Non conoscevo Franco Lolli, ma quando mi è capitato, casualmente, questo suo ultimo libro per le mani, dalle prime righe ho avuto un sussulto: mi sono riconosciuta.
È lui che parla, o sono io? Ma non è per puro, e piacevole, rispecchiamento narcisistico che ho sentito importante presentare, dal mio punto di vista, L’inattualità della psicoanalisi: perché è un libro importante, attuale pur discutendo di un “inattuale”, di facile lettura ma profondo, che non trascura nessuno dei nodi in cui inciampa l’analista contemporaneo e, soprattutto, si propone di ribaltare alcuni, secondo l’Autore, luoghi comuni imperanti e dati per scontati nell’attuale dibattito psicoanalitico.
Partiamo da questi, su cui si articola tutto il discorso successivo.
Il primo di questi postulati è quello che l’autore chiama “teoria del declinismo”: aver equiparato, con insolito e universale consenso in seno alla comunità psicoanalitica, la cosiddetta ‘nuova patologia’ con il declino del padre. Il secondo postulato riguarda l’attuale allargamento della cura classica, debitamente modificata, a patologie che non si presentavano in passato, che non frequentavano il lettino di Freud. Si tratta davvero di patologie ‘nuove’, o piuttosto di una larga fascia di pazienti – che Lolli efficacemente chiama i nuovi domandanti – che, semplicemente, né Freud né le prime generazioni di analisti che lo hanno seguito avrebbero preso in analisi, né il domandante di questo tipo si sarebbe a loro presentato. Ho sempre tenuto in grande considerazione questo aspetto, assolutamente centrale, del quale di discute troppo poco: non si parla più di ‘indicazione’ alla psicoanalisi, non la si insegna più. Abbiamo dimenticato che la psicoanalisi nasce nel cuore della colta Europa di fine ‘800, che il suo terreno di coltura è quella piccola parte della popolazione che fu attratta dalle rivoluzionarie teorie di Freud, personaggi colti, desiderosi di sapere, che ammiravano il maestro e per i quali non erano in discussione i parametri della cura classica, il cosiddetto dispositivo analitico. La loro domanda era una domanda di sapere, a cui la psicoanalisi, praticata all’interno del paradigma nevrotico, sapeva dare risposte.
È residuato qualcosa di tutto questo? Viviamo forse nello stesso mondo?
“I nuovi ‘domandanti’ – scrive Lolli – sono portatori di una domanda muta, presenze silenziose e diffidenti, corpi attraversati da pratiche di godimento incontrollate (e, spesso, non riconosciute come tali), increduli rispetto alle possibilità terapeutiche della ‘parola’, certi della propria assoluta ‘innocenza’, i nuovi domandanti destabilizzano il setting, minacciandone attraverso agiti e sabotaggi la continua rottura” (p.8).
Si deve all’autore il coraggio di aver sfrondato uno dei molti assiomi politically correct che infestano il nostro tempo: che siamo tutti uguali, tutti con le stesse possibilità, gli stessi diritti. Ergo: tutti possiamo fare psicoanalisi, psicoqualcosa. La progressiva erosione sia dei ceti contadini che della borghesia, la massificazione che ha fatto del cittadino un consumatore, all’interno della straordinaria ‘mutazione antropologica’ pasoliniana che l’autore ricorda, ha fatto sparire quella classe che si rivolgeva a Freud, senza che ne nascesse una nuova. Il nuovo ricco contemporaneo mira a godersi i suoi beni e non ha alcun interesse a conoscere sé stesso; il suo male di vivere, anzi, qualora subentri, lo rende pari all’operaio, all’impiegato, a qualunque soggetto smarito del nostro tempo. Quindi, la tesi è chiara e forse scomoda da accettare: i cosiddetti ‘nuovi pazienti’ c’erano anche al tempo di Freud, nelle fasce popolari, ma mai si sarebbero rivolti alla psicoanalisi che, solo dal secondo dopoguerra, è diventata accessibile a larghe fasce di popolazione. Questa ‘democratizzazione’ (così come per l’istruzione, se si vuole), se da un lato potrebbe espandere le possibilità di cura ad ambiti in passato preclusi, non ha del tutto giovato alla psicoanalisi.
Il terzo postulato, più complesso, che l’autore mette in discussione riguarda l’ingenua idea, anch’essa molto diffusa, che il capitalismo avanzato abbia slatentizzato nuove possibilità di godimento: il soggetto (occidentale) si troverebbe finalmente di fronte alla possibilità di appagare il suo desiderio.
