Nel 2009, in occasione della presentazione di una proposta di moratoria della pena di morte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da parte dell’Italia, ho pubblicato con Tom Dening su “History of Psychiatry” una rilettura degli scritti contro la pena di morte di due dei maggiori psichiatri italiani della metà dell’Ottocento (Peloso e Dening, 2009). Propongo ora la traduzione italiana con qualche revisione dell’articolo, in occasione dell’abolizione della pena di morte da parte della Virginia, che ha al suo attivo, nella sua storia, quasi 1.400 esecuzioni capitali 113 delle quali dopo il ripristino della pena di morte da parte della Corte Suprema nel 1976. Viene così salvata la vita a due condannati a morte in attesa da oltre 15 anni dell’esecuzione, e a quanti altri avrebbero potuto esservi condannati in futuro.
Quando il 20 settembre 1861, conquistata Roma dall’esercito sabaudo, l’unità d’Italia divenne un fatto compiuto, ci si trovò di fronte al problema di fondere in uno solo i tre Codici penali preesistente: uno, quello del Regno delle due Sicilie, che aveva valore per le regioni meridionali; il secondo, quello del Granducato di Toscana, che aveva valore per la Toscana; il terzo, quello del Regno di Sardegna, che aveva valore per tutte le altre regioni italiane. Il dibattito, incominciato subito all’indomani dell’unità, si protrasse fino al 1888; uno dei punti più delicati del dibattito, e sul quale i tre codici differivano radicalmente, era rappresentato dalla pena di morte. Essa era stata, infatti, abolita nel Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 da Pietro Leopoldo di Lorena, granduca dal 1765 al 1790, successivamente restaurata con la dominazione austriaca e di nuovo abolita nel 1859 dal Governo provvisorio, alla vigilia dell’annessione della Toscana al Regno d’Italia. La posizione toscana, seppure minoritaria in senso assoluto, godeva di importanti fautori tra gli intellettuali più illuminati come Pietro Ellero (1833-1933) e Francesco Carrara (1805-1888). Appare interessante il fatto che i due più importanti psichiatri italiani di metà Ottocento, che avevano in giovane età combattuto per l’ideale dell’Italia unita (Peloso, 2012), abbiano preso posizione in questo dibattito, rispettivamente all’inizio e alla fine di esso.
Nel quadro dell’inizio del dibattito sul Codice Penale unitario si inseriscono infatti le due letture tenute da Carlo Livi (1823-1877)[i] il 4 maggio e l’8 giugno del 1862 presso la Reale Accademia dei Fisiocratici[ii] di Siena contro la pena di morte. Il Livi fu uno dei più illustri psichiatri italiani del suo tempo, docente di medicina legale e poi di psichiatria a Siena, direttore del Frenocomio di Siena e poi di Reggio Emilia alla cui scuola si formarono oltre ad Augusto Tamburini (1848-1919) ed Enrico Morselli (1852-1929) tutti i più importanti psichiatri operanti in Italia tra fine ‘800 e inizio ‘900 e fondatore nel 1875 della Rivista Sperimentale di Freniatria e Medicina legale delle Alienazioni mentali, che è la più antica rivista italiana di psichiatria tra quelle ancora in vita.
La prima lettura ha carattere propedeutico, e ha per oggetto il tema dell’imitazione, considerato importante sia nel senso del cattivo esempio che il criminale potrebbe rappresentare, sia in quello del cattivo esempio che lo Stato fornisce nel commettere esso per primo, con la pena di morte, un assassinio. L’imitazione rappresenta dunque per Livi un fenomeno che si colloca nel suo estrinsecarsi nel punto di passaggio tra mente e sistema nervoso, “nell’ultimo confine tra la fibra sensibile e irritabile e la parte essenzialmente spirituale dell’umana natura”. Considera quindi vari fenomeni atti a documentare la forza del meccanismo dell’imitazione, da quelli relativi alla diffusione per imitazione delle nevrosi, con i fattori fisiologici, parafisiologici e patologici ad essa predisponenti; alla comparsa delle stigmate nei santi, che considera in buona misura attribuibili ad autosuggestione; alla gravidanza isterica, all’ipnosi, a proposito della quale cita lo psichiatra francese Azan, noto per aver descritto in quegli anni il primo caso di personalità multipla, ai fenomeni spiritici.
