Segue dalla parte I “Gorizia e Parma” (clicca qui per il link)
4. Il lavoro rende liberi? La parola ai degenti
Il capitolo successivo, curato da Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba, è evidentemente ispirato nel titolo all’iscrizione che sovrastava il cancello di Auschwitz, e ha per oggetto la relazione della psichiatria con il lavoro del paziente e la sua remunerazione. In esso sono riportate e commentate due assemblee di comunità tenutesi all’inizio dell’anno presso l’ospedale di Gorizia. Nell’introdurre il testo, i curatori ripercorrono brevemente la storia dell’ergoterapia e del suo rilancio nel 1929 ad opera di Hermann Simon[i] e colgono una insopprimibile contraddizione nell’essere del lavoro in manicomio contemporaneamente uno strumento terapeutico volto a mobilitare la partecipazione attiva del paziente e uno strumento di sfruttamento della sua forza-lavoro volto a tenere in vita l’istituzione. Solo una volta libero, il degente potrà svolgere una vera attività lavorativa con un contratto tra liberi contraenti.
L’occasione per le due assemblee è questa: il budget destinato alla retribuzione del lavoro dei degenti è stato superato prima del tempo, ed occorre trovare una soluzione. Il materiale riportato è affascinante perché si vedono via via emergere, nelle diverse voci dell’assemblea, i nodi di fondo che riguardano il rapporto tra lavoro erogato, distribuzione della ricchezza e organizzazione sociale complessiva. Il tutto in una microsocietà, quella asilare appunto.
E così qualcuno propone di tagliare la paga a chi è fermo (per motivi di salute, perché manca il lavoro o per altre ragioni), e garantirgli solo una sorta di sussidio di disoccupazione, e di rendere la paga proporzionata al valore del lavoro erogato. Poi sorge il problema di come remunerare chi lavora per più tempo, ma con meno fatica; e di chi fa un lavoro più impegnativo e intenso, o lavora in un ambiente più umido o caldo. C’è chi propone di diminuire le paghe, ma solo a chi ha di più, oltre un certo reddito. C’è chi pensa che, invece che al lavoro erogato, la paga debba essere proporzionata al bisogno, e sia salvaguardato chi non ha una famiglia che lo sostiene o altre possibilità. C’è chi pensa che tutte le paghe debbano essere parificate, e così si possa risolvere il problema colpendo soprattutto chi ha di più. C’è chi non è interessato direttamente dal problema, ma nella comunità vuole ugualmente dire la sua. C’è chi spera che sia il direttore a trovare la soluzione che non scontenti nessuno, ottenendo un extrabudget oggi diremmo, e liberi così la comunità dalla necessità di operare scelte divisive. Chi pensa che si possa sperare in una rateizzazione. Chi vorrebbe aumentare la possibilità che i degenti ricevano commissioni da fuori e ottenere così nuove entrate. Chi vorrebbe ricorrere all’aiuto delle famiglie. Ci s’interroga su come trattare chi per motivi di salute può svolgere solo lavori non produttivi, a scopo soltanto terapeutico, che si fatica a chiamare lavori e che nella società esterna sarebbero definiti hobby. Si parla della relazione tra il lavoro e il reddito: si lavora per “sentirsi più completi” o per avere a disposizione la paga? Si parla del valore aggiunto che ha il lavoro del ricoverato, perché è anche uno strumento che lo aiuta a guarire; ma anche della contraddizione tra valore terapeutico del lavoro e sfruttamento del suo prodotto da parte dell’istituzione. Ci si chiede se pochi, i più efficienti, debbano lavorare tanto; o se sia più giusto parcellizzare il lavoro, anche se ciò può essere antieconomico, in modo che più persone possano essere occupate e che, soprattutto, possa esserlo chi non è in grado di fare molto (è quanto accadeva allora nei Paesi socialisti oltre la cortina di ferro che passava proprio per Gorizia). Si discute della paga, che per qualcuno è «un sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio» (p. 156). E del significato del lavoro; la sig.na Danieli è lapidaria in proposito: «aiuta più il lavoro che le medicine, le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine». (p. 167).
