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Il consenso informato come conquista di cultura e di civiltà dei valori della persona

21 Giu 23

Di FRANCESCO BOLLORINO

  1. Il consenso informato come conquista di cultura e di civiltà dei valori della persona

Il sintagma “consenso informato” – il cui attributo “informato” è ciò che maggiormente rileva nel legame pertinenziale che esso ha con la tematica trattata – definisce in modo chiaro i termini essenziali del problema1. La fattispecie giuridicamente rilevante può essere in generale definita secondo un articolato che potrebbe essere il seguente2: i) una manifestazione di volontà che sia particolarmente necessaria per instaurare e per garantire in ogni momento la correttezza del rapporto giuridicamente rilevante; ii) una volontà che si sia formata sulla base di valutazioni fondate su una informazione esauriente, chiaramente comunicata e compiutamente acquisita; iii) una determinazione che sia il consapevole risultato di valutazioni adeguate e a tutto campo su una situazione di specifico interesse; iv) una manifestazione che sia funzionalmente ed efficacemente rivolta a legittimare l’attività altrui per uno scopo comune, che soprattutto deve essere condiviso, anche se per esigenze non coincidenti ma necessariamente convergenti3. Si parla di consenso quando nell’ambito della titolarità di una situazione giuridica soggettiva sussista un diritto che condiziona e che quindi si pone come necessario per conferire ad altri una facoltà ad agire e quindi una liceità ad incidere nell’area giuridica del consenziente4. La terminologia in uso che si sostanzia nei lemmi come “adesione”, “assenso” ed altro è concettualmente insufficiente e purtroppo rivela una cautela che indica una manifesta incertezza sotto il profilo culturale: anche il Codice di Deontologia Medica all’art. 30 si esprime in termini di “adesione” alle proposte diagnostico terapeutiche5. Si parla di informazione perché è necessaria e tuttavia diversamente articolata e comunicabile in relazione al ruolo delle parti, alla loro differente preparazione in generale e, in particolare, rispetto al problema da affrontare, alla oggettiva specificità e difficoltà sempre insite nel problema, il quale il consenziente deve risolvere e che dipende dalla sua natura e dalla sua incidenza su una situazione che lo stesso consenziente deve affrontare per la tutela di un proprio determinato bene6. Di qui si può comprendere come tutti gli aspetti di carattere soggettivo ed oggettivo assumano rilievo speciale quando l’interesse centrale sia costituito dalla tutela del bene della salute ed in generale del diritto all’integrità fisica della persona7. Quello alla salute è costituzionalmente previsto come diritto fondamentale dell’individuo: l’art. 32 della nostra Costituzione ne è la fonte normativa primaria per tutto l’ordinamento giuridico, come già anticipato8. Da un’attenta lettura all’affermazione dei diritti inviolabili ed irrinunciabili della persona appare che il primo rilievo è dedicato nella norma primaria ad un diritto costituzionale affermato in sé e per sé, un diritto attribuito direttamente alla persona e come tale tutelato9. Come interesse della collettività è tutelato solo in modo mediato e strumentale per il principio di coincidenza dei fini individuali e dei fini sociali, per la qual cosa, anche se non codificato un dovere alla salute, non può esistere un parallelo diritto ad essere malati, soprattutto, e non solo comunque, quando determinate patologie mettano a rischio la salute di altri; non solo ma anche quando la patologia metta a rischio la salute e la vita, perché in una società esistono obblighi di solidarietà e obblighi di garanzia, che non possono essere considerati a senso unico esclusivo, ma il cui adempimento non può essere impedito sic et simpliciter da un diritto di libertà del singolo, che poi sottende lo stesso diritto della tutela della propria salute: in tutti gli aspetti il diritto di libertà del singolo trova i limiti in corrispondenti obblighi che deve assumersi di fronte alla società e che non può prescindere per altro da quegli obblighi posti a carico della società che sono destinati a realizzare la migliore garanzia della tutela dello stesso diritto di libertà nella sua forma di espressione particolare in uno specifico campo10. Sempre per l’art. 32 Cost. non sono ammessi trattamenti sanitari obbligatori, che non siano giustificati dal punto di vista sanitario e che non possano