Alcune osservazioni, in questa prima parte, ci paiono di particolare interesse storico psichiatrico, perché particolarmente emblematiche dell’insieme degli argomenti all’ordine del giorno della discussione per uno psichiatra della metà dell’Ottocento, e dei suoi convincimenti antropologici e medici su molti di essi. Appare interessante, ad esempio, rilevare l’interesse che Livi dimostra per le conseguenze sul feto di forti impressioni ricevute dalla gravida, ma anche – a pochi anni di distanza dalla pubblicazione del Werter – per il suicidio e il delitto per imitazione. Dimostrando una buona capacità d’introspezione, il Livi allude, pur velatamente, alla possibilità di aver fatto diretta esperienza di questi ultimi. E a proposito del suicidio, in particolare, scrive: “Io non farò questione, se il suicidio si debba considerare sempre come un atto di pazzia; come medico, io credo in coscienza dover rispondere di no” (p. 47).
Tra le categorie più esposte all’influenza dal meccanismo dell’imitazione, nella cui definizione il Livi mostra di non sapersi sottrarre ai pregiudizi più forti della cultura dei suoi anni. Certo bambini, giovani, temperamenti nervosi, ma anche le donne e poi i negri che ”sono certamente la parte meno privilegiata d’intelletto dell’umana famiglia” (p. 26).
Livi descrive poi in modo molto preciso alcuni meccanismi assimilabili a quelli in atto in disturbi che sarebbero poi stati descritti come Sindrome di Ganser, o altri disturbi fittizi: “Non è raro il caso, per esempio, che i simulatori di certe nervee malattie e di certe frenopatie, col ripeterne i modi e gli atti esteriori, finiscano col rimanere presi davvero al brutto gioco” (p. 32).
E si sofferma sul problema dell’esposizione alla malattia mentale come fattore di rischio per gli operatori psichiatrici: “La domanda è: se le persone addette all’assistenza e cura dei malati soffrono nulla in se medesimi di tale contatto (…). Dico che la vista di tante sofferenze fisiche e morali non può a meno di lasciare tristi impressioni, impressioni che non solo addolorano l’animo, ma lo plasmano, dirò così, a quelle stesse passioni, cui la naturale indole più inclina (…). Molti che entrarono da medici nei manicomi, vi finirono malati” (pp. 43-46).
Passiamo così al secondo discorso, che investe la pena di morte in modo più diretto e ne contesta, uno ad uno, quelli che anche al dibattito odierno parrebbero gli argomenti più solidi, che possiamo raggruppare come segue.
Quando il 20 settembre 1861, conquistata Roma dall’esercito sabaudo, l’unità d’Italia divenne un fatto compiuto, ci si trovò di fronte al problema di fondere in uno solo i tre Codici penali preesistente: uno, quello del Regno delle due Sicilie, che aveva valore per le regioni meridionali; il secondo, quello del Granducato di Toscana, che aveva valore per la Toscana; il terzo, quello del Regno di Sardegna, che aveva valore per tutte le altre regioni italiane. Il dibattito, incominciato subito all’indomani dell’unità, si protrasse fino al 1888; uno dei punti più delicati del dibattito, e sul quale i tre codici differivano radicalmente, era rappresentato dalla pena di morte. Essa era stata, infatti, abolita nel Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 da Pietro Leopoldo di Lorena, granduca dal 1765 al 1790, successivamente restaurata con la dominazione austriaca e di nuovo abolita nel 1859 dal Governo provvisorio, alla vigilia dell’annessione della Toscana al Regno d’Italia. La posizione toscana, seppure minoritaria in senso assoluto, godeva di importanti fautori tra gli intellettuali più illuminati come Pietro Ellero (1833-1933) e Francesco Carrara (1805-1888). Appare interessante il fatto che i due più importanti psichiatri italiani di metà Ottocento, che avevano in giovane età combattuto per l’ideale dell’Italia unita (Peloso, 2012), abbiano preso posizione in questo dibattito, rispettivamente all’inizio e alla fine di esso.
Nel quadro dell’inizio del dibattito sul Codice Penale unitario si inseriscono infatti le due letture tenute da Carlo Livi (1823-1877)[i] il 4 maggio e l’8 giugno del 1862 presso la Reale Accademia dei Fisiocratici[ii] di Siena contro la pena di morte. Il Livi fu uno dei più illustri psichiatri italiani del suo tempo, docente di medicina legale e poi di psichiatria a Siena, direttore del Frenocomio di Siena e poi di Reggio Emilia alla cui scuola si formarono oltre ad Augusto Tamburini (1848-1919) ed Enrico Morselli (1852-1929) tutti i più importanti psichiatri operanti in Italia tra fine ‘800 e inizio ‘900 e fondatore nel 1875 della Rivista Sperimentale di Freniatria e Medicina legale delle Alienazioni mentali, che è la più antica rivista italiana di psichiatria tra quelle ancora in vita.
