo quelle lezioni con un fascino particolare. Qualcosa del genere mi accadde anche con Federico Chabod».
Chi erano i suoi amici all’università?
«Sono sempre stato un solitario, allora come in seguito. Un’amicizia che mi portavo dietro dagli anni dell’adolescenza è stata quella con Bernardo Bertolucci. Venivamo entrambi da Parma e i nostri genitori si conoscevano bene».
Suo padre cosa faceva?
«Cominciò come giornalista. Ma fu licenziato per le sue idee contrarie al fascismo. Si ingegnò con lavori saltuari. Non a Parma ma a Falconara. Ricordo che non c’era mai in casa. Seppi dopo che, da clandestino, aveva aderito alla lotta antifascista. Alla fine della guerra Ferruccio Parri gli propose di entrare in politica. Non se la sentì. Accettò, invece, l’offerta di dirigere a Roma l’Anonima petroli italiana. E fu la ragione per cui agli inizi degli anni Cinquanta ci trasferimmo nella Capitale».
Non dà l’idea di essersi immediatamente ambientato.
«Facevo una vita abbastanza solitaria. Presi a frequentare il ginnasio, al Virgilio. Passavo le mie giornate a leggere. Ed era come se un’ansia di felicità montasse ogni qualvolta facevo una scoperta tra le pagine di un libro. Avvertivo un’emozione fortissima, la stessa che avevo provato nei miei anni di bambino».
Gli anni di Parma?
«Più esattamente gli anni in cui, durante la guerra, sfollammo nella campagna del parmense. Ricordo certe sere in cui un vecchio si fermava da noi, chiedendo alla mamma un piatto di minestra. In cambio adunava in una stalla noi bambini e quelli delle case coloniche vicine e raccontava delle storie meravigliose. Fu un’esperienza straordinaria che mi fece capire che la lettura anche quando è un fatto individuale, riflette un mondo di legami collettivi».
È il meccanismo dell’ascolto della fiaba.
«Quasi tutto parte da lì. È vero. Walter Benjamin disse che quando il narratore raccoglie attorno al fuoco un po’ di gente produce una specie di miracolo. Ognuno di coloro che ascolta diventa lui stesso narratore. Si crea una catena emotiva fortissima”
Mi pare difficile che oggi si legga ancora in quel modo
«Quel modo di raccontare si chiude con la morte di Tolstoj. Per quanto raffinato, straordinario e in perfetta solitudine, Tolstoj è l’ultimo narratore della tribù. Poi tutto cambia. Il romanzo muta pelle. Va in mille pezzi».
Mentre parlava notavo che oltre alla letteratura anche la vita a volte esplode senza che ce ne accorgiamo. Lei mi accennava a certe difficoltà che l’hanno coinvolta.
«La vita di uno studioso è solitamente tranquilla, ordinata, fatta di piccole soddisfazioni legate alle proprie ricerche. A me è accaduto che per un anno intero questo scorrere piano delle cose si interrompesse bruscamente».
Cosa era accaduto?
«Dopo sei anni di dialisi, all’inizio dello scorso anno, ho affrontato un trapianto di rene. Una liberazione se non fosse stato per tutte le complicazioni che ne sono derivate».
Dopo che gli fu trapiantato il cuore il filosofo Jean-Luc Nancy si chiedeva se quella persona che sentiva di essere fosse ancora lui.
«Una sensazione che capisco. Ma in me è subentrata una certa indifferenza rispetto all’organo vitale».
Come sostituire un pezzo del motore?
«In un certo senso. La sola cosa a cui pensavo, prima dell’operazione, era al destino di mio fratello. Anche lui in dialisi per 19 anni e assolutamente refrattario al trapianto».
Perchè?
«Forse perché aveva una situazione cardiaca compromessa o forse perché vedeva quell’organo come un intruso. Non so. Ma so che dovevo reagire in modo diverso da come aveva reagito lui».
E cosa fece?
«Dopo un po’ che avevo cominciato la dialisi mi sono iscritto alle liste per il trapianto. Ho atteso cinque anni. Poi l’intervento. La speranza che si realizza. Ma al tempo stesso tutto quello che non ti aspetti e che va alla domanda essenziale: come reagirà il tuo corpo?».
Il suo, lei dice, non ha reagito benissimo.
«No, complicazioni infinite. Quattro operazioni successive e la sensazione di essere entrato in un incubo. È stato un anno in cui la mia vita normale si è cancellata».
C’è un rapporto tra come la letteratura ha trattato la malattia e quella vera?