essere necessari per collettività. Come garanzia costituzionale devono essere espressamente previsti dalla legge e, tuttavia, la legge non “può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, cioè la legge non deve violare i diritti della persona costituzionalmente previsti e in particolare lo stesso diritto alla salute ed alla sua tutela, motivo per cui sono poste appunto limitazioni alle interferenze degli interessi della collettività, se ed in quanto si configurino come lesive della posizione giuridica soggettiva del singolo, senza una apprezzabile giustificazione volta alla tutela diretta o indiretta della singola persona: negli accertamenti e nei trattamenti sanitari obbligatori l’oggetto e l’ampiezza di contenuto dell’informazione non mirano ad ottenere una scelta dell’interessato-obbligato, che sia cioè fondata su una richiesta di cura necessitata o elettiva, ma ad ottenerne il consenso mediante la persuasione ad una condivisione di un interesse riconosciuto giuridicamente rilevante per la generalità dei cittadini e conseguentemente anche proprio11. Il consenso informato non è regolato dalla disciplina che regola il rapporto di cura e di assistenza12. Si esclude inoltre che il dovere di informazione possa configurare un obbligazione precontrattuale; altra tesi superata dalla giurisprudenza tendeva a configurarlo nella sua natura non contrattuale, che colloca il dovere fuori da un rapporto contrattuale, a cui deve considerarsi giuridicamente estraneo, perché ha il suo diretto riferimento e lettura nell’articolo 32 Cost., che tutela la salute ed ogni diritto che sia il suo corollario, costituendone l’insieme delle garanzie13. Al contrario, la giurisprudenza dominante che si autoqualifica come “ius receptum14 considera informazione e correlato consenso come obbligazioni contrattuali a carattere strumentale, da ricondurre a quella visione pancontrattualistica dei rapporti giuridici che ha portato ad affermare con la sentenza n. 589 del 1999 della Corte Suprema che il contatto sociale può configurare un contratto di fatto in ipotesi di rapporto tra paziente e medico dipendente di struttura sanitaria15. La generale definizione che si è proposta di consenso informato assume caratteristiche peculiari quando nel rapporto di cura e di assistenza si affianca la necessità di tutela di due diritti primari, come il diritto di autodeterminazione del paziente, anche come diritto di libertà – la libertà politica costituisce la sostanza di ogni diritto, senza libertà non ci sono diritti esercitabili per il cittadino e quindi per la persona – ma soprattutto come il diritto alla salute ed alla integrità fisica che necessariamente è inciso da un’attività medica che caratterizza un rapporto tra medico e paziente indipendentemente da una qualifica contrattuale o extracontrattuale del rapporto medesimo16. Bisogna infatti rilevare che consenso ed informazione mirata a formarlo e a qualificarlo nella sua correttezza, validità ed efficacia giuridica non sono assimilabili per disciplina al rapporto – anche quando sia contrattuale perché esista ad esempio con la struttura – di cura e di assistenza, in cui peraltro hanno la genesi fattuale: dunque, devono poter essere gestiti con una autonoma disciplina in cui debbono avere un assoluto rilievo17. Tuttavia, il rapporto di cura, di natura contrattuale o extracontrattuale, non è sufficiente per la tutela diretta del diritto alla salute, che si sostanzia come principio di scelta libera e consapevole nel diritto di autodeterminazione in ordine al proprio corpo, poiché ciò significa avere la potestà di decidere se correre o meno rischi che possono mutare irreversibilmente una condizione attuale di vita che, quanto a scelta personale in termini di qualità della vita stessa, può essere considerata la più desiderabile dalla persona18. L’interessato, cioè il soggetto la cui salute è in gioco, potrebbe non volere accettare determinati rischi, indipendentemente dal fatto che siano esigui o meno, possibili o probabili: sotto questo profilo è giustificata l’irrilevanza affermata dalla giurisprudenza di dati statistici come indici di limitata frequenza di esiti avversi o infausti. Si tratta del problema del nesso di causalità in ipotesi di omissione e di criterio di ricostruzione controfattuale della vicenda – ipotizzando con alta probabilità logica, quasi prossima alla certezza, cosa si sarebbe verificato se l’atto medico dovuto fosse stato compiuto – con la considerazione dell’incidenza