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GUERRA E SCIENZE DELLA MENTE NELLA PRIMA META’ DEL NOVECENTO: due recensioni

2 Ott 21

A cura di Paolo F. Peloso

Titolo: Guerra e scienze della mente in Italia nella prima metà del Novecento
Curatore: Dario De Santis
Editore: Aracne
Anno: 2019
Pagine: 470
Costo: euro 28.00
 
Titolo: Deserti della mente. Psichiatria e combattenti nella guerra di Libia 1911-1912
Autori: Graziano Mamone e Fabio Milazzo
Editore: Le Monnier
Anno: 2019
Pagine: 200
Costo: euro 14.50
 

Mi spinge a riaprire il discorso sul rapporto tra salute mentale e Grande Guerra il cortese invito che ho ricevuto dalla Sezione provinciale di Modena dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra a intervenire in occasione dell’inaugurazione della mostra La libertà incompleta. Dalle guerre alle pandemie: una storia infinita preso la Casa del Mutilato “Gina Borellini”, nell’ambito del Festival della filosofia, tenutosi dal 17 al 19 settembre nella città emiliana.
L’incontro modenese, moderato dal Presidente della Sezione e dell’ANMIG regionale Adriano Zavatti – che vanta una famigliarità con il tema della guerra per avere avuto il nonno sopravvissuto ad Adua e il padre sopravissuto al massacro di Cefalonia ed è stato coadiuvato nell’organizzazione dalla vicepresidente Maria Grazia Folloni – ha visto i saluti del Sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli, del direttore del Distretto dell’AUSL di Modena Andrea Spanò, del direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’AUSL di Modena Fabrizio Starace e di Claudio Betti, Presidente Nazionale dell’ANMIG. E poi la proiezione del docufilm La libertà incompleta – dalle guerre alle pandemie: una storia infinita prodotto dalla stessa attivissima sezione modenese dell’ANMIG, e gli interventi dell’infettivologo bolognese Sergio Sabbatani, autore del volume Epidemie. Contributi in ambito storico-medico Pavia, EDIMES, 2007) sul tema La salute dei soldati e dei prigionieri italiani durante la I guerra mondiale; della musicologa reggiana Silvia Perucchetti sul tema La storia e la musica di Ivor Gurney, compositore, poeta, soldato, paziente durante la Grande Guerra, con il quale ha introdotto la figura di questo compositore e poeta inglese passato per le esperienze della trincea delle Fiandre e del manicomio in patria, le cui musiche e le cui parole che evocano a partire dal fronte la nostalgia per la vita di pace nella campagna inglese hanno piacevolmente accompagnato ad intervalli l’intero incontro. Sono seguiti l’intervento del sottoscritto sul tema La guerra moderna e il mondo mentale. Soldati e psichiatri durante la Grande Guerra; e quello della giovane ricercatrice Maria Letizia Bellesia, la quale ha dedicato all’archivio dell’ANMIG modenese la sua esperienza di alternanza scuola-lavoro, sul tema Cenni sull'analisi dei fascicoli personali dei mutilati ed invalidi dall'archivio ANMIG Modena.
 
Questo incontro mi dà lo spunto per proporre sulla rubrica tre recensioni. Queste, e una, che seguirà, sul bel volume di Stefanie Linden La guerra dei nervi, disponibile ora in italiano con prefazione di Antonio Gibelli.




