Primo intervento introduttivo ai lavori dell’Area 6 “I percorsi di presa in carico. Buone e cattive pratiche” della II Conferenza nazionale “Per una salute mentale di comunità”, Roma, 25-26 giugno 2021.
Il 25 e26 giugno si è svolta a Roma, ma da remoto in realtà in tutta Italia, la II Conferenza nazionale “Per una salute mentale di comunità”, in occasione della quale ho ricevuto l’incarico di coordinare, insieme a Giovanna Del Giudice la quale ha svolto il secondo intervento introduttivo, i contributi relativi all’Area 6 “I percorsi di presa in carico. Buone e cattive pratiche”. In attesa di rendere conto, in un prossimo intervento, di alcune mie considerazioni generali sulle cose emerse dalla Conferenza nel suo insieme, vorrei riprendere qui, e in qualche caso ampliare, i contenuti del mio contributo, che mi è parso che, da psichiatra operatore del servizio pubblico quale io sono, dovesse consistere nel riprendere i punti salienti della riflessione che nei servizi è maturata a questo riguardo, negli anni ’70-’90 in modo particolare. Mi sono inoltre rifatto, in qualche caso aggiornandone e ampliandone i contenuti a distanza di vent’anni, a un articolo che avevo pubblicato su questo tema con Panfilo Ciancaglini e Luigi Ferrannini sulla Rivista Sperimentale di Freniatria diretta in quel momento da Fabrizio Asioli.
Definizioni di “presa in carico”
In quell’occasione, definivamo la Presa in carico come l’insieme delle operazioni complesse che un’équipe multiprofessionale mette in atto quando una persona che è andata incontro a un episodio di «malattia mentale» (uso questo termine pur consapevole delle approssimazioni che l’applicazione del concetto di malattia alla mente rende necessarie e dei fraintendimenti cui può dare luogo) si rivolge in prima persona, o viene segnalata da terzi, al Dipartimento di Salute Mentale per una richiesta di intervento, che in rapporto al tempo può essere più o meno urgente e far prevedere una prospettiva più o meno prolungata; in rapporto alla complessità può presentare una dimensione di carattere prevalentemente tecnico-relazionale o riguardare più dimensioni della vita (casa – lavoro – qualità della vita).
La complessità della “Presa in carico” riguarda il fatto che singoli atti di carattere tecnico-professionale ed emotivo hanno luogo tra più operatori e il sogetto, i suoi familiari e i soggetti istituzionali e associativi attivi nella comunità, e che tutti questi atti devono essere raccordati da una funzione gruppale all’interno di un progetto di cura comune, definito con il soggetto (preferisco qui il termine “soggetto” ad altri possibili, per sottolinearne il ruolo attivo, purché non si dimentichi però che è di un soggetto sofferente che stiamo parlando) e con i soggetti terzi che possono interferire in senso positivo o negativo con il suo benessere.
Distinguevamo inoltre il concetto di presa in carico, cioè il prendersi cura in modo continuativo nel tempo di una persona da parte del servizio, dai trattamenti, che rappresentano i singoli interventi attuati dal servizio nei diversi momenti nei quali la presa in carico si articola.
Mi pare utile riprendere alcune definizioni di «presa in carico» che possono aiutare ad evidenziare alcuni problemi ai quali la Presa in carico può andare incontro.
La prima è di Arnaldo Ballerini (1994), il quale parla di “momento attraverso il quale un gruppo di lavoro opera una selezione rispetto all'utenza e, al tempo stesso, consolida la propria identità”.
La seconda di Bruno Norcio (1994): “capacità di occuparsi contestualmente della dimensione simbolica e della materialità, dell’esistenza del soggetto” (ho ascoltato questa definizione durante un suo intervento a un convegno che si svolgeva a Pisa, e devo confessare che nel ritornarvi oggi con la mente provo nostalgia per il fatto che possa essermi capitato di ascoltare l’intervento di un “triestino” nell’ambito di un convegno organizzato dal più biologico degli istituti universitari italiani).
La terza di Vanna Berlincioni e Fausto Petrella (1997): “assunzione di responsabilità da parte di un'equipe nei confronti di un'utenza territoriale definita”.