La prima lettura ha carattere propedeutico, e ha per oggetto il tema dell’imitazione, considerato importante sia nel senso del cattivo esempio che il criminale potrebbe rappresentare, sia in quello del cattivo esempio che lo Stato fornisce nel commettere esso per primo, con la pena di morte, un assassinio. L’imitazione rappresenta dunque per Livi un fenomeno che si colloca nel suo estrinsecarsi nel punto di passaggio tra mente e sistema nervoso, “nell’ultimo confine tra la fibra sensibile e irritabile e la parte essenzialmente spirituale dell’umana natura”. Considera quindi vari fenomeni atti a documentare la forza del meccanismo dell’imitazione, da quelli relativi alla diffusione per imitazione delle nevrosi, con i fattori fisiologici, parafisiologici e patologici ad essa predisponenti; alla comparsa delle stigmate nei santi, che considera in buona misura attribuibili ad autosuggestione; alla gravidanza isterica, all’ipnosi, a proposito della quale cita lo psichiatra francese Azan, noto per aver descritto in quegli anni il primo caso di personalità multipla, ai fenomeni spiritici.
Alcune osservazioni, in questa prima parte, ci paiono di particolare interesse storico psichiatrico, perché particolarmente emblematiche dell’insieme degli argomenti all’ordine del giorno della discussione per uno psichiatra della metà dell’Ottocento, e dei suoi convincimenti antropologici e medici su molti di essi. Appare interessante, ad esempio, rilevare l’interesse che Livi dimostra per le conseguenze sul feto di forti impressioni ricevute dalla gravida, ma anche – a pochi anni di distanza dalla pubblicazione del Werter – per il suicidio e il delitto per imitazione. Dimostrando una buona capacità d’introspezione, il Livi allude, pur velatamente, alla possibilità di aver fatto diretta esperienza di questi ultimi. E a proposito del suicidio, in particolare, scrive: “Io non farò questione, se il suicidio si debba considerare sempre come un atto di pazzia; come medico, io credo in coscienza dover rispondere di no” (p. 47).
Tra le categorie più esposte all’influenza dal meccanismo dell’imitazione, nella cui definizione il Livi mostra di non sapersi sottrarre ai pregiudizi più forti della cultura dei suoi anni. Certo bambini, giovani, temperamenti nervosi, ma anche le donne e poi i negri che ”sono certamente la parte meno privilegiata d’intelletto dell’umana famiglia” (p. 26).
Livi descrive poi in modo molto preciso alcuni meccanismi assimilabili a quelli in atto in disturbi che sarebbero poi stati descritti come Sindrome di Ganser, o altri disturbi fittizi: “Non è raro il caso, per esempio, che i simulatori di certe nervee malattie e di certe frenopatie, col ripeterne i modi e gli atti esteriori, finiscano col rimanere presi davvero al brutto gioco” (p. 32).
E si sofferma sul problema dell’esposizione alla malattia mentale come fattore di rischio per gli operatori psichiatrici: “La domanda è: se le persone addette all’assistenza e cura dei malati soffrono nulla in se medesimi di tale contatto (…). Dico che la vista di tante sofferenze fisiche e morali non può a meno di lasciare tristi impressioni, impressioni che non solo addolorano l’animo, ma lo plasmano, dirò così, a quelle stesse passioni, cui la naturale indole più inclina (…). Molti che entrarono da medici nei manicomi, vi finirono malati” (pp. 43-46).
Passiamo così al secondo discorso, che investe la pena di morte in modo più diretto e ne contesta, uno ad uno, quelli che anche al dibattito odierno parrebbero gli argomenti più solidi, che possiamo raggruppare come segue.
- argomenti legati alla giustizia e alla proporzione tra pena e reato: esistono comportamenti tali per crudeltà ed efferatezza, che solo la morte può rappresentare per chi li ha commessi una pena proporzionata. Ma l’essenza stessa della psichiatria ci porta ad obiettare che le abitudini, le opinioni, i comportamenti, in una parola la vita mentale della persona, è caratterizzata dalla possibilità continua di cambiare. Il soggetto che ha messo in atto quei comportamenti può quindi aver maturato, nel tempo che separa la sua cattura dalla condanna, un atteggiamento radicalmente critico verso di essi, o potrebbe maturarlo nel resto della sua vita, se questa non fosse interrotta. La sua condanna a morte, pertanto, non tiene conto del cambiamento se questo è già avvenuto, e può colpire la persona nel momento in cui questa meno lo merita; o le impedisce di maturarlo, perché interrompe, in una con la sua vita, la vita mentale. Scrive il Livi: “La pena, secondo la parola evangelica, non è vendetta, non tormento, non stimma d'infamia inflitto sulla persona del reo: la pena è rivendicazione, grave lunga sì, e dolorosa, di virtù di dignità perduta; è disciplina severa della vita, prova e garanzia di morale abilità e arra di beni per la vita avvenire” (p. 23). Considerazioni, queste, che hanno tanto maggior valore nel caso del delitto commesso nel corso del raptus, o della passione improvvisa, quando: “terribilmente oscura è cotesta malattia la quale non si rivela talvolta che per un fenomeno solo istantaneo, quasi fulmine a ciel sereno, e questo fenomeno è un omicidio! Il malato stesso è un problema, tremendo problema a sé medesimo: imperocché con la parte sana della ragione comprende il male stesso che sì fieramente il travaglia: egli ha paura del proprio braccio, trema delle proprie forze, perché sa che non stanno più agli ordini della volontà” (p. 52). E quindi: “il vero sistema penale è quello che si studia di torre la colpa, mirando co' patimenti a migliorare il colpevole. Ma per far ciò è necessario un elemento, il tempo: e voi questo tempo lo togliete violentemente; e rimandate a Dio, con l'odio, l'ira e il delitto nell'anima, chi forse un'ora o un anno dopo, dopo venti e trent'anni, poteva ritornare all'amore del bene e del vero” (p. 73).