sul nesso eziologico della mancata o viziata scelta da parte del paziente, non escludendo l’ipotesi di quale sarebbe stata in ogni caso la scelta del paziente, la più attendibile anche sulla base delle circostanze obiettive in cui avrebbe potuto essere consapevolmente espressa: in particolare la probabilità statistica può essere usata ad adiuvandum, ma non può essere l’esclusivo valore di riferimento da assumere come criterio, tenuto conto che se ne dovrebbe pur sempre provare l’affidabilità in relazione ai criteri di rilevazione e di correlazione con lo specifico e concreto caso clinico19. I dati statistici come indici di limitata frequenza di esiti avversi o infausti non hanno rilievo perché non possono giustificare silenzi o reticenze tali da far ritenere, pur in base ad una ragionevole previsione di un implicito consenso, come non necessaria un’esatta informazione all’interessato20. Un efficace tutela del diritto primario della salute anche in termini di autotutela, considerato nella sua esposizione a lesioni in ambito medico e soprattutto chirurgico, sia conseguibile indipendentemente dalla disciplina del rapporto di cura: l’area contrattuale, intesa e considerata in giurisprudenza come la più qualificata ad assimilare consenso e dovere di informazione ad esso mirato, appare giuridicamente del tutto inadeguata ad una corretta valutazione dell’esistenza di lesioni di diritti primari, essendo più versata a regolare interessi specifici dei contraenti creati con preventivi accordi e realizzati con una disciplina che li contemperi nel gioco dei diritti e dei doveri da quegli accordi nascenti21. Si tratta di una tutela che corre parallelamente al rapporto di cura, legittimandone le iniziative e le attività caratteristiche, le quali, pur essendo sempre incidenti sulla integrità fisica dell’interessato, possono essere eseguite come prestazioni ineccepibili sotto il profilo delle scelte tecniche e dell’esecuzione, configurando così un esatto adempimento delle obbligazioni assunte di curare; e tuttavia nel contempo le stesse prestazioni in tutto o in parte potrebbero configurarsi come non legittimate da un consenso dell’interessato o, che è la stessa cosa, legittimate solo apparentemente da un consenso viziato da carenza o inesattezza di informazione22. Si può affermare dunque, che, se non si ritiene di condividere che una tutela come quella in argomento deve prescindere dal rapporto di origine contrattuale – nei casi più gravi può determinarsi lungo l’iter sanitario una pluralità di rapporti –, si rischia di non dare alla violazione del diritto all’autodeterminazione quella autonomia che deve avere, quando le prestazioni sanitarie possono essere qualificate come inadempimenti, divenendo la violazione stessa rilevabile solamente come una sorta di aggravante, che può essere correlata automaticamente o implicitamente alla valutazione della prestazione senza un ragionevole nesso di causa23. Si rischia di fare in modo di riconoscere come inadempimenti quelle prestazioni che non sono tali, così come ogni sorta di comportamento che può essere percepito come prevaricatorio24. Può infine succedere di non riconoscere questa tutela quando si possa identificare nella fattispecie il carattere di conformità ed esattezza di un adempimento, che però può non corrispondere alle aspettative e alle scelte in termini di qualità della vita dell’interessato, il quale può dolersi qualora dimostri di non essere stato coinvolto nella decisione con una informativa idonea ed adeguata a creare una determinazione ed un consenso consapevole con una valutazione di scelte che riguardano prima di tutto il paziente e la sua esistenza25. Diversamente, si finisce per riferire tutte le conseguenze dannose dell’operato del medico come eziologicamente connesse alla carenza di valido, informato, consapevole consenso26. Dunque, si perviene così a sovrapporre due piani diversi di valutazione: quello relativo, e contrattuale, dell’accertamento positivo o negativo, totalmente o parzialmente, dell’adempimento della prestazione sanitaria; e quello assoluto, autonomo e tipicamente extracontrattuale, della tutela dei diritti fondamentali che hanno un referente costituzionale indipendente dalla valutazione della fattispecie contrattuale, la quale ha la sola funzione, sotto questo profilo di indagine, di fornire gli elementi, giuridicamente e funzionalmente rilevanti, di fatto e di valutazione della sussistenza o meno di una violazione di quei diritti27.