La quarta di Paolo Ambrosi e Fausto Petrella (1998): “momento cruciale in cui l'équipe definisce la sua identità culturale e tecnica in relazione alle esigenze e alle pressioni, ambigue e contraddittorie, del territorio".
Primo problema: chi «prende in carico?»
Cioè chi è il soggetto della presa in carico? Mi pare che le risposte possano essere due.
La prima è Il Dipartimento di Salute Mentale nelle sue diverse articolazioni, che per poter “prendere in carico” deve essere un soggetto forte in organici e in risorse, autenticamente impegnato nella propria missione che è quella di promuovere la salute mentale all’interno di un territorio definito occupandosi in primo luogo di chi soffre maggiori problemi in quell’ambito.
La seconda è La comunità alla quale il soggetto appartiene, che per prendere in carico i suoi membri deve essere una comunità in senso proprio, non una mera convivenza come ha osservato oggi Benedetto Saraceno, e quindi un soggetto collettivo interessato al benessere di tutti coloro che si trovano, anche informalmente, sul suo territorio.
In realtà questa è una falsa alternativa, e la delega di uno dei soggetti all’altro è una trappola, o se si preferisce è la madre delle cattive pratiche. Lo è l’illusione che investire in un servizio forte basti a risolvere tutti i problemi di salute mentale che possono manifestarsi nelle aree più disparate, nelle famiglie, nei caseggiati, rispetto alla scuola e al lavoro, rispetto alla povertà ecc. Lo è l’ilusione che una comunità solidale possa da sola – senza la presenza cioè di un servizio sufficientemente attrezzato in organici e risorse e formato nel sapere, capace anche di autocritica, che i secoli hanno maturato intorno alla follia nell’infinita possibilità delle sue espressioni – risolvere tutti i problemi che la salute mentale dei suoi membri può incontrare, rispetto ai quali la solidarietà senza tecnica, spesso non basta.
Quindi, in una prospettiva di «rete», certo della presa in carico dovrà essere in primo luogo il DSM a sentirsi investito, ma anche il soggetto con le risorse che è in grado di mettere in campo, le altre istituzioni del territorio, i gruppi di autoaiuto e le associazioni, gli altri interlocutori che è possibile individuare nella comunità. Ed è perciò che in questa occasione contribuiscono al nostro ragionamento interlocutori che hanno più a che fare con il mondo dei servizi, e altri che hanno più a che fare con la comunità e il terzo settore. E che nella loro eterogeneità sono stati sintetizzati da Morena Furlan e costituiscono un piccolo campione della pluralità e l’ampiezza delle aree nelle quali la presa in carico ha necessità di articolarsi e dell’eterogeneità dei soggetti che devono essere coinvolti. Più sul versante delle istituzioni e dei servizi si collocano gli interventi di Giovanni Fassone sulle Linee guida della Società italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva; Anna Maria Accetta del CSM di Settimo Torinese (che ricordo che nel 2003 mi coinvolse in un interessantissimo convegno su questo tema) su La gestione territoriale della crisi: una pratica d’équipe; Flavio Lipari sull’esperienza dell’Associazione “Alice nello Specchio –IESA”, che si occupa di affidi eterofamilgiari e gestisce una rubrica su questa rivista (vai al link); Giovanni Rossi, già primario del DSM di Mantova, sull’esperienza dell’Associazione Club “SPDC no restraint”; Michele Sanza primario dell’AUSL della Romagna su Il Programma della Regione Emilia Romagna sui disturbi gravi di Personalità; Roberto Carrozzino e Marcello Macario, primario e psichiatra del DSMD di Savona sul Dialogo Aperto. Più sul versante dei soggetti e della comunità quello di Silvia Bon di Trieste sull’esperienza della Rete Nazionale Utenti collegata all’UNASAM; Maria Rosa Santomauro, dell’Associazione Rete Utenti Salute Mentale Lombardia, sul Peer support; Emanuele Bruno sull’esperienza del Recovery College di Ivrea; Riccardo Fabretti sull’esperienza della Cooperativa AMICO; Maria Cristina Soldi sulla tragica esperienza personale del TSO ad Andrea, un episodio del quale ci siamo occupati agli esordi di questa rubrica (vai al link); e un po’ a cavallo tra servizi e comunità quelli di Renzo De Stefani, già primario del DSM di Trento, sull’esperienza dell’Associazione “Le parole Ritrovate” e quello di Grazia Zuffa del Comitato di Bioetica sul Protocollo aggiuntivo al Protocollo di Oviedo.