- argomenti legati alla prevenzione individuale: esiste la possibilità che la persona che si è resa responsabile di comportamenti efferati possa ripeterli, e questa possibilità viene soppressa dalla condanna a morte. Ma a un’analisi obiettiva non è possibile non considerare il fatto che la persona sulla quale la condanna viene esercitata è, necessariamente, un prigioniero, e quindi una soggetto completamente ridotto nel potere dello Stato, privo di quella libertà e della possibilità di accedere a quegli strumenti che gli hanno permesso di delinquere. E scrive il Livi: “voi uccidete con un colpo d'ascia o con una corda serrata al collo l'uomo che ha offeso l'altr'uomo: voi convertite così il diritto di punire in diritto di vendicarvi, in diritto di levarvi d'attorno chiunque vi nuoce, in un affare insomma di mera soddisfazione personale o di utilità relativa” (p. 59). Ci si comporta, così, come strani omeopati – osserva ancora – che curano il simile con il simile, ma in quantità sproporzionata rispetto a ciò che basterebbe.
- argomenti legati alla prevenzione generale: il fatto di sapere che comportamenti efferati sono puniti con la morte, può esercitare un effetto di intimidazione, e contribuire a dissuadere chi, in futuro, volesse rendersene responsabile, dal farlo. Numerose ricerche criminologiche, tuttavia, depongono in favore dell’ipotesi che la certezza della pena possa svolgere un effetto preventivo generale maggiore, rispetto alla sua durezza. Ed esistono, poi, almeno altrettanto fondati motivi per ritenere che la pena di morte, in quanto atto di violenza compiuto dallo Stato, possa dar luogo, accanto all’effetto intimidatorio, a un effetto psicologico emulativo, e contribuire a diffondere o rafforzare il convincimento che la violenza rappresenti lo strumento migliore di gestione – al quale lo Stato stesso in condizioni estreme ricorre – quando le relazioni umane diventano eccessivamente complesse. Lo Stato non può essere credibile nel diffondere al suo interno il principio dell’inviolabilità della vita umana, come bene supremo, quando esso per primo si rende, sia pure in particolari circostanze, responsabile di questa violazione. Il Livi si dilunga maggiormente su questo argomento, a confutare il quale era già mirata la lunga premessa sul tema dell’imitazione; e nel ricordare statistiche probatorie del fatto che l’assoluta maggioranza dei condannati a morte riferiva di aver direttamente assistito a esecuzioni capitali, scrive: “il sangue chiama sangue. Si è osservato che i ferimenti, gli omicidi sono frequenti tra i macellai e i cacciatori di mestiere (…). La vista del sangue abitua al sangue” (p. 66). Che esempio edificante può essere mai, del resto, quello del boia, assassino legalizzato, che è sempre “una persona infame”? Che strumento educativo l’impressione destata dallo spettacolo violento dell’impiccagione e della decapitazione, in grado di determinare fenomeni di conversione isterica, malformazioni nel nascituro per impressione della gravida, tendenza all’imitazione attraverso la messa in atto del suicidio o l’omicidio. Conclude quindi il Livi: “non è col terrore che l'uomo si fa buono, non è col reputarlo cattivo che si fa migliore, non è coi mali esempi che si toglie dal male” (p. 78).