    1. I requisiti di validità dell’informazione e del consenso: introduzione

Occorre, a questo punto, procedere con un’analisi sui requisiti dell’informazione e del consenso, sulla necessità di una procedura e sulla integrazione tra cartella clinica e procedura legale di formazione ed acquisizione del consenso28. Anche se è chiaro ormai, bisogna aver presente che il principio di autolegittimazione del medico e principio di autodeterminazione del paziente caratterizzano due posizioni giuridiche soggettive indipendentemente da un rapporto giuridico contrattuale o extracontrattuale che sia29. Bisogna precisare che il consenso del paziente non è condizione di legittimazione dell’attività del medico, che ha un curriculum di formazione e di attestazione che lo autolegittima: il consenso del paziente è invece condizione di liceità di un atto medico perché egli è portatore di un diritto di autodeterminazione in ordine alle scelte che possono incidere in qualche modo sulla sua salute e sulla sua integrità fisica30. Si può anche riflettere che il rapporto medico-paziente sta evolvendo da una condizione strutturale di squilibrio storico-sociale e ci si riferisce al paternalismo alimentato da una certa “comprensione” risalente da parte della giurisprudenza31, una condizione data da una asimmetria di preparazione e di formazione che caratterizza i protagonisti32. Ora il rapporto medico-paziente deve evolvere, assumendo la centralità del consenso informato come valore, ad una condizione di “equilibrio costituzionale”, caratterizzato da due posizioni che nella Carta trovano una valenza ed un confronto positivi che rafforzano l’una, quella del paziente, e pongono un giusto limite negativo all’altra, quella del medico, la cui superiore capacità viene equitativamente e, nel contemperamento reciproco di interessi, maggiormente delineata, trasformandola nello svolgersi dinamico del rapporto da una posizione di autorità ad una posizione autentica di autorevolezza33. Essa per essere tale deve essere alimentata da fiducia consapevole del paziente, fiducia che può essere costruita in vari modi, considerando la condizione soggettivamente ed oggettivamente drammatica del soggetto. Si tratta di un rapporto giuridico, dunque, soprattutto e preminentemente interpersonale in cui lo squilibrio informativo viene colmato come obbligo di garanzia e da parte della struttura sanitaria in generale e da parte del medico nella specificità del caso concreto34. Questo obbligo si instaura su chi sa nei confronti di chi non sa, istituisce un equilibrio e sul piano giuridico e sul piano fattuale, il quale obbligo deve essere interpretato in funzione dell’obiettivo primario della responsabilizzazione del paziente, di preparazione, cioè ad una scelta che deve essere condivisa35.

      1. L’abilitazione del medico e del professionista sanitario

Il primo e fondamentale requisito, la cui mancanza rende invalido il consenso in presenza di tutti gli altri, è costituito dall’abilitazione professionale dell’operatore che esegue la prestazione diagnostica o terapeutica36. I giudici partono, infatti, dalla considerazione che il medico non può intervenire senza il consenso del paziente, che rappresenta il presupposto indispensabile, in quanto opera come scriminante dell’attività medica, in specie chirurgica37. Tuttavia, il consenso del paziente può essere invalido, e quindi non elide l’antigiuridicità della prestazione eseguita in mancanza della necessaria abilitazione, perché il malato forma la propria adesione alla proposta terapeutica nella convinzione di affidarsi ad una persona abilitata all’esercizio della professione medica, cadendo perciò in errore sulle qualità dell’operatore38. Le nuove norme europee per l’ordinamento delle Scuole di specializzazione prevedono che il “medico in formazione” esegua un certo numero di interventi chirurgici come primo operatore, sotto la guida di un tutor o di in docente della Scuola39. Un parere orientativo del Consiglio Superiore della Sanità sostiene che ricoverandosi in un ospedale “il paziente acconsente al trattamento ben sapendo che diverse possono essere le persone che lo effettueranno, sicché il consenso prestato ad un sanitario per un certo trattamento vale implicitamente anche nei riguardi di altri medici che fanno parte del reparto in cui il paziente è ricoverato”40. Tuttavia, un autorevole dottrina sostiene che “è oggettivamente difficile ottenere un consenso scritto, specie ad interventi impegnativi e rischiosi, in cui venga specificato che l’operatore sarà un giovane medico che sta acquisendo la propria esperienza”41. Infatti, l’identità e l’esperienza del soggetto che eseguirà l’intervento sono fattori che influiscono sulla libertà di autodeterminazione del paziente, il quale, quindi, dovrebbe esserne informato42.