Andiamo con ordine nell’articolata discussione che procede lineare per tutto il libro e che ha, come fil rouge, il bizzarro incontro tra un nuovo ‘domandante’ senza domanda, e un analista che, oggi più che mai, deve sancire la propria posizione di inattualità. Il termine, inattualità, deriva dalle Considerazioni inattuali che Nietzsche fece a suo tempo, nel 1873, riguardo ai pericoli che correva la filosofia di banalizzazione e imbarbarimento, simili a quelli corsi oggi dalla psicoanalisi. Quando ho parlato, in apertura, di un piacevole ritrovar me stessa, trovo qui un preciso riferimento: in chiusura del mio saggio Sulla sublimazione del 2014, raccomandavo alla psicoanalisi lo stesso monito: mantenersi inattuale, un sapere che paradossalmente si include dentro e si tiene fuori. Sono felice, dunque, di ritrovare queste stesse parole, tanto importanti da conferirne anche il titolo, nel libro di Lolli: non tutti noi, ma molti di noi, anche da ‘scuole’ tradizionalmente diverse, sentiamo l’urgenza di ribadire questo monito.
Il libro si divide in quattro capitoli. Nel primo, come già accennato, è presa di mira “l’ideologia del declinismo e il nuovo catastrofismo in psicoanalisi”. Principale sostenitore di questa teoria è, in Italia, come è noto, Massimo Recalcati che con il suo Il complesso di Telemaco ha fortemente ribadito la necessita, per il figlio, che il padre sia un Ulisse che ritorni, che testimoni, che ponga limiti al dilagare del godimento materno. Ma il declinismo, se cosi si può dire, è concetto condiviso da moti in psicoanalisi. Il padre è veramente scomparso, ci dice l’autore, o piuttosto è il patriarcato che è venuto a cadere?
“Non è tanto il padre che cade nella nostra epoca – scrive citando Gerard Pommier – (…) la caduta contemporanea veramente spettacolare è quella del patriarcato” (p.16). L’autore, di orientamento lacaniano, quando parla di padre parla di Padre: non il padre reale, ma il Padre quale “tutto ciò che si dimostra in grado di interporsi tra la Cosa materna e il suo oggetto-cucciolo” (p.16), che rompe la simbiosi duale, instauri un elemento ‘terzo’ in grado di introdurre il bambino nel simbolico, inaugurandone così lo statuto di soggetto. Posizione analoga è sostenuta da Green, con il concetto di ‘terzietà’ (2010): lo stesso ‘terzo’ che smarca il bambino dalla confusione psicotica con la madre, si ritrova nel setting quale elemento fondante la ‘terzietà’ nel lavoro analitico, punto su cui l’autore, in termini differenti, arriverà alla fine del libro.
Dunque non vanno confusi la reale caduta del patriarcato, e dei valori fondanti che lo sostenevano, con il temporaneo, e anche necessario perché il figlio cresca, declino del padre attuale.
Sul ‘catastrofismo’ non potrei trovarmi più d’accordo; non solo in psicoanalisi, come scrive Giglioli (2014), l’idea di vittima gode oggi di una fortuna senza precedenti. Il nuovo ‘domandante’ si sente, prima di tutto, vittima: del destino, dei genitori, del coniuge, e se diventa analizzante, dell’analista. Mai come in questo tempo il soggetto proclama la sua passività e quindi il suo buon diritto al risarcimento, la sua totale non responsabilità. All’analista, se gli capiterà di incontrarlo, il soggetto domanderà non conoscenza ma risarcimento, non assunzione di responsabilità, ma l’opposta scarica delegante; se l’analista non adotta queste posizioni, il domandante può anche interrompere la cura prima che inizi. Mi sono spesso chiesta – apro una piccola parentesi – da dove viene tutto questo vittimismo? (certo più marcato nei Paesi sudeuropei abituati alla generosità del welfare). Dalla cultura dei diritti: tutti hanno diritto a tutto. Non ho studiato, ma voglio ambire a quella posizione; non ne ho il talento, ma voglio salire su quel palco.
I social, ai quali Lolli dedica alcune pagine, collaborano sia al disinvestimento generalizzato della realtà e della sua fatica promettendo vetrine in cui ciascuno espone quello che vuole, sia si fanno essi stessi tribune di diritti.