«In letteratura la malattia è uno dei grandi temi. Nella vita è uno dei grandi problemi. Quando arriva l’impatto, quello frontale, non c’è frase per quanto bella che ti possa aiutare. Poi, quando la situazione si stabilizza ed elabori i meccanismi di difesa, solo allora la letteratura ritrova il suo ruolo».
In lei quel ruolo è stato ritrovato?
«Parzialmente sì. Sono un malato cronico ed è una cosa pesantissima. Sempre appeso a un filo, con il rene che può smettere di funzionare. Però ho riguadagnato i miei interessi, anche se la mia capacità di lavoro si è notevolmente ridotta. Quei mille pezzi, in cui si diceva era finita la letteratura, si ricompongono faticosamente».
Tutto era iniziato con la morte di Tolstoj.
«Già, pensi che per non disturbare la sua agonia avevano messo la paglia sulle rotaie della stazione di Astapovo».
Ha mai avuto la tentazione di dedicarsi al romanzo?
«Mi viene in mente Debenedetti. A 22 anni si pensava narratore. Legge  Du Coté de chez Swann e capisce che tutto quello che avrebbe voluto scrivere era già stato scritto».
Cambia strada.
«Sì. Mi verrebbe da dire: accettò il proprio destino. O per dirla, un po’ meno banalmente, con Lukács: la propria mancanza di destino».
Il saggista è un uomo senza destino?
«Siamo al servizio dei destini altrui. Serviamo e succhiamo. Una forma di parassitismo sublime. O almeno tale è stato in passato».
Non ci sono più grandi critici?
«Quando ancora oggi, per farle un esempio, leggo Erich Auerbach colgo la sua serenità di fondo. Sa perfettamente cosa fa e come lo fa. Il suo mestiere è legittimato interamente dalle sue conoscenze. Gli stimoli oggi sono infiniti e difficili da controllare».
Il mestiere del critico sta morendo?
«C’è sempre una certa enfasi quando si tirano fuori i certificati di morte. Anche del romanzo si diceva che fosse defunto».
E invece?
«È ancora qui».
Però nel Novecento accade qualcosa di decisivo.
«Saltano i tempi narrativi. L’ultimo romanzo in cui ancora il calendario funziona perfettamente è 
I Buddenbrook di Thomas Mann. Anche un romanzo complesso come I fratelli Karamazov, fatto di piani narrativi molteplici e complicati, è una specie di orologio perfettamente regolato. Se invece si va alla Recherche di Proust si nota che i tempi epici non sono più misurabili con strumenti oggettivi».
Non corrispondono alla vita biologica dei personaggi?
«Proust se ne disinteressa».
Perché il tempo narrativo deflagra?
«È difficile da spiegare. Certamente all’inizio del Novecento accade qualcosa nei vari ambiti: dall’arte figurativa, alla poesia alla musica, alla letteratura e naturalmente nella scienza, basti pensare alle rivoluzioni di Einstein».
E alla psicoanalisi.
«Ovviamente. Non c’è più un tempo oggettivo misurabile.
Tranne che in economia.
«Il tempo lì diventa ferreo. La letteratura e l’arte in genere si sottraggono a questa tirannia».
Meglio smarriti ma liberi?
«In un certo senso. Anche se lo “smarrimento” non è una condizione che viene scelta ma subita».
I quattro grandi dinamitardi della letteratura del Novecento sono considerati Proust, Musil, Kafka e Joyce. La convince?
«Direi di sì. Ci sono altri grandissimi come Faulkner per esempio, o Bulgakov. Ma la statura non è lo stessa di quelli che ha citato».
E tra questi lei predilige Proust.
«Non è un segreto. Ho scritto tantissimo su di lui. Ma ho anche letto moltissimo Kafka, che amo enormemente».
Proust e Kafka sono due mondi opposti.
«Senza dubbio. E tuttavia sia l’occhio dell’uno che dell’altro sono precisi e crudeli».
Crudeli?
«Si pensi al Processo: un uomo passa quasi l’intera vita davanti a una porta, si sente dire che non può varcarla e poi scopre che quella è la sua porta. Nel racconto Nella colonia penale la scrittura stessa è una forma di tortura che pian piano incide sulla schiena del condannato la sentenza. Cosa c’è di più crudele?».
E Proust?
«È sufficiente seguire il destino dei personaggi della Recherche, vedere come sono spiati dal narratore, che non concede loro né tregua né clemenza, per capire che Proust ha bisogno di quel sentimento per raccontare che un certo mondo, il suo, era finito».
Pensa che una certa crudeltà si sia accanita su di lei?
«Siamo soliti definire “crudele” il nostro destino. Ma non c’è niente di crudele. C’è la sventura che ci rende piccoli e inermi. E non sempre capaci di reagire».