Guerra e scienze della mente in Italia nella prima metà del Novecento è un testo collettaneo curato da Dario De Santis per le edizioni Aracne (2019), con prefazione di Barbara Bracco.
Nella ricca introduzione al volume De Santis ripercorre per grandi linee la vicenda dell’indagine storica sulla relazione tra scienze della mente e guerra – una relazione che si è resa evidente e ha dato luogo a un dibattito scientifico che per molti aspetti è attuale soprattutto nel corso della Prima guerra mondiale – e  ne affronta alcune delle principali questioni.
A partire dalle ragioni di quella che, nel primo capitolo del volume, ho definito riprendendo una felice espressione di Luigi Zanon Dal Bo’ la “psicofobia” degli psichiatri dell’epoca. Una psicofobia che nel corso del conflitto si è decisamente ridimensionata a fronte dell’evidenza sugli altri fronti, come si vedrà dal testo della Linden, ma rispetto alla quale anche in Italia l’approfondimento della ricerca condotta su materiale pubblicato e d’archivio in questi anni ha consentito di portare alla luce un numero non trascurabile di eccezioni, o in qualche caso ravvedimenti completi o parziali. E De Santis ricorda qui i casi di Gaetano Boschi, Angelo Alberti, Ferdinando Cazzamalli, ai quali si potrebbero aggiungere senz’altro Vincenzo Bianchi o lo stesso Zanon Dal Bo’.
Accanto a questa in Italia solo parziale evoluzione nella loro cocezione delle nevrosi belliche da parte degli psichiatri, il conflitto consentiva a pionieri della ricerca psicologica come Giulio Cesare Ferrari e Agostino Gemelli di cogliere e sottolineare il rapporto tra aspetti di psicologia individuale e di massa e rendimento nel contesto bellico (con considerazioni che, tra l’altro, sarebbe interessante vedere applicate al caso del clamoroso insuccesso occidentale in Afghanistan dei cui esiti siamo testimoni in questi giorni).
Da un punto di vista formale, il volume mi pare condividere con altri curati in questi anni – da Nicola Labanca (2016) o da Chiara Bombardieri e me (Il conflitto e i traumi, 2019, vai al link), ad esempio – la scelta di presentare insieme approcci multidisciplinari ed eterogenei ai diversi aspetti che l’intreccio, davvero poliedrico e complesso, tra scienze della mente e guerra ha assunto in occasione del conflitto, estendendo in questo caso l’indagine agli anni immediatamente precedenti e seguenti.      
Nel primo saggio, “Psicofobia” degli psichiatri? Le difficolta ad ammettere 1’eziologia emotiva del trauma in pace e in guerra approfondisco la difficoltà degli psichiatri ad accettare la possibilità di un’origine esclusivamente emotiva – e quindi del tutto interna all’ambito della mente – individuandone le radici in ambito civile, e cioè nel dibattito che aveva riguardato già nei decenni precedenti le nevrosi traumatiche sviluppatesi a seguito di incidenti nel mondo dell’industria e dei trasporti. Per farlo, mi avvalgo in particolare di un’esegesi del testo di Enrico Morselli, Le nevrosi traumatiche (1913), le cui potenzialità euristiche nell’ambito di una ricerca sul trauma bellico sono state evidenziate in questi anni anche da Anna Grillini.
Con il saggio Stati di commozione, emozioni violente e neuro-psicopatie. Medici e traumi bellici nella guerra di Libia (1911-1912), Fabio Milazzo – che è stato autore nel 2020 dello studio già citato in questa rubrica sui ricoveri militari nel manicomio di Racconigi – riprende i temi di un saggio pubblicato con Graziano Mamone, Deserti della mente. Psichiatria e combattenti nella guerra di Libia 1911-1912 (Le Monnier, 2019), sul quale colgo quest’occasione per brevemente soffermarmi.



 
Apro una parentesi per ricordare come in quel caso, il volume è strutturato in tre parti più una: la prima, volta a ricostruire il dibattito ottocentesco sulle nevrosi traumatiche in ambito civile (industria, trasporti ecc.)  colte anche nel loro rapporto con quello sull'isteria. La seconda, alla ricostruzione del rapporto tra psichiatria ed esercito in Italia negli anni precedenti la guerra di Libia. La terza, al rapporto tra scienze della mente e guerra nel corso di quel conflitto. Un quarto capitolo raccoglie 76 casi clinici osservati sul fronte libico dai medici Giuseppe D'Abundo, Placido Consiglio, Luigi Daneo e Arturo Gorrieri.