Secondo problema: chi viene «preso in carico»? Cioè qual è l’ampiezza della presa in carico?
A questa domanda, ciascun servizio e ciascuna comunità possono rispondere, in modo più o meno consapevole e più o meno esplicito, in vari modi sui quali mi pare utile riflettere:
- Coloro che ne fanno richiesta perché lamentano una condizione soggettivamente avvertita di sofferenza e/o di difficoltà
- Coloro che ne fanno richiesta e soffrono di una condizione che corrisponde a ciò che può essere grossolanamente definito una «malattia mentale»
- Coloro che ne fanno richiesta – o per i quali qualcuno ne fa richiesta (e soffrono di una condizione che corrisponde a ciò che può essere grossolanamente definito una «malattia mentale»)
- Coloro che soffrono di una condizione che corrisponde a ciò che può essere grossolanamente definito una «malattia mentale», anche se non ne fanno richiesta né loro stessi né nessun altro (il servizio e/o la comunità si organizzano cioè per «cercare» attivamente il bisogno al quale devono rispondere, e tendono a fare prevenzione secondaria attraverso l’identificazione precoce e l’intervento in favore di chi potrebbe andare incontro a più seri problemi di salute mentale)
Terzo problema: presa in carico, tempo, luoghi e la questione della «continuità terapeutica»
La continuità terapeutica rappresenta la capacità della presa in carico di durare nel tempo e nei diversi luoghi nei quali è erogata la cura, evolvendo con l’evolvere dei bisogni e delle potenzialità del soggetto; Arnaldo Ballerini (1994) suggerisce di prenderne in considerazione cinque dimensioni, su ciascuna delle quali mi pare utile soffermarci:
1. continuità temporale (longitudinale): costanza temporale della presenza del servizio, la sua «fedeltà» rispetto al soggetto, alla famiglia e alla comunità;
2. continuità individuale: grado di personalizzazione della presa in carico nella relazione operatore/soggetto rispetto alla presa in carico diffusa da parte del servizio;
3. continuità trasversale: unitarietà di stile, di cultura e di progetto tra i diversi momenti, luoghi, soggetti dell'intervento. Mi pare che questa situazione sia più facilmente risolta nel modello CSM h24, dove non è tanto importante l’orario di apertura, quanto piuttosto a mio parere il fatto che il luogo dove si passa (CSM), quello dove si sta (centro diurno), quello dove si dorme anche (SPDC, centro-crisi), e l’équipe che di questi momenti/luoghi si occupa sono condensati in uno solo;
4. rapporto tra continuità e flessibilità: capacità cioè del servizio e della comunità di offrire diverse possibilità di intensità e di modalità di presa in carico, capaci di cambiare in rapporto alla domanda e alla sua evoluzione nel tempo, considerata dal punto di vista sia del soggetto, che del servizio, che di terzi interessati;
5. rapporto tra continuità e relazione: centralità cioè della dimensione affettiva dell’intervento (il clima in cui avviene) rispetto agli aspetti più tecnici e concreti.
Relativamente al punto 2 e 5, vorrei proporre qui un approfondimento che in occasionme dell’esposizione orale la necessità di stringere (senza molto successo in verità…) i tempi non ha reso possibile: a chi il soggetto cioè si sente in carico? A un operatore (che in genere, per i soggetti più in difficoltà, io credo debba essere in primo luogo lo psichiatra, ma immagino che non tutti siano d’accordo), il che va incontro all’esigenza di garantire alla cura la natura di una relazione personale, l’incontro spirituale profondo cioè tra due persone come scrive Binswanger, e riprende tra noi Eugenio Borgna? All’équipe del CSM, che si presta meglio a garantire continuità e collegialità rispetto al singolo operatore? O alla comunità, che ha più opportunità e risorse per rispondere a bisogni diversi, a molti dei quali il DSM da solo non potrebbe comunque arrivare?