Livi sembra consapevole della responsabilità degli intellettuali, e dei medici, a suo dire troppo poco attenti in quella fase, nel dibattito in atto sulla redazione del nuovo Codice, e sul tema della pena di morte in particolare (aveva del resto partecipato in età giovanile alla battaglia di Curtatone e Montanara con il "Battaglione Universitario Toscano"): “oggi non è più il tempo in cui le accademie amino pascersi di vento; oggi la parola che risuona nelle dotte aule non è più destinata, dopo sollecitate per poco le orecchie, a rimanere come eco addormentata sotto queste volte silenti. La idea dee prender forma e nervi e muscoli, deve scendere fuora nella via, percorrere le piazze e i campi, entrare nella capanna e nella reggia, assidersi nell'officina e in parlamento, in una parola dev'essere il verbo della civiltà che si umana per farsi tutto a tutti, per redimere l'uomo dalla servitù dell'errore” (p. 75). Ecco allora il suo invito alle Accademie scientifiche italiane e ai Corpi accademici delle Università, perché si facciano promotori di un’istanza al Parlamento per l’abolizione della pena di morte la cui approvazione avrebbe potuto rappresentare “uno di quegli esempi, che fanno in un giorno camminare l’umanità di secoli nella via del progresso”.
“La sera del 17 novembre del 1888 sarà una data memoranda per l’Italia e forse per l’umanità” scriveva invece Andrea Verga (1811-1895)[iii], psichiatra lombardo a sua volta impegnato in età giovanile nelle Cinque giornate di Milano e fondatore della Società Italiana di Psichiatria, nominato senatore nel 1876. Che cosa era successo? Il giorno che il Livi aveva ventisei anni prima auspicato era giunto e il Senato italiano aveva confermato, con 101 voti contro 33, l’abolizione della pena di morte nel nuovo codice penale dell’Italia unita, proposta dal Ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli (1826-1903) e già approvata a pieni voti dalla Camera[iv]. E Verga proseguiva: “I medici che sono i naturali avversari del carnefice, e vorrebbero esserlo anche della morte se non fosse decretato che tutte le cose che nascono devono morire, prendono interesse per tutto ciò che può avere per conseguenza, anche indiretta, un prolungamento della vita […]. Laonde non è da dubitare che quanti medici conta il Senato italiano, sapendo per prova quanto di rado si riesca a salvare una vita, avranno voluto ad ogni costo trovarsi in Roma il giorno della solenne votazione, felici di sottrarre migliaia di uomini alla morte con la sola deposizione di un voto. Dal canto mio né il lungo viaggio [era di Milano], né la grave età [aveva 77 anni], né la fredda stagione valsero a impedirmi di compiere quello che io credevo un mio preciso dovere. Fin dai primi anni della mia carriera medica io mi interessai della pena di morte e la considerai col semplice buon senso, avvalorato da qualche lume di fisiologia e psicologia; e sempre essa mi parve un viluppo di contraddizioni, un anacronismo scandaloso, una barbarie oltreché inutile dannosa, una mostruosità ripugnante alla scienza e alla coscienza di un popolo civile”.
Anche il Verga si concentra soprattutto sulle finalità di prevenzione generale che alla pena di morte sono attribuite, per osservare come nonostante la pena di morte fosse stata abolita in Finlandia dal 1826, in Louisiana (1830), a Thaiti (1831), nel Michigan (1846), in alcuni stati tedeschi (1849 e 1862) nel Rhod Island (1852), a S. Marino e in Toscana (1859), in Romania (1860), in alcuni cantoni svizzeri (1863) e in Colombia (1864), poi in Olanda, le statistiche dimostrassero che non si era osservato un aumento dei delitti. E lo stesso si era visto accadere in Belgio e in Italia, dopo che Leopoldo II e Umberto I si erano rifiutati entrambi di firmare, pur a pena di morte ancora vigente, esecuzioni capitali. “La frequenza dei delitti” – osserva oltre del resto con grande lucidità e consapevole modestia il Verga – “dipende da un’infinità di cause, molte delle quali ci sono ignote”.
Ripresi gli argomenti del Livi e di altri sugli effetti negativi dello spettacolo della pena di morte e il rischio di determinare fenomeni di imitazione – limitato però, a suo dire e in polemica col Livi (e qui ci si rende conto dei ventisei anni trascorsi, e della maggior importanza assunta dall’orientamento organicista e dal riferimento, divenuto irrinunciabile e destinato a rimanere tale fino a dopo la Seconda guerra mondiale, alla predisposizione costituzionale), agli individui predisposti – si sofferma sul modo in cui il condannato può affrontarla: con la fierezza indomabile dell’eroe, e quasi in tono di sfida, o con la rassegnazione del martire, ma più frequentemente terrorizzato: “costoro hanno i sudori dell’agonia, il pallore della morte, non vedono, non odono, non sentono più nulla; bisogna portarli di peso sul luogo del supplizio; sono cadaveri e solo respirano affannosamente, rendendo grosso il respiro anche agli spettatori. Ci sarebbe da discutere se sia lecito sottoporre un uomo in tale abbattimento fisico e morale a una pena qualsiasi”. Più insopportabile ancora lo spettacolo quando: “il condannato giunto al cospetto dello strumento del supplizio, sia che un subito spavento lo faccia cadere in frenesia, o che una folle speranza lo inciti a un ultimo tentativo, fa indicibili sforzi per rompere i lacci, e si avventa contro il carnefice e lo morde e lo graffia e rugge e si rotola sul palco e costringe il carnefice a reagire con atti di brutale violenza”. Quale finzione di prevenzione generale, allora? Piuttosto un atto destinato a evocare ammirazione verso la vittima per il coraggio dimostrato o un’immensa compassione per l’oppresso. E proprio nella necessità, sempre più spesso avvertita, di nascondere l’esecuzione, di renderla rapida, asettica e indolore (erano gli anni in cui veniva introdotta negli Stati Uniti la sedia elettrica), Verga coglie l’ulteriore confutazione della sua funzione preventiva generale. E nei tormenti psicologici dei giorni precedenti l’esecuzione, l’aspetto più crudele e disumano. Nel rischio della condanna di un innocente, o di un’errata valutazione delle condizioni psichiche al momento del compimento dell’atto criminoso, coglie poi due eventualità, che la pena di morte rende irreversibili, da prendere entrambe in considerazione.