Come Mamone e Milazzo documentano, molte delle questioni che si sarebbero riproposte su scala maggiore nella Grande Guerra sono già presenti sul fronte libico: la natura delle nevrosi traumatiche di guerra in relazione a quelle di pace, il sospetto della simulazione, la relazione della guerra con alcuni fenomeni spesso sottaciuti che l'accompagnano: prostituzione, alcoolismo, follia, autolesionismo. Nel caso della Libia, è interessante notare come alla ferocia della guerra si sposi nella deumanizzazione del nemico la cultura coloniale, fondata su una montagna di stereotipi che l'Ottocento aveva lasciato in eredità all'europeo.  Ancora, tra le particolarità che Mamone e Milazzo riportano merita di essere ricordata per originalità e dimensione la Inchiesta psicologica sui reduci della Libia, condotta dal tenente colonnello Onorato Mangiarotti sulla base delle interviste a 2.000 militari reduci dal fronte e volta a indagare le trasformazioni psicologiche del soldato nelle diverse fasi del combattimento, un tema sul quale sarebbe ritornato più ampiamente Agostino Gemelli con il libro dedicato nel 1916 alla psicologia del soldato.
 
Ritornando al volume collettaneo curato da De Santis, nel suo contributo Milazzo riprende appunto la questione della guerra di Libia per sottolineare come la psichiatria italiana si sia presentata a quel primo appuntamento con la guerra moderna gravata da pesanti pregiudizi di carattere ideologico, riferibili a razzismo, militarismo, convincimento della natura ereditaria e degenerativa della malattia mentale, e pesante fosse ancora l’influenza del pensiero di Cesare Lombroso e del sostanziale disprezzo per chi si presentava più fragile nella lotta per la sopravvivenza.
Il saggio successivo, La simulazione. Brevi note tra habitus psichiatrici, antropologie politiche e misconosciute modemità belliche (1904-1923), è di Andrea Scartabellati  – che ha curato uno dei più interessanti volumi italiani sulla grande guerra, Dalle trincee al manicomio (2008) – e ha per oggetto una questione che divenne nel corso della guerra, sul fronte italiano in particolare, una vera ossessione: quella di dover scovare il simulatore. Dal ricco saggio di Scartabellati emerge, mi pare, in modo chiaro perché la questione della simulazione rappresenti, per la psichiatria italiana un rebus irresolubile. La confusione tra follia e cattiveria, che ha origine dal dibattito sulla pazzia morale ma è esasperata per l’Italia da Lombroso, fa sì che per lo psichiatra la simulazione per sottrarsi alla guerra, cioè ai compiti verso la patria, sia un comportamento certo tra i più esecrabili e spregevoli, ma lo sia a un punto tale da non poter essere concepita al di fuori della follia. E quindi che debba essere al tempo stesso disprezzata e punita, in quanto crimine tra i più abietti, e scusata e curata in quanto malattia. Ed è significativa di questa impasse logica la definizione, che Scartabellati riporta, di “deficienti volitivi” che veniva riservata tra altre ai simulatori.
Lo psichiatra-patriota – Placido Consiglio su tutti – appare del resto incapace di porsi, da medico, dal punto di vista del paziente, e prendere minimamente in considerazione il problema di fronte al quale questi si trovava, di salvare la propria vita individuale, come in altri contesti avrebbero fatto in quegli anni, in parte grazie a echi darwiniani, Ingegneros, con il suo fortunato trattato sulla simulazione, o Freud.
E bene fa allora Scartabellati a osservare: «Catapultato nei marosi del conflitto, l’antico habitus del1’alienista, col suo paternalistico autoritarismo figlio dell’identità ibrida della disciplina, a metà strada tra assistenza e controllo sociale, declina verso un’arroganza culturale che, nella routine della vita manicomiale, nell’esame diagnostico e nella redazione delle perizie forensi, supera i territori della seduzione totalitaria per non ammettere altre antropologie politiche se non quella bellicista approvata dai ceti superiori, ai quali gli psichiatri, d’altro canto, appartengono. Un totalitarismo iracondo spintosi a invocare con dubbio dileggio il manicomio per tutti i pacifisti».