Io credo che questa sia forse una falsa alternativa, e la presa in carico potrebbe essere rappresentata come la compresenza di tre cerchi concentrici: nel primo dei quali stanno i due protagonisti dell’incontro, l’operatore (lo psichiatra?) e il soggetto; nel secondo dei quali i comprimari, sul versante dell’operatore l’équipe, e su quello del soggetto, quando c’è, la famiglia; nel terzo e più largo dei quali si colloca, sul versante di entrambi, la comunità con tutti i molteplici attori che in essa si muovono. Mi pare questo un modello possibile, sul quale si potrebbe discutere.
Quarto problema – Esiste una selezione (più o meno consapevole) di chi può godere/(deve soffrire direbbero gli antipsichiatri) di una presa in carico più intensa?
Indubbiamente questa selezione esiste, ma non sempre è consapevole né esplicita; e mi pare che alcune risposte, sulle quali occorrerebbe che ciascun servizio e ciascuna comunità riflettessero, potrebbero essere:
- Chi ne ha maggiormente bisogno, in base a una valutazione che aspira a essere «oggettiva» perché fondata su criteri stabiliti a priori (dal servizio, dal servizio con le associazioni di utenti e familiari, da costoro con la comunità – locale, regionale, nazionale, internazionale)
- Chi ne fa maggiore richiesta ma non ne ha necessariamente più bisogno, cioè chi «si lamenta di più» (è un tema sul quale insisteva Fausto Petrella, che della vita dei servizi e delle comunità aveva grande esperienza fin dai primi anni ‘70)
- Chi è più sostenuto nella sua domanda dall’advocacy da parte di una famiglia o di altri soggetti (più facile quindi l’abbandono per chi vive solo, è straniero ecc.)
- Chi fa intravedere migliori prospettive di successo della presa in carico (p. es. molti servizi stanno concentrando risorse sui giovani, che è noto fin dalla metà dell’Ottocento e confermato dalla ricerca recente che hanno migliori prospettive di guarigione, ma bisognerebbe sempre discutere su quanto è lecito che qesto lasci scoperti altri soggetti…)
- Chi si comporta in modo più fastidioso e/o «pericoloso» secondo la famiglia, la comunità, o il magistrato, ed evoca perciò maggiori lamentele e «rischi legali» per il servizio
- Chi non può essere «scaricato» su altri servizi o altre agenzie (esclusione p. es. di soggetti a doppia diagnosi verso i SerT, autori di reato verso il circuito penale ecc.)
- Chi manifesta bisogni meno complessi e meglio corrispondenti all’offerta del servizio e del sistema complessivo di welfare della comunità (la domanda, cioè, o l’offerta come regolatori della presa in carico?)
- Chi si presenta come caso più interessante e desta curiosità rispetto alla formazione, all’identità, alle aspirazioni degli operatori di quel servizio
- Chi è più simpatico, più grato, fa meno paura e/o tende meno a entrare in conflitto col servizio e/o la comunità, e a sottrarsi alla presa in carico (coloro che soffrono di un disturbo della personalità del cluster B sono più a richio di espulsione per queste ragioni)
Quinto problema: ampiezza e intensità della presa in carico: cosa fanno il servizio e la comunità per chi è in carico?
Anche in questo caso, una risposta esiste sempre, ma non sempre è consapevole né esplicita; e alcune risposte potrebbero essere:
- Offrire solo interventi di carattere diagnostico e terapeutico
- Il precedente più occuparsi del rischio di solitudine che accompagna la «malattia mentale» offrendo interventi a carattere ricreativo/riabilitativo all’interno dei servizi
- I precedenti più sostenere i soggetti in carico nel mobilitare, individualmente e in gruppo, le proprie risorse per risolvere i problemi connessi alla qualità della vita, all’abitare e al lavoro (promozione dell’autoaiuto)
- I precedenti più sostenere le famiglie perché si rendano soggetti attivi nello sforzo di aiutare il soggetto per risolvere i problemi connessi alla qualità della vita, all’abitare e al lavoro
- I precedenti più operare nella/con la comunità per identificare e mobilitare risorse utili a sostenere i soggetti e le famiglie nello sforzo di aiutare il soggetto per risolvere i problemi connessi alla qualità della vita, all’abitare e al lavoro (“la città che cura”)
- Tutti i precedenti più operare nella comunità per contrastare l’esclusione (lotta allo stigma), per favorire l’accesso precoce ai servizi e prevenire l’istituzionalizzazione
Sesto problema – Quale rapporto tra presa in carico e TSO?