http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/16/news/lavagetto_ho_inseguito_i_fantasmi_dei_grandi_scrittori_ma_la_letteratura_non_ti_salva_se_la_vita_va_in_pezzi-81184869/

MASSIMO RECALCATI: “PERDONATE IL TRADIMENTO”. INTERVISTA

di Viginia Perini, affaritialiani.it, 17 marzo 2014

ll perdono nella vita amorosa è un modo per ridare vita a qualcosa che il trauma del tradimento e dell’abbandono ha reso morto. Non a caso la cultura cristiana e anche Francesco I fanno del perdono la virtù più grande e specifica di Dio e dell’amore”. Mentre in Europa si parla di poliamore (relazioni multiple accettate da un accordo di coppia) e la coppia aperta sembra diventare l’unica risposta possibile alla società frenetica in cui tutto, anche i rapporti, si disfano di continuo, lo psicoanalista Massimo Recalcati pubblica un elogio all’amore dal titolo Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa(Raffaello Cortina editore, 160 pagine, 13 euro). E ad Affaritaliani.it spiega perché credere nella passione per sempre.
Come mai un libro sul perdono? E’ un momento storico-sociale in cui questo concetto trova un senso più che in altri momenti?
“La vita amorosa attraversa di continuo il continente impervio del perdono. Non c’è coppia che non sia passata da questa strettoia. Perdonare e non perdonare? Soprattutto quando c’è in gioco il trauma del tradimento. Ecco, il perdono nella vita amorosa è un modo per ridare vita a qualcosa che il trauma del tradimento e dell’abbandono ha reso morto. Non a caso la cultura cristiana e anche Francesco I fanno del perdono la virtù più grande e specifica di Dio e dell’amore. Saper perdonare avvicina gli uomini a Dio? Può essere. In un mondo come il nostro fatto di odio e di invidie feroci l’accesso al perdono appare come un percorso faticosissimo ma capace di dare una gioia misteriosa…”.
L’amore “per sempre” è un’utopia?
“Che l’amore per sempre vada ridicolizzato è un’altra tendenza del nostro tempo. Gli amori vanno e vengono, si sciolgono come la neve al primo sole. Sono amori liquidi direbbe Bauman. Il contrario dell’amore destinato all’eternità. Sono amori che non sanno durare. Certo si potrebbe anche chiedersi se in un amore è più importante durare o consumarsi… In ogni caso questo libro è un grande elogio all’amore che sa resistere alla corruzione del tempo, all’amore che sa durare. Io diffido dell’idea che sembra egemone nel nostro tempo che i legami affettivi che durano nel tempo sono destinati a spegnere il desiderio. L’esperienza dell’amore realizza esattamente il contrario: più l’amore dura più il desiderio, anche erotico, è vivo. Noi viviamo invece nella menzogna che la sola cosa che conti sia il godimento fine a se stesso. Non il mondo vissuto insieme ma il mondo goduto dall’Uno”.