Un’adesione alla guerra, anche, che già precorre, ad esempio nelle parole pronunciate da Sante De Sanctis dopo Caporetto che Scartabellati riporta poco oltre, nelle parole e nei toni la visione fascista. E alla quale sembra più capace di sottrarsi semmai, rispetto ad alcuni psichiatri, un medico legale, Salvatore Ottolenghi, che – forse proprio perché in posizione migliore per giudicare in quanto scrive da esterno alla disciplina e a guerra ormai conclusa – evidenzia i limiti della capacità conoscitiva e discriminativa della psichiatria, e invita quindi senza complimenti i periti alla massima prudenza e cautela.
Nel saggio successivo, «In uno stato di aberrazione mentale». I1 fenomeno della diserzione tra periti alienisti e giudici militari a Verona (1915-1921), Roberto Piccoli prende in esame i fascicoli processuali raccolti tra il 1915 e il 1921 dal Tribunale militate di Verona relativi ai disertori: i problemi che emergono sono sempre quelli, come distinguere, con il contributo spesso determinante del perito psichiatra, di fronte a comportamenti analoghi ma diversi nelle loro ragioni di rifiuto della guerra (diserzione, fuga, consegna al nemico, confusione ecc.) ciò che è da condannare da ciò che è da curare.
Segue La psicodiagnosi clinico-organizzativa nell’assessment della leadership militare. Storia e attualità di Andrea Castiello d’Antonio, il quale indaga l’origine delle tecniche psicodiagnostiche per la selezione dei militari più adatti a posti di comando nell’esercito, che affonda nell’Ottocento, ha conosciuto le prime applicazioni più significative nel corso della prima guerra mondiale e ulteriore sviluppo nei due decenni tra prima e seconda, e poi ancora nella seconda con un contributo determinante nella trasformazione del concetto di leadership, per la Gran Bretagna, di Bion.
Con Una «strana malattia». Giacomo Pighini, la Grande guerra e il dopoguerra, Francesco Paolella approfondisce la figura del parmigiano Giacomo Pighini, consulente neuropsichiatra per la IV armata e le sue posizioni nell’ambito del dibattito su quella “strana malattia” che costituivano le nevrosi traumatiche nel corso della guerra, il suo ruolo nell’immediato dopoguerra e poi il ritorno al San Lazzaro e la convinta adesione al fascismo. Tanto che per Pighini, Paolella conclude il suo saggio: «La guerra» – che del fascismo costituisce l’essenza – «non doveva essere tollerata o solo giustificata, ma apertamente esaltata, per avere consentito la formazione del primo nucleo dell’”uomo nuovo”, divenuto poi fascista».
Se l’evoluzione di Pighini è quella di molti che dopo essersi infiammati nel corso della guerra aderirono al fascismo come sua prosecuzione in tempo di pace, è decisamente originale invece la vicenda presentata da Claudio Staiti nel saggio L’«odissea di guerra e pazzia» di Vincenzo D’Aquila. Un pacifista in trincea. D’Aquila è un  italo-americano rientrato in Italia per arruolarsi volontario ma poi convintosi, al fronte, di voler rifiutare la guerra e finito quindi in manicomio. Le memorie di D’Aquila sono state proposte due anni fa in Italia da Staiti per Donzelli (2019), ma la cosa più interessante del saggio è la loro giustapposizione con i documenti clinici redatti dagli psichiatri Vincenzo Bianchi e Virgilio Grassi, e riguardanti il suo ricovero presso il San Nicolò di Siena. Punti di osservazione diversi dunque, su una vicenda passata dall’entusiasmo pere la guerra, al pacifismo, alla presunta follia.
Segue «L’unico moncone veramente indispensabile è la testa». I feriti al cranio e al volto nella Grande guerra: luoghi di cura, protagonisti, problemi di Fabio Montella, che prende in esame le varie forme di ferite e mutilazioni al capo – il cervello, il viso, gli occhi – e le vicende dei mutilati dopo la guerra in rapporto alla riabilitazione e al lavoro.
E rimaniamo nello stesso ambito con  Le ferite al cranio nella prima guerra mondiale tra neurologia e chirurgia di Benedetta Campanile che ripercorre l’evoluzione della neurochirurgia militare, iniziata già a fine Ottocento, nel corso della Grande Guerra e la figura di Lorenzo Bonomo, sottolineando l’importanza dell’introduzione della radiografia e della topografia cranica e quella delle lezioni di traumatologia tenute al fronte sulle quali Bonomo aveva insistito.