Il discorso non è solo sociologico (l’autore ci tiene molto a non far scivolare la psicoanalisi nelle facili derive sociologiche) ma ha un diretto impatto clinico: quel soggetto che non merita eppure aspira, deresponsabilizzato e ignaro del proprio desiderio, smarrito tra le mille opportunità fasulle del mercato, spesso angosciato, è un potenziale nuovo domandante. Ha ragione Lolli quando scrive che il nuovo domandante, lungi dal narcisismo ipersicuro degli anni ’80, è spesso un soggetto debole, in cerca di sicurezza (la crisi economica del 2008 ha contribuito ad infragilirlo). Sulla ‘fragilità narcisistica’, asse delle patologie del nostro tempo imperniate intorno all’Ideale dell’Io e alla vergogna (non ce la faccio), piuttosto che al Super-Io e alla colpa (non devo), lo psicoanalista francese Kapsanbelis (2011) dedica argute parole, quando scrive che, come categoria metapsicologica la ‘fragilità narcisistica’ non esiste; ma oggi tutti sono fragili. Il tale è fragile, il tal altro è diventato fragile, da cui ci si ripara con. strategie ‘narcisisteggianti’, prosegue l’autore, che hanno come mira soprattutto il corpo, è come se al corpo destinassero tutta la pulsionalità di un soggetto che non si vede più internamente sorretto da nulla. (da cui il panico, ad esempio, altra cifra del nostro tempo).
Punto di grande interesse, anch’esso mirante a smontare, o comunque ridurre un altro credo contemporaneo, riguarda il rapporto tra ‘nuovo sintomo’ e godimento. Rispetto ai tempi freudiani, si dice, non ci sarebbe più conflitto tra la Civiltà e il godimento: la Civiltà stessa, dominata dal mercato, promuove, ossequia il godimento attraverso l’offerta di continui oggetti. Tutto ciò è, in una certa misura, a mio parere vero; ma è altrettanto vero quanto sottilmente scrive l’autore, appoggiandosi alle tesi di Guérin: al di là delle epoche e dei contesti storici, “niente indica che il soggetto e la funzione del sintomo nella sua struttura non permangano immutabili” (p. 19).
La tesi è straordinaria: esiste un’invariante, nell’umano, rappresentata sempre dall’incontro traumatico tra il desiderio e il linguaggio, tra il godimento e la parola: non avremo mai accesso a un godimento pieno (o a un pieno di godimento), ogni Civiltà, anche la più lassista come la nostra, implica una perdita, la famosa perdita freudiana per cui “abbiamo rinunciato alla felicità per un po’ di sicurezza”. Non ci si confonda, dunque, dice l’autore: la giostra del mercato del godimento non satura proprio nulla, semmai delude e rimanda a nuove mancanze (senso di esistere, inutilità) che possono alimentare la domanda muta del nuovo domandante. Anche qui, ne deriva una patologia che io ho altrove definito come cifra psicopatologia del nostro tempo: le dipendenze (Valdrè, 2016), intendendo non solo da sostanza ma tutte quelle situazioni in cui il soggetto è assoggettato alla pulsione, in cui il soggetto è oscurato dall’oggetto, quale che che sia, anche una persona se siamo nel registro di relazioni narcissiche.
Molto godibile l’elenco, per cosi di ire, che l’autore fa delle posizioni del nuovo analista, l’analista inattuale: l’analista fuoco fatuo, l’analista saint homme, l’analista diviso, l’analista sarto…solo per citarne alcune, lasciando al lettore l’approfondimento di questa carrellata. Punto cardine che l’autore tiene molto a sottolineare è il monito lacaniano che ‘l’analista sa di non sapere’: il sapere, va sempre tenuto a mente, è dell’analizzante. Ma abbiamo detto che il nuovo domandante non è incuriosito da alcun sapere, anzi lo teme, lo sfugge, preferisce il rifugio del sintomo e il pur misero godimento che garantisce, non crede nel valore della parola, non gode della metafora. E allora, che fare? Definirei l’analista inattuale della clinica contemporanea, un equilibrista.
Tra i tre mestieri impossibili che Freud citava alla fine del suo pensiero, rispetto al governare e all’insegnare, il nostro è il più impossibile di tutti: perché nulla ci garantisce che durerà. Di governanti e insegnanti ci sarà sempre bisogno, ma di analisti? Entriamo qui in quello che l’autore chiama l’atto analitico: l’atto analitico contemporaneo conosce alcuni bizzarri ribaltamenti, che tutti noi incontriamo ogni giorno. Il primo e il principale è, a mio avviso, la creazione della domanda. Il nuovo domandante, lo abbiamo detto, non è potatore di alcuna domanda: è smarrito, si sente solo, ha bisogno di sicurezza (altro tratto tipico del soggetto di oggi), ma è privo di domanda. Sarà compito dell’analista costruire insieme una domanda, usare al meglio i colloqui preliminari (e io direi, anche i successivi) per avvicinare il paziente al valore del pensiero, al sollievo della parola, per incuriosirlo su se stesso, perché esca dal nostro studio con la voglia di tornarci, perché lì ha incontrato un essere umano che lo ha ascoltato, non ha giudicato, ha posto le giuste, delicate domande, ha sollecitato aree nascoste…..non è per l’idealizzazione e il rispetto per gli eredi di Freud che i potenziali pazienti tornano, ma se si realizza il fortunato incontro descritto poc’anzi.