A lato del tema principale, il lavoro, si discute della figura del direttore nella nuova situazione comunitaria. Il quale ha voluto essere troppo “buono” e questo è stato un “guaio” che ha causato il deficit nel quale ci si trova. Ma per un altro: «anche la bontà è terapia. Si capisce. Perché quando vediamo lei non ci tremano le gambe, una volta ci tremavano le gambe, eravamo tutti sull’attenti anche quelli che non capivano». E ancora: «anni indietro qui eravamo tutti “morti”. E adesso invece siamo tutti contenti». Ancora: «qua siamo a casa, abbiamo almeno quel sollievo di non avere quell’ansia, quella paura, si vive più in armonia» (p. 141). Ma non ci sono solo lodi e gratitudine per lui, da parte dei degenti. E le parole di alcuni di loro aiutano a capire che cosa Basaglia intenda in concreto quando scrive di “reciproca contestazione”. E gli viene rimproverato di essere stato un genitore troppo buono, appunto. Di avere permesso che le paghe fossero aumentate dall’assemblea senza tenere conto del limite della realtà. Di non avere protetto il gruppo dal rischio di sbagliare. Ma anche di fregarsene di loro, i degenti, costretti a contendersi le cento lire in più o in meno come i ragazzini, e di essere in questo come “quelli di Roma”, i parlamentari, le persone importanti. Di essere nel gruppo, insomma, ma di non fare davvero parte del gruppo fino in fondo: di non condividerne la condizione morale ed economica, di avere fuori dall’asilo la sua vita privata, il suo benessere, la famiglia ecc.
E’ un materiale pieno d’interesse che dice un mucchio di cose sul lavoro e il reddito, nel manicomio ma anche fuori[ii]. Sulla terapia e sulla comunità terapeutica per come sono vissuti in quella situazione dal ricoverato. Ma non è questo l’aspetto principale, scrivono Slavich e Jervis Comba: «una riunione di comunità ha uno scopo diverso, in essa problemi e contraddizioni non trovano primariamente una soluzione, bensì appena una possibilità di espressione diretta e in parte non condizionata; vi vengono confrontate le posizioni di copertura che individualmente pazienti, medici, infermieri tendono a crearsi; col confronto tali posizioni riacquistano la loro dimensione relativa, per il continuo deciso richiamo alla realtà» (p. 124). L’assemblea ha dunque, al di là del contenuto delle posizioni espresse, un valore terapeutico che è insito nel fatto stesso di svolgersi. Medici e altri “leaders tecnici” presenti hanno anche il ruolo di avviare e supportare questo processo dialettico con interventi a carattere supportivo ma non direttivo, che troviamo sparsi qua e là nelle due assemblee.
Che cos’è la psichiatria, allora? Sono le parole di queste due assemblee. La psichiatria è soprattutto parlarsi. Anche le “loro” parole che diventano protagoniste e difficilmente troverebbero tanto spazio in un altro libro; anche questa è una novità. E’ questo cercare da parte di tutti i soggetti le proprie soluzioni ai propri problemi, ai problemi concreti che toccano nel vivo. Appropriarsi degli uni e delle altre. E’ anche questo esprimere liberamente il giudizio, i degenti, sul direttore, il medico e l’infermiere, nella reciproca contestazione, e non sentirsi soltanto l’oggetto del loro giudizio. E per questo, credo, questo lungo spaccato di vita comunitaria commentato da Slavich e Jervis Comba doveva trovare posto in un libro scritto per dare alla domanda “che cos’è la psichiatria” una nuova risposta; perché questo parlarsi di cui ci viene permesso qui di fare quasi diretta esperienza costituisce, già in sé, una parte importante di quella risposta.
5. Psichiatria a due gambe: psicoanalisi e sociologia dell‘istituzione
Scrivono Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio rifacendosi a Jean Ayme che «Tosquelles riprende da Simon l’idea che è necessario curare al tempo stesso l’istituzione e i singoli malati (…) da Lacan, invece, riprende il processo di comprensione delle psicosi che si appoggia sulle teorie freudiane». E proseguono: «Il movimento della psicoterapia istituzionale (…) si caratterizza essenzialmente per la tensione tra questi due piani. Tosquelles stesso, nel definire la psicoterapia istituzionale, userà la metafora delle “due gambe”, quella sociologica e quella psicoanalitica»[iii].
La psicoanalisi entra a Gorizia nel corso del 1967 con Michele Risso[iv] che qui, nel capitolo che gli è affidato, ripercorre qui uno dei temi fondamentali del pensiero basagliano, quello del carattere forzato dell’imposizione alla psichiatria del paradigma medico, soffermandosi in particolare sull’inadeguatezza dell’anamnesi medica a rendere testimonianza della storia di una persona: «la psichiatria è nata male (…). Come dice Henry Ey, le condizioni di nascita della psichiatria sono state disastrose per il malato mentale» (p. 218). Ma come la psichiatria sta stretta nel modello medico, così anche la psicoterapia presenta difficoltà ad essere innestata sul tronco del manicomio. Lo testimoniano i tentativi operati da Rosen, Sullivan, Meerwein: «la psicoterapia, entrata nell'ospedale psichiatrico con il significato di una rivoluzione totale di questa istituzione anacronistica, ne è uscita per tornare nello studio degli psicanalisti o entrare nelle cliniche private. Ma non poteva andare diversamente» (p. 225).