Il 20 novembre 1885 aveva avuto luogo a Roma il primo Congresso internazionale di antropologia criminale, schierato su posizioni diametralmente opposte, al termine del quale era stato approvato un l’ordine del giorno decisamente favorevole agli orientamenti della scuola positiva di Cesare Lombroso in tema di pena di morte e del tutto antiabolizionista: “Il congresso, considerando che l’evoluzione accade per mezzo della selezione e che la pena di morte rappresenta precisamente l’eliminazione dal corpo sociale degli elementi nocivi, dichiara che questa pena è consona ai principi naturali antropologici”.
Argomenti, questi, ripresi dal magistrato Raffaele Garofalo (1851-1934) che nel 1888 su Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale fondato da Cesare Lombroso e da questi codiretto con lo stesso Garofalo, Enrico Ferri ed Enrico Morselli, contestava, con piena approvazione di Lombroso, le statistiche relative al mancato aumento della criminalità in Italia dopo la cessazione di fatto delle esecuzioni capitali, l’efficacia intimidatoria reale delle pene detentive e soprattutto la possibilità di sentimenti di compassione da parte del popolo verso il condannato a morte, in rapporto con la rapidità dell’atto e con la difficoltà per l’uomo onesto di identificarsi con il criminale. Ma anche con il fatto che: “quando l’azione crudele” – è ad esempio il caso del chirurgo – “ è commessa per uno scopo altruistico, essa non offende il nostro senso morale”.
L’abolizione della pena di morte porta inevitabilmente con sé, per Garofalo, in omaggio al principio della gradualità delle pene, una mitigazione a valanga di tutte le altre; e a fronte di circa ottanta sentenze di condanna a morte all’anno allora in Italia, oltre cinquemila ergastolani popolavano le carceri italiane, generando costi per la collettività, comprensiva dei parenti delle loro vittime. Essa interrompe, nella coscienza del popolo, “il legame che nella sua coscienza esisteva tra la morte dell’innocente e quella dell’assassino”, e ne depotenzia l’effetto intimidatorio della pena per tutti e, in particolare, per il vero “delinquente nato”, una categoria criminologica con la quale la scuola lombrosiana si riferiva a chi era costituzionalmente determinato al delitto e privo di freni morali, il quale: “non riconosce altra pena che quella di morte. La minaccia della quale potrà poi scuoterlo più o meno, essere anche da lui arditamennte sfidata, ma è pur certo che quella soltanto sia atta a fermare il suo pensiero, e a paralizzare, qualche volta almeno, i suoi impulsi non frenati dal senso morale”.
Nel corso del suo scritto Verga polemizza duramente con le impostazioni della scuola lombrosiana, e proprio con riferimento al Congresso romano del 1885 rigetta la metafora per cui lo Stato dovrebbe liberare il corpo sociale da un suo membro infetto, come il chirurgo libera il corpo dalle membra infette e irrecuperabili in questi termini: “il chirurgo può dire quando una parte del nostro organismo è insanabile, dove nessuno può assicurare che un malvagio sia assolutamente inemendabile. Il chirurgo non si decide ad operare se non quando una parte è assolutamente di danno e di pericolo al resto. Ma qual danno, qual pericolo può recare un reo alla società, se da questa viene separato, e passa il suo tempo in lavori utili alla società stessa?”.