Siamo qui in un terreno visibilmente scivoloso: cosa distingue allora psicoanalisi e psicoterapia? Se l’analista inattuale deve chiedere, rinunciare all’oro della neutralità, usare la sua persona e non solo la sua posizione, lasciarsi investire come oggetto di transfert iniziale ‘bluffando’ per ‘conquistare’ il paziente (questa parte, su cui sorvolo, del gioco transferale è descritta in dettaglio con molta cura), di che psicoanalisi stiamo parlando, o meglio, stiamo ancora parlando di psicoanalisi? Ampio è il dibattito all’interno della comunità psicoanalitica e anche dell’IPA; Franco Lolli sembra rispondere di sì, che si tratta ancora di psicoanalisi purché ci si mantenga inattuali. Fuori dalle mode e dal senso comune, esiliati dal buonsenso e indifferenti alle critiche, fedeli al metodo e rigorosi nell’applicazione di un setting esterno, quando possibile, e sempre interno, quando non possibile, fedeli all’assoluta centralità della metapsicologia freudiana e quindi della sessualità anche se tutto questo, non avendo di fronte il corpo parlante di un’isterica, è ben più difficile da rintracciare.
Vorrei concludere, lasciando ai lettori il piacere di riflettere su questo libro, con una considerazione: essere inattuali non è facile. Tutti rincorrono l’attualità, il fatto, il consenso. Freud non lo fece; si può dire che a più di cent’anni dalla rivoluzione freudiana siamo tornati alla stessa esigenza di dover lottare per esistere ma solo a condizione di prosegui fiduciosi nel metodo, con un buon oggetto analitico interno, non lusingati dalle sirene né del nostalgico ritorno al passato, né del ben più pericoloso scivolo nel mare magnum delle psicoterapie intersoggettisiviste
Ci vuole coraggio, per essere inattuali. Freud lo aveva.
Pazienza, temperanza, e una capacità non certo di moda: saper stare soli.
Bibliografia
Giglioli D. (2014): Critica della vittima. Nottetempo, Napoli
Green A. (2010): Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico. Cortina, Milano
Kapsambelys V. (2011): La fragilitè narcissistique: une clinique contemporaine. 75, 1097-1112
Valdrè R. (2014): Sulla sublimazione. Un percorso del cammino del desiderio nella teoria e nella cura Mimesis, Milano
Valdrè R. (2016): La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta. Rosemberg & Seller, Torino
Certo, d’accordissimo! Ma nel
Certo, d’accordissimo! Ma nel frattempo sono comparsi Fairbarn, Winnicott, Bion, Kohut, Kernberg, Bolby ecc…Forse oggi parliamo, e da tempo pratichiamo, un’altra psicoanalisi..La comprensione stessa dello sviluppo e del mondo interno, la scoperta dell’inconscio non rimosso, l’apporto delle neuroscienza con la mappatura dei sistemi motivazionali, la memoria implicita, la dissociane come mancanza di integrazione di una normale compresenza di stati molteplici del sé, ci permettono migliore comprensione e migliore risposta alla complessita’ della domanda di cure, infinitamente variegata dal livello psicotico a quello borderlinenarcisistico a quello “nevrotico” a quello distimico.
Caro Francesco Bollorino, ti
Caro Francesco Bollorino, ti ringrazio per il post sul mio profilo che vedo soltanto ora. Avevo già letto con interesse le due recensioni del nuovo libro di Lolli, che ho già acquistato on line. Mi verrà consegnato a gennaio. Amo leggere e amo la psicoanalisi: lo studierò, dunque, molto volentieri come faccio con molteplici testi di colleghi. Peraltro, ho avuto modo di discutere diverse volte con Franco Lolli e conosco bene alcune fra le sue pubblicazioni. Nessuno credo dubiti della qualità della formazione di questo stimabile collega. Fai riferimento alla censura che avrebbe subito: da parte mia, trovo davvero chiuso e autoritario oltre che inelegante un gruppo volto a censurare un testo. Io mi sono, però, dimesso da Jonas Como nel 2016 e, da tempo, non faccio dunque più parte di nessuna fra le istituzioni nelle quali opera o ha operato Franco Lolli e che sicuramente sanno più di me quanto a censure e diffide.
Anche io ne ho una discreta
Anche io ne ho una discreta collezione. Le guardo appese col post it, da uomo libero.
IL POCO DA MOLTI FA IL BENE
IL POCO DA MOLTI FA IL BENE DI TANTI.
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