Il rapporto tra presa in carico e TSO è complesso, perché da un lato una buona presa in carico riduce la probabilità di trovarsi di fronte a momenti di urgenza, e dovrebbe far maturare tra servizio, soggetto, famiglia e comunità un clima di fiducia che favorisca decisioni condivise. Dall’altro, l’esclusione a priori della possibilità di momenti di valutazione disgiunta rischierebbe di essere il segno di un’eccessiva dipendenza del soggetto dal servizio e del venir meno di quella «reciproca contestazione» che costituiva per Franco Basaglia il miglior antidoto al paternalismo medico (certo, qualcuno potrebbe obiettare che è paradossale citare proprio Basaglia a sostegno del TSO, viste le perplessità che ha espresso a questo riguardo; ma credo che quelle perplessità siano da riferire al timore di un’inflazione del TSO come strada più sbrigativa al ricovero, un timore che – e questo va certamente a merito dei servizi – si è almeno finora dimostrato infondato). O potrebbe essere anche il segno di un’insufficiente esercizio da parte del servizio della «funzione tutoria» (Castelfranchi, 1995) alla quale è tenuto: pazienti cioè mai obbligati perché, di fatto, abbandonati a se stessi o a provvedimenti coercitivi di altro genere (giudiziari p. es.). Mi pare che il numero di TSO pertanto sia, rispetto alle buone o cattive pratiche, un indicatore ambiguo.
Ma comunque, rispetto al TSO, sul piano qualitativo credo sia possibile proporre possibili criteri di buone pratiche:
- Lavorare per prese in carico robuste e rispettose insieme, ed evitare l’abbandono, per ridurre le urgenze e sostenere con il soggetto anche la famiglia e la microcomunità;
- Cercare fino all’ultimo il consenso, negoziando e preferendo la persuasione, e la suggestione eventualmente, alla coazione (come la legge prescrive);
- Cercare di garantire il più possibile la presenza di operatori conosciuti, o almeno comunque del servizio, perché quell’atto di prevaricazione sia il meno traumatico possibile e trovi il suo senso nella presa in carico, e anche perché la qualità dell’accompagnamento all’ospedale può essere un antidoto efficace alla contenzione;
- Lavorare (ovviamente) perché l’atteggiamento di tutti nel momento della messa in atto sia attento al rispetto della dignità, dei diritti e del corpo della persona. il che, come l’intervento emozionante e generoso di Maria Cristina Soldi a questa sessione ci ha ricordato, purtroppo non sempre avviene.
Bibliografia di riferimento
Ambrosi P., Petrella F. (1998). Mandato e intervento terapeutico dello psichiatra, Prospettive Psicoanalitiche nel Lavoro Istituzionale, 6, 135-142.
Ballerini A. (1994), La presa in carico e la continuatà terapeutica : momenti cardine di qualsiasi intervento. In: Manuale di psichiatria nel territorio (a cura di M. Rossi Monti), Firenze, Nuova Italia.
Berlincioni V., Petrella F. (1997), Accoglienza e presa in carico. Tecnica ed etica nella procedura clinica dei servizi psichiatrici. In: Etica della riabilitazione psichiatrica (a cura di M. Rabboni), Milano, Franco Angeli.
Castelfranchi C.; Henry P., Pirella A. (1995), L’invenzione collettiva, Torino, Gruppo Abele.
Ciancaglini P., Ferrannini L., Peloso P.F. (2000): Presa in carico e dimissione nella cultura e nelle pratiche del Dipartimento di Salute Mentale, Rivista Sperimentale di Freniatria, 124, 3, 190-197.
Norcio B. (1994), Intervento al convegno: “Riabilitazione e terapia psichiatrica. Aspetti integrativi”, Pisa, 10-12 marzo 1994.
Nell’immagine: “Enea con Anchise e Ascanio”, opera di Francesco Baratta (1726), in Piazza Bandiera a Genova
Nel video: I lavori dell’area 6 della Conferenza
0 commenti