Se esistono quali sono le modalità per far resistere un rapporto agli accadimenti della vita?
“L’amore che dura è l’amore che vuole vivere ancora. Non sopravvivere. Lacan definiva la parola d’amore più alta quella che recita: “ancora”. Ancora come adesso, ancora come oggi, ancora te, ancora te per sempre. Ancora non esige il ricambio del vecchio oggetto per il nuovo – come accade nella logica del capitalismo – ma mostra che il Nuovo è nel rinnovare l’amore nello Stesso. Se questo miracolo esiste allora l’amore dura e non si lascia consumare”.
Ma l’uomo è naturalmente monogamo?
“L’uomo non è un ente naturale. Gli istinti non sono per lui una bussola infallibile. Oggi i neuroscienziati che si sono occupati di questi temi ci dicono che l’ebbrezza provocata dal primo incontro può durare al massimo 18 mesi… Poi è destinata a calare. Io credo che l’intensità dell’amore non dipenda dai livelli di dopamina, ma che si rinnovi a meno dalla forza del rapporto stesso. Se la fedeltà è una postura dell’amore per sempre a volte sappiamo bene – gli psicoanalisti si occupano anche di questo – che può diventare essa stessa una camicia di forza. Non è mai il caso di chi abbraccia la monogamia come una fede. Soprattutto quando questa richiede sacrificio inutile”.
Il tradimento può assumere un valore positivo? Può essere di qualche insegnamento per la coppia?
“Il tradimento che avviene in una coppia legata dall’amore è un trauma per chi lo subisce. Nel mio libro parlo diffusamente di questo attraverso la storia di O. Il problema che mi pongo è se quando chi ha tradito e ha rotto il patto chiede di essere perdonato diventa possibile rilanciare il rapporto o il rapporto che si è rotto non può più aggiustarsi… Il tradimento è un trauma che solleva braci antiche, altri traumi, più primari… E’ il caso di O. che tradito dalla moglie rivive l’esperienza dell’abbandono che aveva già conosciuto agli esordi della sua vita…”.
Qualche sociologo già da qualche anno ha teorizzato il poliamore. Che cosa ne pensa? Crede che sia la naturale evoluzione della coppia nella società contemporanea?
“Penso sia una cazzata…”.

http://www.affaritaliani.it/Rubriche/cafephilo/massimo-recalcati-ad-affari-perdonate-il-tradimento-intervista.html

ESSERE (UNA SPECIE DI) PADRI OGGI

di Marco Mancassola e Christian Raimo, mimimaemoralia.it, 18 marzo 2014*

M. M. Un paio di mesi fa, poco prima di Natale, andai allo Sperm Donor Christmas Drinks Party. Nei giorni precedenti ero stato al brindisi di fine anno del mio club di corsa, a quello con i miei editori inglesi, e a quello dello shop dove ogni tanto lavoro. E ora, ero al party natalizio per i donatori della principale banca del seme di Londra.

C’era una trentina di altri uomini, in una saletta al piano superiore di un pub. La maggior parte fra i trenta e i quarant’anni, facce da bravi ragazzi cresciuti (nessun freak troppo strano, il processo di selezione è rigoroso). Anche se la sola cosa in comune, in fondo, nessuno poteva dimenticarlo mentre sorseggiavamo i nostri drink, mentre chiacchieravamo delle nostre rispettive carriere, era il fatto di visitare una o due volte alla settimana una banca del seme in Harley Street. Ritirarsi in una delle stanzette apposite e fare il proprio dovere di donatori. Essere impegnati nel processo di aiutare coppie o donne single desiderose di procreare, e al tempo stesso in quello di vivere la vertigine, atavica e molto maschile, di trasmettere i propri geni, spargere il proprio seme. Senza neppure dover diventare padri effettivi. Riprodursi – la pura vertigine del riprodursi.

Si può sapere perché lo fai?” mi aveva chiesto un amico proprio pochi giorni prima. “Perché questo bisogno di contribuire a far nascere altra gente? Siamo già troppi, siamo una peste, e chiunque nasca adesso ha buone possibilità di crescere in un mondo che somiglierà sempre più a un inferno”. Ha un’indole un poco apocalittica, quell’amico. E il fatto è che in fondo, in un certo modo, sono d’accordo con lui. Posso essere anche più estremo del mio amico, quando si tratta di sentimenti apocalittici.

Una domanda abbastanza simile mi riecheggiò in testa la sera della festa dei donatori, quando uno degli altri uomini iniziò a farmi domande sul mio lavoro. Aveva un paio di occhi agili dietro le lenti degli occhiali. E più quell’uomo ascoltava le mie risposte, più si poteva leggere in quegli occhi la domanda: perché scrivi libri, se sei così pessimista rispetto ai destini dell’editoria? Perché farlo, se hai così poca stima degli intellettuali, così poca speranza nella lingua ormai del tutto marginale in cui scrivi?

In fondo, chiedersi perché uno scriva libri nel mondo di oggi non è molto distante dal chiedersi perché uno contribuisca a far nascere altri bambini. Non è soltanto per la vecchia idea di lasciare un’eredità, traccia di sé. Sono lontani i tempi in cui si scriveva per diventare immortali, e credo siano passati anche i tempi in cui si facevano figli per lo stesso motivo. Credo che di mezzo ci sia però ancora la speranza, o forse l’illusione, di far nascere qualcosa che, sia fatto di parole e storie oppure di realissima esperienza umana, possa schiudere un seme di bellezza. Una bellezza fragile e contrastata e sofferta che forse, chissà, nonostante tutto, in qualche modo che ancora non sappiamo, sarà salvezza. In qualche modo sarà redenzione.