Tre note, ancora, di contestualizzazione. La prima riguarda la capacità di sottrarsi, da parte del Verga, all’esigenza, comune a gran parte degli abolizionisti a partire da Beccaria (1766) – che, peraltro, all’abolizione della pena di morte prevedeva due eccezioni – e a gran parte delle legislazioni nelle quali la proposta era stata recepita, di accompagnare l’abolizione con un inasprimento delle pene a essa alternative. L’atteggiamento di Verga appare molto più coerente, quando sostiene che naturale contesto per l’abolizione della pena di morte è una mitigazione complessiva delle pene, che il codice Zanardelli infatti realizzava, pur in assenza di un incisivo intervento sulla disumana realtà delle carceri sabaude, che sarebbe stato anch’esso necessario. Non sfugge, in secondo luogo, in tutto l’argomentare del Verga rispetto a quello del Livi, l’acceso antipapismo comune all’esasperarsi nella seconda metà dell’Ottocento della polemica propria della cultura risorgimentale italiana. E desideriamo, infine, segnalare per l’originalità rispetto ai pregiudizi che caratterizzavano in quegli anni l’incontro tra europei e popolazioni coloniali (Bégué, 1996) il suo riferimento accidentale a un rapporto del generale Chanzy sull’Algeria francese, dove, pur in presenza di uno stesso codice penale, veniva riportato che le condanne colpivano un europeo su tremila, un ebreo su undicimila e un musulmano su ventiduemila, dimostrando a suo parere come siano dunque le caratteristiche antropologiche, sociali, culturali a influire sulla frequenza dei delitti, molto più che non le, più o meno severe, previsioni del codice penale.
Il testo prosegue con l’analisi del dibattito in corso in quello stesso anno negli Stati Uniti sull’introduzione della sedia elettrica; nella convinzione che la necessità non sia in quel momento un rinnovamento della tecnica di esecuzione, ma dell’impostazione generale del problema e quindi in definitiva un’adesione all’auspicio, anche per gli Stati Uniti come per l’Italia: “Morte alla morte legale!”.
Un piccolo passo in questa direzione è stato fatto oggi, a oltre un secolo di distanza dalle parole di Verga, con l’abolizione della pena di morte nel 23.o Stato degli Stati Uniti, e primo tra quelli del Sud, a farlo: la Virginia. Aspettiamo che i rimanenti 27 seguano l’esempio!
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Beccaria C. (1766): Dei delitti e delle pene, V Edizione, Milano, Feltrinelli, 1991.
Bégué J.M. (1996): French psychiatry in Algeria (1830-1962): from colonial to transcultural, History of psychiatry, 7, pp. 533-548.
Garofalo R. (1888): Pena di morte, Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente, 9, pp. 135-144.
Livi C. (1862): Contro la pena di morte. Ragioni fisiologiche e patologiche. Discorsi due letti dal socio Carlo Livi professore di Medicina Legale nella Regia Università di Siena, Atti della Reale Accademia dei Fisiocratici, Serie II, 5, Siena, Tip. Meucci, Classe di Scienze Fisiche, 23-83.
Maylander M. (1976): Storia delle Accademie d’Italia,Firenze, Forni, pp. 18-26.
Peloso P.F (2012): Le radici risorgimentali della psichiatria italiana, in: AA. VV., Progresso scientifico e sapere accademico nella costruzione dello Stato. Riflessioni a 150 anni dall’Unità d’Italia (a cura di P. Massa e G.B. Varnier), Genova, Brigati, pp. 157-176.
Peloso P.F., Dening T. (2009): The abolition of capital punishment: contribution from two nineteenth-century Italian psychiatrists, History of Psychiatry, 20, 2, pp. 215-225.
Verga A. (1889): La pena di morte in Italia e negli Stati Uniti d’America, in: Studi anatomici sul cranio e sull’encefalo, psicologici e freniatrici, Milano, Manini Wiget, 1897, vol. III, pp. 544-573.
Nell’immagine: scorci dalla Virginia (USA)
Nel video allegato: L’abolizione della pena di morte in Italia
[i] Carlo Livi, allievo del clinico Maurizio Bufalini e del medico legale Francesco Puccinotti, si laureò in Medicina a Pisa e partecipò nel 1848 alla battaglia di Curtatone e Montanara con il "Battaglione Universitario Toscano". In seguito divenne per sedici anni direttore del manicomio di Siena, insegnando Igiene e Medicina Legale. Favorì la nomina al San Lazzaro di Reggio Emilia di Ignazio Zani (1836-1873), che però morì a soli 37 anni. Gli furono quindi offerte la cattedra di Psichiatria a Modena e la direzione del San Lazzaro, che tenne dal 1873 al 1877, data della morte. In pochi anni, sotto la sua direzione il vecchio manicomio, che già Zani e prima Galloni avevano migliorato e umanizzato, divenne un centro di studio (nel 1874 il Ministero della Pubblica Istruzione lo scelse come Istituto Clinico di Perfezionamento per lo Studio delle Malattie Mentali) e di elaborazione di tecniche terapeutiche allora innovative. Nemico della contenzione fisica dei pazienti, Livi fondò al S. Lazzaro un Museo delle anticaglie dove raccolse tutti i cervellotici strumenti di contenzione della psichiatria del primo Ottocento, ancora in uso in quegli anni ma a suo avviso indegni dell’assistenza dovuta ai malati mentali. Sulla figura del Livi cfr. la recensione del volume Un uomo tutto intero. Biografia di Carlo Livi, psichiatra dell’Ottocento di Martina Starnini (Firenze University Press, 2019) nell’articolo Leggere 2019. Il contesto storico e sociale, in questa rubrica.