E se questo è vero per Paesi dove l’esperienza di psicoterapia nell’istituzione è molto più avanzata, tanto più lo è per l’Italia dove: «ci troviamo di fronte ad un tutto da fare, meglio, ad un tutto da disfare, ad un tutto da rifare. Non dobbiamo, tenendo conto della altrui esperienza, compiere l’errore di inserire la psicoterapia individuale tra le terapie somatiche nell’ambito chiuso, coartato ed anacronistico della istituzione psichiatrica. Uno psicoterapeuta che si adatti, all’interno di una simile istituzione, a somministrare colloqui ad un singolo malato, compirà una fatica di Sisifo, tentando di trasportare l’atmosfera dello studio psicanalistico in una prigione condotta paternalisticamente con criteri che vogliono soltanto rendere il malato tranquillo ed inoffensivo (p. 226). Con il rischio, allora, che: «in un ospedale o in una clinica dove i pazienti vengono tenuti a letto, dove continua ad essere praticato il giro dell’aiuto con i suoi assistenti, dove l'esame psichiatrico del malato viene fatto praticamente in pubblico, dove l’elettroshock viene somministrato in presenza di altri malati, ad un certo punto si presenta qualche psicoterapeuta sprovveduto che, ritirandosi in una camera casualmente disponibile, pretende di creare un approccio psicoterapico. Il direttore dell’ospedale potrà così affermare che nel suo istituto si pratica anche la psicoterapia: e questo è prodotto da inequivocabile malafede. La psicoterapia può essere realizzata esclusivamente in un ambiente che sia, di per sé, psicoterapico: i pazienti non dovrebbero neppure accorgersi che «si fa» della psicoterapia» (p. 226).
E Risso è, nel prosieguo, ancora più chiaro: «la psicoterapia non può essere considerata qualcosa che viene dato “in più” al malato di mente, non può entrare a far parte delle incrostazioni successive che si sono depositate a formare l’istituzione psichiatrica; essa deve, soprattutto, mettere in crisi questa istituzione ed imporre la necessità di ospedali psichiatrici completamente nuovi» (p. 227).
Gli ingredienti necessari a rendere l’istituzione “terapeutica” sono elencati poco dopo: «una concezione del tutto nuova della architettura psichiatrica; un personale di assistenza opportunamente istruito, cosciente, responsabile e partecipante a tutti i livelli della vita dell’ospedale; una équipe di psicologi, sociologi e assistenti sociali specificatamente preparati, una équipe medico-psichiatrica dotata di buone conoscenze in campo psicanalitico e psicodinamico, conoscenze altrettanto utili per una direzione psicoterapica dell’istituto, quanto per il superamento dei problemi interpersonali all'interno dei gruppi» (p. 227).
L’Italia gli appare spaventosamente arretrata su questo terreno e Risso prevede che occorrano decenni perché l’istituzione psichiatrica sia rivoluzionata dal dialogo fecondo tra psicanalisi, psicoterapia e psichiatria clinica. In realtà, di decenni a disposizione non ce ne sarebbe stato che uno prima che l’istituzione, con il suo crollo improvviso e in buona parte imprevisto, imponesse l’urgenza d’inventare modelli nuovi per una nuova psichiatria. Il dialogo tra psicoterapia e psichiatria clinica, da allora, è uno dei temi all’ordine del giorno e ha in gran parte sostenuto i primi passi della riforma. Così, da una parte ha consentito esperienze di psicoterapia istituzionale analoghe a quelle straniere alle quali Risso faceva riferimento in quel 1967, ma dall’altro anche l’incontro tra cultura psicoterapeutica e nuove istituzioni ha presentato spesso difficoltà non poi così diverse da quelle che proprio Risso ha con tanta lucidità evidenziato per il manicomio. La cultura psicoterapeutica, in quei casi, ha rischiato di incrinare l’equilibrio che sarebbe sempre necessario tra la considerazione per la dimensione simbolica e quella per la materialità dei problemi a favore della prima, e di imporre allora modelli rigidi di risposta incapaci di adeguarsi alla complessità, eterogeneità e dimensione della domanda, rischiando di lasciarla in buona parte inevasa[v].
Al saggio di Michele Risso è per certi aspetti speculare il successivo commento di Franca Ongaro Basglia al capitolo La carriera morale del malato di mente del volume Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza pubblicato da Erving Goffman nel 1961, che la stessa avrebbe tradotto per il Nuovo Politecnico Einaudi nel 1968. L’altra gamba, cioè, che è necessaria alla psichiatria per stare in equilibrio. In esso, Goffman descrive appunto la carriera morale del malato mentale attraverso tre fasi di progressivo depauperamento e degradazione: dall'essere designato e insieme viversi come predegente, a degente, a ex degente; una fase, questa terza, che viene solo tratteggiata nel capitolo.