C. R. Cosa vuol dire essere padri oggi? Per rispondere devo fare un superspoiler, mi spiace. Ma il momento più illuminante che ho visto quest’anno è una scena alla fine dell’ultima puntata dell’ultima stagione di Breaking Bad. (Vi sto avvertendo). Il protagonista, Walter White – marito e padre modello diventato cuoco di metanfetamine nel momento in cui si è scoperto malato di cancro e da lì in poi sprofondato in una discesa nel mondo del crimine che lo ha portato a essere ormai latitante, spacciato, ricercato per omicidi plurimi e altri reati – torna a casa per un brevissimo incontro intimo dalla moglie Skyler. Lei non lo vuole più nella sua vita, ma gli concede cinque minuti; lui le ha urlato, non si sa quante volte, in non si sa quante puntate, che tutto il male che ha fatto, i crimini che ha compiuti li ha fatti “in nome della famiglia”, per lei, per i loro figli. Ora ha la barba, i capelli arruffati, è quasi irriconoscibile, Ma sembra sincero come non lo è mai stato per tutte le cento puntate, e di fronte alla moglie ammette: “Skyler, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per me, mi piaceva”.

Si scopre allora la potenza con cui Vince Gilligan (il creatore della serie) è riuscito a riraccontare, in una specie di mash-up degno del miglior Joyce, due dei miti più importanti della storia dell’Occidente, quello di Ettore e quello di Ulisse. Dopo mille peripezie, WW finalmente è tornato a casa, anche se è lacero e allo stremo (come l’uomo dal multiforme ingegno). Nel momento in cui ammette che non l’ha fatto per la famiglia ma per sé, in realtà – il rovesciamento delle parole – sta anche mostrando invece che l’ha fatto per la famiglia, e che ora morente sta facendo l’ultimo sacrificio: solleva la figlioletta (come Ettore con Astianatte), e poi lascia la casa, sua moglie l’ha forse finalmente capito e lo guarda con occhi riconoscenti. La famiglia è salva, Skyler avrà l’eredità, il suo impegno nel mondo è compiuto, WW può passare il testimone.

Nel tempo dell’evaporazione del padre, dei padri assenti e fragili, Walter White, un criminale, apparentemente luciferino, ma di un’intelligenza fuori dal comune, è stato per me un esempio di cosa vuol dire lasciare una traccia, essere un padre, andare incontro al proprio destino. Seppure in modo calamitoso, tutto questo WW l’ha fatto. Ma del resto quale padre non è disastroso? Non lo è Ulisse, assente per vent’anni da casa, sedotto da Circe e Calipso, incapace di resistere alle Sirene se non legandosi a un albero? Non lo è Ettore che Andromaca cerca fino all’ultimo di convincere a desistere dalla battaglia, per non rendere orfano Astianatte? Quando ho finito di vedere Breaking Bad, ho ripensato a un libro che ho letto, Il gesto di Ettore di Luigi Zoja, e a un film che ho visto, Biutiful di Alejandro Inarritu. E ho capito come sia davvero complicato diventare padri oggi, che abbiamo o non abbiamo figli biologici. Perché diventare padri non ci viene richiesto. Perché il nostro è un tempo buffo, un tempo che crede alla contingenza, e essere padri vuol dire invece opporsi alla fugacità del tempo. Perché il nostro tempo ci dice che di questa terra siamo i padroni, e essere padri significa invece avere una sapienza che stentiamo a riconoscere: quella che lega i morti ai vivi.

Buona festa del papà.

* Articolo uscito su Rolling Stone, marzo 2014

http://www.minimaetmoralia.it/wp/essere-una-specie-di-padri-oggi/

 

Video

MASSIMO RECALCATI OSPITE A CHE TEMPO CHE FA

rai.tv.it, 15 marzo 2014

Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti italiani, membro dell’Associazione lacaniana, analizza, nel suo nuovo saggio Non è più come prima – Elogio del perdono nella vita amorosa, l’esperienza traumatica del tradimento e dell’abbandono.

Clicca sul link:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-22b21f1a-bc41-4f08-98f9-466955fc91b2.html#p=

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 2105