MI VERGOGNO: CIÒ CHE NON SO RACCONTARE
La vergogna, un sentimento sempre più presente in psicoterapia. Spesso mi capita di venire in contatto con “nuclei bui” della personalità del paziente che non hanno la carica rigenerante della nevrosi, né il freddo del nucleo psicotico. Sono zone amorfe che il paziente etichetta con un’unica parola: vergogna. Tutti i pazienti in cui ho trovato questi nuclei esprimono all’unisono questa sgradevole sensazione: “provo vergogna”. Essi non sanno di cosa si vergognino, né da quando, ma si sentono contaminati, da sempre.
LA VERGOGNA IN LETTERATURA
In letteratura non c’è molto sul tema della vergogna e condivido quello che diceva Eugenio Gaburri, Psicoanalista della SPI: “La questione delle aree di “indifferenziazione” della personalità pone molti problemi, clinici e teorici che sono stati scarsamente accennati da Freud “. Scrive ancora Gaburri: “Nella clinica, situazioni di “non contatto” che appaiono come aree cieche, di diniego o addirittura aree a cavallo tra biologico e psicologico, possono avere a che fare con l’indifferenziato. In questi casi non si ha tanto a che fare con “difese” dell’Io o con conflitti rimossi ma piuttosto, con aree la cui nascita psicologica non si è mai del tutto realizzata.” (Conferenze SPI 2009).
LA VERGOGNA E L’INDIFFERENZIATO
L’immagine “dell’indifferenziato” che è così suggestiva, ha in sé tutta la forza dell’ambivalenza. Essa infatti è sia potenzialmente distruttiva, ma anche la sede del nuovo e del rigenerato. Lo possiamo capire se pensiamo all’equivalente biologico, alle cellule indifferenziate, quelle che vengono chiamate “staminali”. Sono cellule, e i medici lo sanno bene, che possono degenerare in tumori, ma che nel contempo sono “l’humus”, la base dove ogni tessuto prende per crescere e rigenerarsi.
Qui, il biologico e lo psicologico si fondono assieme nella continua lotta contro la tentazione all’autodistruzione e la vittoria della rigenerazione, della vita.
LA VERGOGNA HA COME GENESI UNA SOSPENSIONE DELLA FUSIONALITÀ CON LA MADRE
Forse Bion si era avvicinato più di ogni altro alla comprensione. Egli infatti ci ha spiegato di come la madre sia continuamente chiamata ad elaborare ciò che il figlio “vomita” come “cattivo” e a ridarglielo come “cibo buono”. Mi ha sempre affascinato guardare queste madri, alle quali la natura ha fornito una pazienza quasi inesauribile, raccogliere una, due, cento volte il giocattolo che il bambino butta e ridarglielo. Raccogliere il piatto che il figlio ha fatto volare, pulire e con un sorriso continuare a farlo mangiare. Nulla sembra poter interrompere questo ciclo virtuoso: il bambino “butta fuori“, agisce “cose cattive” e la madre gli ritorna “cibo buono“.
In fondo, è ciò che fa “ madre terra”, prende le nostre “scorie” e le trasforma in cibo buono: piante, fiori e frutti.
Ma, il ciclo di elaborazione figlio-madre-figlio ad un certo punto si può interrompere, così per lo meno percepisce il bambino. Egli sente che qualcosa di “cattivo” gli rimane dentro, non viene elaborato dalla madre.
I clinici vedono in questo la genesi di alcuni comportamenti autistici ma a mio avviso, senza entrare nello psichiatrico, è possibile reperirlo nella genesi di alcune nevrosi strutturate come l’ipocondria. L’ipocondriaco è una persona che teme, sente di essere ammalata, crede di avere qualcosa dentro di sé che “non va bene”. La nevrosi ipocondriaca diventa allora una difesa dell’Io rispetto a qualcosa di antico, profondo e temibile: l’indifferenziato.
Il terapeuta che si confronta con questi nuclei non ha nessuno strumento verbale per aiutare il paziente ad elaborarli. Sono nuclei pre-verbali che richiedono solo un approccio empatico. Lui deve imparare dalle “madri”: farsi semplice e in armonia, come la natura.
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