Con Il trattamento dei malati funzionali durante la Grande guerra e l’esperienza del Centro neurologico del Corpo d’armata di Bari Liborio Dibattista e Lucia De Frenza riprendono le linee fondamentali dell’organizzazione neuropsichiatrica italiana, per soffermarsi sull’ospedale per militari affetti da sintomi mentali lievi o lesioni neurologiche organizzato da Gaetano Boschi, del quale viene approfondita la concezione delle nevrosi belliche, presso la Villa del Seminario vicino a Ferrrara (lì furono tra altri ospiti ricoverati artisti come De Chirico, De Pisis e Carrà). Poi gli altri ospedali neurologici organizzati in diverse città italiane e quello di Bari, dove Boschi si trasferì da Ferrara, del quale sono presentati i metodi di cura – comprese le terapie attraverso l’induzione di dolore – e ripercorse le vicende durante e dopo la guerra.
Un’altra esperienza di reparto dedicato ai sintomi neurologici e a quelli mentali più lievi fu aperto da Arnaldo Pieraccini, questa volta all’interno del manicomio, ad Arezzo, e se ne occupa in queste pagine Marco Romano, autore di uno dei volumi più interessanti sulla Grande Guerra che abbiamo già recensito in questa rubrica, con il saggio Il Padiglione neurologico dell’Ospedale neuropsichiatrico di Arezzo. Da reparto improvvisato durante la Grande guerra a modello di assistenza manicomiale aperta (1915-1938). Vicenda tanto più interessante quella aretina, in quanto Pieraccini – come osserva De Santis nell’introduzione – si muoveva con questa sua iniziativa in controtendenza rispetto allo scollamento della neurologia dalla psichiatria che era in atto in quegli anni, e al quale la guerra fece fare un netto balzo avanti.
Segue Greta Plaitano, la quale si occupa dei progressi compiuti nel corso della guerra nella fabbricazione di protesi e nella loro sempre più perfetta connessione con il sistema nervoso, che apriva la prospettiva verso la moderna neuroprotesica, con il saggio Il “metodo Vanghetti”: protesi cinetiche al servizio della volontà. L’immagine fotografica della «vitalizzazione delle membra artificiali». In esso è ripercorsa vicenda delle protesi cinetiche di Giuliano Vanghetti, dell’innovativa tecnica chirurgica da lui proposta  e della progettazione di arti artificiali semoventi.
Si ritorna sul vissuto della mutilazione e la ricerca di una reintegrazione funzionale e sociale sempre più perfetta attraverso la rieducazione e il lavoro, l’esigenza di associare allo sforzo di migliorare il mutilato per recuperarlo al lavoro quello di cercare il lavoro che meglio si adatti a ciascuna vittima di mutilazione, e soprattutto sulla lotta perché il sacrificio dei mutilati non fosse dimenticato nel momento nel quale tacevano le armi, con il saggio successivo, autore Luigi Traetta, Dal restauro… alla rieducazione. Giovanni Chevalley e gli invalidi di guerra.
Tutt’altro tema invece è quello scelto da Caterina Tisci, che con il saggio Neurosifilide e trattamenti sperimentali: la malarioterapia nel primo dopoguerra si occupa della triste e spesso negletta vicenda della prostituzione di guerra, che portò alla costruzione, a lato e per così dire all’ombra dell’organizzazione militare, di un articolato sistema postribolare volto alla soddisfazione sessuale di ufficiali e soldati, ma attento anche alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, la sifilide in primo luogo, a proposito della quale il saggio ripercorre tra l’altro successo e tramonto della terapia malarica della neurolue nel nostro Paese.
A questi saggi ne seguono altri raccolti in una sezione non meno interessante di “documenti”, a partire da Il fenomeno delle nevrosi da guerra nelle cartelle cliniche del Manicomio di Girifalco, un saggio nel quale Carla Minasi propone un’analisi della storia del manicomio calabrese approfondendo il contenuto delle cartelle cliniche di soldati, donne e altri ricoverati nel periodo bellico. 
E anche Chiara Bombardieri e Lorenza Iannacci partono dal lavoro d’archivio con il saggio Le fonti per la Grande guerra nell’archivio dell’ex Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia. Cartelle cliniche e documenti amministrativi, tracciando i lineamenti della storia della prestigiosa istituzione reggiana nel corso della guerra e offrendo un interessante inventario del materiale disponibile nei suoi archivi.