      1. La titolarità dell’obbligo di informazione

Nell’attuale realtà sanitaria non è possibile ridurre la relazione terapeutica al solo rapporto medico-paziente a causa dell’importanza del ruolo e dell’autonomia di altre figure professionali che, a vario titolo, sono chiamate a partecipare alla gestione del caso clinico43. Ciò si riflette sull’individuazione del soggetto obbligato ad informare il paziente e ad acquisirne il consenso44. Ciascun sanitario, pertanto, deve entrare in relazione con il malato, instaurare con lui un’”alleanza terapeutica”, informarlo specificamente dei rischi e dei benefici dei trattamenti che consiglia. Infatti, solo in questo modo la libertà di autodeterminazione del paziente è efficacemente tutelata, mentre sarebbe sacrificata se le informazioni provenissero da un sanitario che, essendo specialista in altre discipline, non può avere la medesima competenza nell’illustrarne il rapporto rischi-benefici45. Riportando il caso comune dell’intervento chirurgico in équipe, il trattamento consiste nella complessiva operazione, in quanto insieme di attività che, pur richiedendo la partecipazione di vari professionisti con rispettive e differenti competenze, sono tutte funzionali al raggiungimento di un determinato obiettivo terapeutico ed a tal fine sono coordinate da un capo équipe. Costui è titolare dell’obbligo di informazione, sia in ordine alle proprie attività, sia in merito a quella dell’équipe46. In applicazione di questo principio. La giurisprudenza precisa che l’aiuto chirurgo non è titolare, invece, dell’obbligo di informazione perché interviene solo durante l’operazione, senza un personale e preliminare rapporto con il paziente. Differente, ma connessa, è la questione se il sanitario chiamato ad eseguire un determinato trattamento possa delegare ad un collega il compito di informare il paziente ed acquisirne il consenso47. In proposito, secondo la giurisprudenza, l’informazione “non può che provenire dallo stesso sanitario cui è richiesta la prestazione professionale”48. Conseguentemente, dovrebbe ritenersi invalido il consenso prestato dal paziente informato da un medico diverso rispetto a quello che eseguirà il trattamento, sia pur con la delega di quest’ultimo49. Tuttavia, questa interpretazione appare poco rispondente alla realtà dell’erogazione delle prestazioni diagnostico-terapeutiche. Infatti, nell’ambito dei nosocomi, ma spesso anche nelle strutture private, il paziente non conosce i professionisti che gestiranno il suo caso clinico50. Conseguentemente, se il paziente non sceglie i medici, perché essi sono individuati dalla struttura sanitaria, non si vede perché il professionista non possa delegare ad un collega, della sua stessa struttura, il compito di informare il paziente e di registrarne il consenso. Il punto, piuttosto, è che tale prassi non si risolva in una, anche se potenziale, riduzione della libertà di autodeterminazione del paziente51. Proprio per evitare questa eventualità, la dottrina sostiene che il professionista possa delegare solo un collega “appartenente alla stessa specialità sanitaria, di modo che possa fornire le stesse informazioni che fornirebbe il delegante”52. Quando, invece, paziente si rivolge non ad una struttura sanitaria, pubblica o privata, bensì direttamente ad un particolare medico o gruppo di professionisti, la natura contrattuale del rapporto col medico, che in questo caso è il primo depositario della fiducia del paziente, sembra comportare per il professionista l’obbligo di adempiere personalmente sia l’obbligo terapeutico che quelli di informazione, a meno che il paziente acconsenta espressamente alla scelta del medico di delegare ad un collega l’adempimento dell’obbligo di informazione53. Quindi, nei casi in cui il malato non conosce il medico e si rivolge solo alla struttura sanitaria, pubblica o privata, la tesi secondo cui chi esegue la prestazione deve anche informare il paziente dei relativi rischi sembra risolversi più in un aggravio per l’organizzazione delle strutture sanitarie che non in un beneficio per il paziente54. Infatti, la tutela della libertà di autodeterminazione si realizza con la medesima intensità ed efficacia sia quando il medico che informa il paziente è lo stesso che esegue il trattamento, sia quando il compito di informare è delegato ad un collega, purché quest’ultimo abbia la medesima professionalità55.