[ii] L’Accademia dei fisiocratici di Siena, tuttora attiva, nacque nel 1690 per iniziativa del medico teorico e botanico senese Pirro Maria Gabrielli (1643-1705) che assunse poi il nome arcadico di Eufisio Clitoreo. Alla sua fondazione si stabiliva che le relazioni si tenessero in lingua toscana, riguardassero principalmente argomenti di scienze naturali, filosofia e medicina e non dovessero durare più di mezz’ora, per non tediare gli astanti. Nel 1700 si trasformò in Colonia d’Arcadia, e perse gradatamente il suo carattere scientifico fino al 1759, quando fu rilanciata da Pompeo Neri, ministro del granducato Toscano e iniziò nel 1781 la pubblicazione, non regolare, degli Atti e si valse, a partire dalla fine di quel decennio, della protezione del granduca Leopoldo. Ebbe tra i suoi soci in quel periodo nomi illustri, quali Mascagni, Baglivi, Muratori, Metastasio, Linneo, Morgagni, Vallisnieri e, importante per noi, Cesare Beccaria che rivolgeva, nel maggio 1769, una lettera lusinghiera per ringraziare della nomina. Ottenuta nel 1816 una sede più prestigiosa, proseguì la propria attività fino al 18148, quando le interruppe fino al 1862, quando il Livi tenne i propri discorsi e ripresero l’attività e la pubblicazione degli Atti (Maylander, 1976).
[iii] Andrea Verga, di umili origini, si laureò in medicina a Pavia, si dedicò alla cura del colera lombardo del 1836, si occupò a Pavia di anatomia e neurofisiologia. Nel 1841 si trasferì al manicomio privato di S. Celso in Milano; dopo le Cinque giornate di Milano, alle quali prese parte, fu nominato direttore del grande manicomio milanese della Senavra, ove si ispirò a criteri di umanità e di cura, per le sue simpatie liberali, conservando l'incarico nonostante il ritorno degli austriaci dal 1848 al '52. Nel 1862 approfittò del congresso degli scienziati italiani di Siena per avanzare una proposta di legge psichiatrica, che sarebbe stata varata dal Parlamento italiano soltanto nel 1904. Nel 1865 inaugurò l'insegnamento della Psichiatria all’Università di Milano. Nel 1873 fondò una sottosezione psichiatrica all'XI Congresso degli scienziati italiani, primo embrione della Società Freniatrica Italiana, poi Società Italiana di Psichiatria, e ideò una Società di patrocinio per gli alienati poveri. Senatore del Regno dal 1876, continuò a battersi per una legge regolativa dell'assistenza psichiatrica, per l'abolizione della pena di morte, per l'istituzione dei manicomi criminali e per una giustizia attenta alle circostanze psicologiche e sociali in cui era maturato il delitto. Fondò nel 1852 una Appendice Psichiatrica alla Gazzetta medica italiana e nel 1862 un Archivio Italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali.
[iv] Il governo fascista avrebbe poi reintrodotto nel 1926 la pena di morte nel codice penale italiano, e la avrebbe confermata nel nuovo Codice penale, redatto dal ministro Alfredo Rocco (1875-1935) nel 1930. Dopo la Liberazione, la pena di morte fu ancora una volta abolita nel 1947 con esclusione del Codice militare in tempo di guerra, e senza nessuna eccezione dal 1994.
Pena di morte. Un problema
Pena di morte. Un problema drammaticamente attuale… Dal rapporto di Amnesty International sul 2020:
Nonostante la pandemia da covid-19 alcuni stati hanno proseguito senza sosta condanne ed esecuzioni.
Tra gli stati che hanno messo a morte il maggior numero di persone figurano l’Egitto, che ha triplicato le esecuzioni rispetto al 2019, e la Cina che in almeno un caso ha applicato la pena di morte per reati relativi alle misure di prevenzione della pandemia. Negli Usa, l’amministrazione Trump ha ripristinato le esecuzioni federali dopo 17 anni mettendo a morte 10 condannati in meno di sei mesi. India, Oman, Qatar e Taiwan hanno a loro volta eseguito condanne a morte.