Anche il curatore del volume, Dario De Santis, ha scelto in questa occasione il lavoro di archivio su un materiale fortunosamente ritrovato con il saggio L’archivio storico dell’Università castrense di San Giorgio di Nogaro. Ha così modo di rendere conto di un materiale fortunosamente pervenuto fino a noi e di ricostruire la storia dell’Università Castrense appunto, aperta da febbraio 1916 a ottobre 1917 per formare precipitosamente alla sanità di guerra personale del quale c’era larghissima necessità. Si sofferma, in particolare, sul materiale relativo ai corsi di Clinica delle malattie nervose e mentali tenuti da Ottorino Rossi, professore dell’Università di Siena, coadiuvato da Angelo Alberti, direttore del manicomio di Pesaro e Urbino e consulente psichiatra della III Armata dall’inizio della guerra, un materiale decisamente interessante sotto molti profili.
Il recupero e lo studio di questo archivio sono poi tanto più importanti perché presso l’Università Castrense più di mille studenti di medicina arruolati nell’esercito ebbero la possibilità di terminare i propri studi al fronte e di prestare poi servizio come ufficiali medici, mentre l’attività clinica che vi veniva svolta favorì una intensa attività di ricerca e di sperimentazione.
Presso lo stesso ospedale di San Giorgio di Nogaro ha lavorato lo psichiatra Alfredo Coppola, del cui archivio personale rende conto nel volume Giorgio Sassi, con il saggio L’esperienza bellica del neuropsichiatra Alfredo Coppola (1888-1957) nelle carte del suo archivio.
Infine, Paola Zocchi con il saggio Il caso Dagnoni, disertore passato al nemico. Una perizia di Giuseppe Antonini riferisce di una perizia conservata nell’archivio del direttore dell’ospedale milanese di Mombello su un militare reo di diserzione, che già prima della guerra aveva condotto vita deviante rispetto alle regole del vivere sociale. È senz’altro interessante la giustapposizione tra la minuta della perizia della quale l’autrice dispone, e la testimonianza resa dallo stesso soldato, dalla quale emerge da un lato il problema della commistione tra il giudizio clinico dello psichiatra sullo stato psichico del periziando e il giudizio morale sui suoi comportamenti, che rappresenta uno dei temi costanti delle valutazioni espresse dagli psichiatri nel corso della guerra. Dall’altro, è interessante la posizione che Antonini assume in merito a un interrogativo che interessò la psichiatria militare già prima della guerra, ma nel corso di essa si fece più assillante; se, cioè, nel caso delle personalità psicopatiche l’arruolamento nell’esercito, con i suoi aspetti di rigidità e disciplina, potesse contribuire a correggerle. Per il perito, proprio vicende come questa dimostrano l’esatto contrario; che, cioè, per chi già fatica ad adeguarsi alle regole che la vita sociale normalmente impone, l’ipernormatività imposta dalla vita militare, e dalla vita militare in tempo di guerra soprattutto, rende l’adeguamento più difficile e lo scontro tra individuo e istituzione più aspro con l’alzarsi del livello richiesto di disciplina.
Complessivamente, mi pare dunque che il volume curato da De Santis presenti una grande ricchezza documentale e offra un ampio campionario delle diverse sfaccettature che lo studio del rapporto tra scienze della guerra e scienze della mente può assumere: le diverse sintomatologie nelle quali la fatica della guerra può trovare espressione e le questioni di inquadramento nosografico dei problemi; l’organizzazione dell’apparato di cura e i suoi strumenti; i diversi significati che un sintomo o un atto possono assumere; il rapporto tra giudizio clinico e giudizio morale; le vicende e le emozioni dei combattenti, ma anche quelle dei feriti o dei mutilati; le vicende degli uomini, ma anche delle donne coinvole come madri, mogli, ma anche prostitute; le vicende delle singole istituzioni e quelle dei singoli casi di psichiatri e di pazienti dei quali è sempre particolarmente interessante poter disporre dei due punti di vista.
Soltanto procedendo sempre di più verso la conoscenza della composizione di questo puzzle ricco e intricato, sarà possibile credo pervenire a una conoscenza più completa di questo evento tragico e immenso, dal quale tutta la storia del Novecento è stata – nel bene e nel male – condizionata negli anni a venire.
 
 

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