      1. La funzione del consenso in rapporto al quantum ed al quomodo dell’informazione

La stessa locuzione “consenso informato”, come già sottolineato, rende intuitivamente evidente che la manifestazione di volontà del paziente sia valida solo se preceduta da un’attività informativa da parte del professionista56. A sua volta, l’informazione deve presentare determinate caratteristiche per rendere valido il consenso ed escludere, quindi, la responsabilità professionale57. Prima è opportuno riflettere sulla funzione del consenso informato. L’informazione è un momento di centrale importanza nel rapporto medico-paziente. Si può, anzi, affermare che il trattamento medico è finalizzato alla salvaguardia della salute, ex art. 32, comma 1, Cost., intesa principalmente come integrità fisica, così l’informazione è funzionale al rispetto della libertà di autodeterminazione ex art. 32, comma 2 Cost.58 Tuttavia, sarebbe riduttivo ricostruire il rapporto tra il primo e secondo comma dell’art. 32 Cost. in termini di autonomia dei beni giuridici e delle condotte volte a difenderli. Infatti, la violazione dell’integrità fisica limita anche la libertà di autodeterminazione, costringendo il danneggiato a sottoporsi a trattamenti per porre riparo alle conseguenze lesive o a soffrire le restrizioni derivanti da danno biologico permanente59. Analogamente, la restrizione della libertà di autodeterminazione è suscettibile di riflettersi in un’offesa all’integrità fisica o al benessere, il quale rientra nel concetto di salute dato dall’O.M.S. ed accolto sia in giurisprudenza sia nel codice deontologico60, in quanto anche il trattamento terapeutico, non chirurgico, costringe il paziente a determinate rinunce o ad alterazioni delle proprio abitudini di vita privata e sociale61. L’impostazione per cui la violazione della libertà di autodeterminarsi di ciascuno nello svolgimento dell’attività sanitaria di risolva in un’alterazione, anche solo temporanea, delle condizioni di vita, e quindi del benessere della persona, inducendo a ritenere che l’obbligo di informazione tuteli anche il benessere del paziente, è più sensibile alla valorizzazione della volontà del paziente e dell’interazione tra i due commi dell’art. 32 Cost. ed è anche più fedele alla realtà della pratica medica e delle sue conseguenze62. Così ne deriva l’obbligo per il medico di comunicare non solo i dati che permettono di scegliere se sottoporsi ad un determinato trattamento, ma anche quelli utili a decidere se sottoporvisi altrove o se posticiparlo, in relazione ad imminenti progressi tecnologici o ad impegni del paziente incompatibili con la riabilitazione o con gli effetti collaterali propri di quel trattamento63. Infatti, secondo la giurisprudenza il consenso informato tutela la libertà di autodeterminarsi in ordine alla propria salute mediante l’obbligo per il medico di trasmettere tutte le informazioni utili a promuovere il benessere del paziente durante e dopo il trattamento64. Dunque, l’informazione deve essere bilaterale: ossia deve consistere in uno scambio e non in una trasmissione unilaterale di dati e di avvertenze65. Per realizzare al meglio il suo interesse, il medico deve tener presenti le condizioni del malato, sapere, ad esempio, cosa è importante per lui, quali sono le sue esigenze, “la sua attività lavorativa e di relazione ed in definitiva sia le sue personali aspettative, sia le sue obiettive esperienze terapeutiche”66. Ne deriva che il contenuto dell’informazione, cioè il quantum di conoscenze da trasmettere al paziente, deve essere personalizzato, non può essere completamente stabilito prima dell’incontro col paziente stesso, ma necessita di opportune integrazioni in relazione al particolare stato d’animo e di salute del singolo paziente, rapportandosi alle sue esigenze familiari o di lavoro, che possono indurlo a preferire una metodica di intervento piuttosto che un’altra, oppure, più semplicemente, a procrastinare il trattamento67. Sono queste esigenze che è necessario considerare per realizzare il diritto dell’assistito ad una scelta consapevole, ma che il medico, tuttavia, non può conoscere se non entra in rapporto umano con il malato68. Oltre che oggettiva, la personalizzazione dell’informazione deve anche essere oggettiva, ossia calibrata sul paziente attraverso il dialogo, l’unico strumento che consente al medico di capire il livello intellettivo del paziente e di adeguarvi le modalità delle informazioni in modo da renderle più intellegibili69. Inoltre conoscere i bisogni dei pazienti, che sono portatori di esigenze o di aspettative ben difficilmente prevedibili e standardizzabili in un modulo di consenso informato, gli consente di comunicare i dati che in un modello prestampato avrebbe considerato superflui70. La “medicina difensiva”, efficace locuzione coniata per indicare l’uso della modulistica finalizzata a mettere il medico al riparo da conseguenze giudiziarie anziché ad indirizzare il paziente verso una scelta libera e consapevole, distoglie i medici dalla loro missione solidaristica71. Così facendo, se li difende da possibili condanne, non li mette al riparo dal contenzioso, perché la conflittualità è alimentata proprio dalla tendenza a massificare i pazienti, i quali, invece, sono persone che, proprio per la situazione di fragilità in cui vivono, vogliono sentirsi destinatari di un progetto benefico, e poi scoprono di essere guardati dal medico come un pericolo dal quale doversi difendere72. Di conseguenza, chiedere al medico di personalizzare l’informazione, da un lato, ha il limite di appesantire lo svolgimento della sua attività lavorativa, dall’altro, presenta un indubbio beneficio sia di proteggerlo da complicazioni giudiziarie, sia di migliorare la qualità e l’efficacia terapeutica del suo lavoro73. Questo non significa che l’utilizzo dei moduli debba essere sempre evitato. Il ricordo alla redazione scritta delle informazioni è utile in quanto crea una “base” di conoscenze che è sempre uniforme per tutti i pazienti sottoposti al medesimo trattamento e che può essere da loro riletta anche dopo la fine del colloquio, ma non è l’unico strumento a tutela della libertà di autodeterminazione per il bisogno di personalizzazione e per la natura fiduciaria del rapporto, fondato sull’incontro umano e professionale74. Oltretutto, il modulo consegnato al paziente contiene solo le informazioni e l’opposizione tra consenso e rifiuto, non prevedendo la rinuncia ad essere informato, violando il diritto ad autodeterminarsi, ex art. 32, comma 2, Cost.: tale diritto può essere esercitato rinunciando all’informazione e, quindi, alla possibilità di optare per una o per un’altra terapia, come prevede l’ultimo comma dell’art. 33 c.d.m. secondo cui “La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”75.