Il commento della Ongaro Basaglia è la riprova di quanto la teorizzazione sociologica di Goffman sia stata importante nell'esperienza goriziana e insieme di quanto lo sia anche per rispondere alla domanda di partenza: che cos'è la psichiatria?
Bene, la psichiatria è, in quel momento, anche questa carriera morale che, fondandosi su un’esclusione che nasce dalla proiezione nell'altro di ciò che si rifiuta di se stessi, lo umilia contribuendo a rendere definitiva quell’esclusione e inimmaginabile la ripresa.
E' un debito esplicitamente riconosciuto, questo dei goriziani, ma non è il solo: all'analisi dei meccanismi di degradazione del soggetto nell'istituzione proposta da Goffman corrispondono infatti nella loro lettura quella di fenomeni in buona parte analoghi operata da Primo Levi all'interno del lager – come del resto da Bruno Bettelheim[vi] e Jean Francois Steiner[vii] citati poco oltre (p. 255) – e quella operata da Frantz Fanon a proposito della situazione coloniale (pp. 243-244). Perciò, quando Basaglia seguirà Ugo Cerletti e Luigi Mariotti nel paragonare la situazione del manicomio a quella del lager, questo avrà sì anche nel suo come nel loro caso il significato di rendere dura una sacrosanta denuncia. Ma avrà anche un altro significato, più importante e più preciso; significherà anche dire che non solo il manicomio ricorda il lager in quanto luogo violento e inumano, ma lo ricorda soprattutto perché i meccanismi di istituzionalizzazione – che è possibile ricostruire utilizzando quegli strumenti che il lavoro di smontaggio di Goffman mette a disposizione – sono, in buona misura, gli stessi. Paragonare il manicomio al lager, ha dunque per Basaglia più un fondamentale signficato di analisi dell’istituzione e dei suoi meccanismi, che quello di una denuncia morale.
Ma la psichiatria è un rischio per il malato non solo perché si propone di curarlo attraverso una macchina guasta in partenza e destinata ad aggiungere malattia alla malattia, il manicomio.
Anche l’atto diagnostico che sta alla base di questa operazione è in se stesso un rischio per la destoricizzazione che esso comporta dei problemi, ora ridotti a patologia, e per l'elemento di snaturamento che essa tende a introdurre anche nei rapporti "naturali" che, nel bene e nel male, legavano il malato a coloro che gli erano vicini: egli cessa di essere contraddetto (e nell’essere contraddetto è il riconoscimento di sé come soggetto), di essere chiamato alle proprie responsabilità. Diventa nell’ambito di ogni relazione solo un povero matto, insomma.
Quanto all'ospedale psichiatrico, esso è una particolare istituzione totale che assomiglia alla prigione nel suo aspetto correttivo, all'ospedale generale nel suo aspetto terapeutico e al collegio nel suo aspetto educativo (p. 263).
Un altro tema ricorrente nell’analisi dei goriziani, che vedremo meglio in seguito a proposito della critica a Marandon de Montyel, è l’insistenza sull’importanza del protagonismo del paziente, dell’evitare cioè che dall’autoritarismo della vecchia istituzione si passi al paternalismo nella nuova; perché: «Dove esiste un dare e un ricevere la distanza è incolmabile e non esiste reciprocità fra i due poli. Dove non esiste reciprocità non esiste un rapporto» (p. 278)[viii]. Il personale convinto di "dare" la guarigione al malato e pronto a congratularsi con se stesso per i suoi progressi e il malato stesso: «non si sono neppure sfiorati, non hanno scambiato uno sguardo che possa dirsi umano: l'uno chiuso nella sua passività agli occhi dell'altro; l'altro occupato a trascendersi nel proprio ruolo» (p. 278).
Una conclusione che sembra echeggiare alla lettera, e non è per caso, le parole altrettanto efficaci con le quali Fanon stigmatizzava la relazione tra il bianco e il nero nella colonia: «Il bianco è rinchiuso nella sua bianchezza. Il nero nella sua nerezza»[ix].
Non stupisce allora che, se al malato non sarà stata aperta la possibiità di rendersi in prima persona protagonista del proprio percorso di dimissione, a quell'atto corrisponderà soltanto il suo passaggio da una fase di "degente" a una di "ex degente", oggetto degli stessi meccanismi di deresponsabilizzazione e di controllo oggettivante operati dall'istituzione, questa volta posti in essere da nuovi servizi e nuove persone fuori di essa (p. 284).
Segue la parte III "Tutta un'altra storia" (clicca qui per il link).
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