1 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss

2 G. Toscano, “Informazione, consenso e responsabilità sanitaria”, Milano, 2006, 77 ss. AA. VV., “ Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 57 ss.

3 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

4 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

5 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

6 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

7 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

8 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

9 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

10 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

11 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

12 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

13 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

14 Cioè dogma di diritto, acquisito come indiscutibile finché dura e finché non sia negato dalla sensibile percezione che qualcosa sta cambiando, percezione che può confondersi con la volontà di voler cambiare le regole in modo subliminale torcendo il diritto positivo e ciò al di fuori dei limiti di una corretta valutazione sotto il profilo esclusivamente giuridico, cioè della interpretazione della norma positiva senza forzature che possono sconfinare in un’attività non propria e sostanzialmente legislativa, che ha come risultato di provocare un’autentica incertezza del diritto, fondata su “rationes” estranee ad una corretta ed asettica attività di applicazione del diritto positivo. Si veda G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

15 Cass. civ., n. 589 del 1999; in Danno e resp., 1999, 11, 294; ibidem , 1, 77, con nota di De Matteis. Si veda G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

16 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

17 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

18 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

19 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

20 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

21 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

22 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

23 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

24 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

25 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

26 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

27 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

28 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

29 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

30 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

31 La stessa giurisprudenza se ne pente, considerando l’accanimento “terapeutico” di carattere culturale, quasi a voler cancellare con un rifiuto il passato. Basterebbe giustificare questa “comprensione” con l’accettazione, nel proprio inconscio, che la cultura muta e mutano i tempi e noi ne siamo condizionati. Questo non giustifica poi che si debbano assumere atteggiamenti di controtendenza che hanno il sapore non dell’equità, bensì di una sorta di giustizialismo che caratterizza istintivamente ogni iniziale reazione, espressa o meno, a comportamenti ingiusti e lesivi della persona. Ciò non significa che si debbano contorcere o distorcere i principi di diritto: si consideri la tesi del contatto sociale come contratto di fatto e la tesi del criterio di vicinanza o prossimità della prova, nonché quella dell’interpretazione dell’art. 1218.Tutte queste sono mirate alla disapplicazione di fatto del disposto dell’art. 2697 c.c. ed all’inversione dell’onere probatorio. Si veda G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

32 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

33 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

34 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

35 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

36 G. Toscano, op. cit., 77 ss. AA. VV., op. cit., 57 ss.

37 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

38 Cass. pen., n. 606 del 2004. In dottrina, L. Macchiarelli, P. Arbarello, N. Di Luca, T. Feola, “Medicina Legale”, Torino, 2005, 1057, i quali evidenziano che il rapporto medico-paziente deve essere basato sulla buona fede; M. Bilancetti, op. cit., 336. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

39 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

40 Parere del 17 aprile del 1996 del Consiglio Superiore della Sanità di G.B. Serra, “Fisipatologia del rapporto medico-paziente in ginecologia”, Milano, 2000, 77. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

41 A. Fiori, “Medicina legale della responsabilità medica”, Milano, 1999, 109; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss..

42 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

43 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

44 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

45 G. M. Vergallo, op. cit.

46 Cass. civ., n. 14638 del 2004. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

47 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

48 Cass. civ., n. 5444 del 2006, precisa che “l’obbligo di informare grava sullo specialista che effettua la prestazione; non viene in rilievo, infatti, la circostanza che il trattamento sia stato richiesto dal paziente, in seguito alla prescrizione di un altro sanitario, in quanto il medico che esegue il trattamento decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta”. SI veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

49 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

50 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

51 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

52 F. Ambrosetti, M. Piccinelli, R. Piccinelli, “La responsabilità nel lavoro medico d’équipe”, Torino, 2003, 144; F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 390, secondo il quale al paziente che ne faccia richiesta deve essere lasciata la possibilità di conferire direttamente con il medico che eseguirà il trattamento; R. Cataldi, C. Matricaldi, F. Romanelli, S. Vagnoni, V. Zatti, “La responsabilità professionale del medico”, Rimini, 2006, 37. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss..

53 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

54 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

55 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

56 G. M. Vergallo, op. cit., 109 ss.

57 L’informazione a cui si fa riferimento è quella che riguarda tutte le cognizioni utili per far sì che il paziente arrivi a prendere una decisione il più possibile consapevole. Tale premessa è importante perché evita di confondere i casi di cui si sta trattando con quelli in cui l’obbligo di informazione costituisce l’oggetto stesso del contratto d’opera professionale oppure è funzionale alla conservazione dei benefici conseguiti attraverso il trattamento terapeutico. V. B. Muscatello, “Il consenso dell’uomo qualunque (I diritti presi poco sul serio)”, in Riv. It. Med. Leg., 2003; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

58 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

59 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

60 L’art. 3 del c.d.m. afferma che “la salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona”. G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

61 Del resto, se l’informazione tendesse solo alla salvaguardia della libertà di autodeterminazione, senza avere alcuna relazione con la salute del malato, sia essa intesa come integrità fisica oppure come benessere, la quantità di conoscenze da trasmettere al paziente sarebbe difficilmente ed arbitrariamente predeterminabile, perché legata a ciò che il paziente ritiene importante sapere prima di decidere. Quindi risulta confermato che la libertà di autodeterminazione, tutelata attraverso l’informazione, non può essere fine a sé stessa, ma deve tendere a realizzare anche la salute del paziente. G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

62 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

63 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

64 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

65 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

66 M. Bilancetti, “Responsabilità penale e civile del medico”, op. cit., 289-290; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

67 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

68 F. Giunta, ne “Il consenso informato all’atto medico tra i principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 388 ss., afferma che l’esigenza di modulare l’obbligo informativo in relazione alle esigenze conoscitive del singolo paziente non significa che l’obbligo di informazione sia illimitato. “Un’informazione assolutamente completa ed esaustiva non è nemmeno è possibile, dato che essa presupporrebbe cognizioni tecniche che si acquisiscono in anni di studio e di esperienza professionale. Pertanto, affinché l’informazione possa dirsi completa è sufficiente che il paziente sia stato messo al corrente di quegli elementi del quadro clinico necessari o anche solo utili per una scelta ragionevole; il medico non ha l’obbligo, invece, di assecondare le richieste di spiegazione su dati meramente tecnici che, attenendo esclusivamente alle modalità esecutive della terapia, non presentano alcuna incidenza sui fattori di rischio e di successo del trattamento medico”. G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

69 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

70 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra i principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 384; M. Portigliatti Barbos, “Il modulo medico di consenso informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica?”, in Dir. Pen. Proc., 1998, 894; F. Introna, “Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione deve essere dettagliata o sommaria?”, in Riv. It. Med. Leg., 1998, 828; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

71 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

72 G. M. Vergallo, op. cit., 114 ss.

73 Un modulo dettagliato di consenso è insufficiente ad assicurare il venir meno della litigiosità, in quanto il paziente vive come un’ingiustizia il fatto di non aver ricevuto informazioni per lui importanti o di aver malinteso il contenuto del documento. In tale ipotesi, il medico avrebbe buone possibilità di non soccombere in giudizio, perché potrebbe portare a propria difesa la firma del paziente in calce ad un corretto ed esauriente modulo informativo, ma sarebbe comunque esposto al pericolo di essere citato per danni, o indagato o querelato, oltre all’alea di ogni processo, il che rappresenta di per sé una pena per il medico, ed un problema angosciante per il sistema sanitario sia sul piano umano che su quello organizzativo e della qualità del servizio. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

74 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

75 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

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