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Assenso o consenso in psichiatria?
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Il principio è che nessun disturbo mentale, fino a prova contraria, di per sé considerato, al di fuori delle situazioni di emergenza o di quelle oggetto di tutela, consente di considerare il soggetto che ne è affetto come un minus habens da trattare in maniera diversa rispetto ad altri malati1. Al contrario, anche sul piano deontologico, è sempre doveroso ascoltarlo ed informarlo con attenzione2. Il paziente diventa partecipe del patto che intercorre tra sé ed il medico, così che i doveri di quest’ultimo, come più avanti illustrerò, e, di conseguenza la sua responsabilità, si collocano in una prospettiva consensualistica, venendo definiti qualitativamente e quantitativamente dalla volontà del malato, la quale funge da presupposto e limite della posizione di garanzia dell’agente3. Dalla lettura congiunta degli artt. 2, 13 e 32 Cost. si giunge a tale conclusione: l’ultimo è il referente più immediato del diritto alla salute, unico che la Costituzione qualifica come “fondamentale e che è proteiforme, nel primo comma presentandosi come “diritto ad essere curati” ovvero a ricevere prestazioni sanitarie, e nel secondo come diritto di non essere curati ovvero di rifiutare le cure4. Questo in rapporto all’art. 13 Cost. riconosce al paziente la piena libertà di autodeterminarsi, fino alla libertà di lasciarsi morire attuata attraverso il consapevole rifiuto di farsi curare5. Da un’interpretazione di sistema con l’art. 13 Cost. e con le garanzie previste ivi di doppia riserva, di legge e di giurisdizione, contro ogni forma di coazione sul corpo, l’imporre un trattamento, anche se vitale, contro la volontà del paziente ed la di fuori delle ipotesi obbligatorie ex lege previste, determinerebbe la violazione della stessa libertà personale, ex artt. 2 e 3 Cost., come “libertà psicofisica”, della mente e del corpo nella loro “indissolubile unità”6. Inoltre la riserva di legge ex art. 32 Cost., ai fini della sottoposizione ai trattamenti sanitari obbligatori, presenta un quid pluris rispetto ad altre riserve di legge, cioè è una riserva di legge rinforzata , per cui ove sono previste limitazioni ai diritti, anche la legge stessa è soggetta a taluni vincoli insuperabili7. In questo senso dunque ad intervenire può essere esclusivamente una legge, che deve avere un certo contenuto, in positivo ed in negativo: l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori può essere ammessa, in base al primo comma dell’articolo in questione, nel quale la salute è “fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività”, solo quando in gioco sia attualmente e direttamente un interesse collettivo8, pubblico e nella tutela della società dai rischi connessi alla patologica psichiatrica, nel caso di specie, trova la sua adeguata giustificazione; la previsione di trattamenti sanitari obbligatori non può in alcun caso “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, come emerge anche dall’art. 2 Cost., che salvaguarda la dignità e l’identità personale9. Dai i due articoli appena citati si ricava una nozione di diritto alla salute, come libera espressione di sé, di autodeterminarsi nel modo di intendere la vita, nel rapporto con la malattia e con il proprio corpo10, ma non basta: al di là della libertà di scelta, del diritto di decidere in merito alla propria sorte, in tutti i diritti esso è un aspetto essenziale, quello della disponibilità di ciascun interesse protetto, articolandosi nelle libertà fondamentali, quali la libertà personale, di circolazione, di riunione, di associazione, di fede religiosa, di manifestazione del pensiero (artt. 13-21 Cost.)11. Accanto ad una visione oggettiva, data dalla semplice assenza della malattia, è stata introdotta una dimensione soggettiva del diritto alla salute, e quindi di autodeterminarsi nell’an e nel quomodo della terapia, ovvero la percezione di sé come soggetto integro da parte del paziente, come uno stato di completo benessere fisico e psichico che non può prescindere gli aspetti interiori della vita individuale12. Quindi la psichiatria ha superato la concezione del malato di mente come persona pericolosa ed è arrivata ad un approccio fiduciario, di collaborazione medico-paziente indirizzata al miglioramento della salute, intesa nella sua accezione più ampia13. In questa diversa prospettiva, sono sorte nuove responsabilità per lo psichiatra, non più incentrate esclusivamente sui doveri di sorveglianza e di custodia, bensì attente anche alle problematiche dell’informazione e del consenso14. Al riguardo, in dottrina sono stati proposti vari modelli per valutare la competenza del paziente ad esprimere un consenso informato valido sul piano medico-legale, deontologico ed etico, senza, tuttavia, poter giungere ad alcuna indicazione definitiva15. Il problema consiste nella difficoltà di applicare la nuova visione del rapporto medico-paziente al malato psichiatrico. Le infermità presentate da quest’ultimo influiscono sulla capacità di recepire le informazioni, di comprenderle e di esprimere il proprio punto di vista. È, quindi, oggettivamente difficile chiedere una valutazione ed una scelta a chi ha bisogno di cure proprio in ordine ad un deficit di giudizio dell’esame della realtà16. In proposito, come si rileva in dottrina, “è vero che anche nelle più gravi patologie psicotiche persistono delle aree psichiche funzionanti: ma l’autentica capacità di scegliere dipende da un atteggiamento globale integrato, ideativo, cognitivo, ed affettivo, dell’intera personalità17. Per questo motivo è indubitabile che, quando si passa dalla semplice enunciazione di principi generali alla loro applicazione, la trasposizione di tutte le caratteristiche del consenso, l’adesione alla scelta terapeutica in modo consapevole, libero, spontaneo ed espresso, appaiono di difficile applicazione perché la malattia interessa proprio quelle funzioni mentali che dovrebbero servire a comprendere le informazioni date dal medico e a decidere liberamente di conseguenza18. Nel rapporto medico-paziente psichiatrico, pertanto, non sembra potersi declinare il rapporto paritario che il codice deontologico e la dottrina medico-legale vorrebbero, quale ineludibile premessa di ogni rapporto tra i due che sia giuridicamente valido19. Nei casi in cui il processo attivo del consenso è difficoltoso, la dottrina psichiatrica ritiene sia più corretto parlare di un “assenso” al trattamento, in quanto il paziente non si oppone esplicitamente alle terapie prospettate, ma, al tempo stesso, non partecipa con un’adesione che possa definirsi “attiva”20. Si prospetta, dunque, una condizione terapeutica nella quale è prevalente l’aspetto di dipendenza, che attraverso l’informazione e la comunicazione si cerca di superare21. Il consenso, invece, deve intendersi come un incontro di volontà, partecipazione e comunione di intenti, il cui obiettivo è la costruzione di quell’alleanza terapeutica sulla quale articolare il progetto di cura22. Compreso che, nell’intento di tutelare la salute psichica, non sempre dalla persona si può ottenere un consenso libero, personale, esplicito, consapevole e partecipe, si deve sottolineare che ciò non esime il medico psichiatra dal dovere di informare, programmando contenuti, tempo e modalità comunicative23. Infatti, la dottrina ricava dall’esperienza clinica che il paziente psicotico, pur presentando compromissioni del proprio livello di funzionamento, conserva spazi di responsabilità e di autodeterminazione che devono essere valorizzati nel rapporto professionale24. Il consenso allora non è un atto solo formale che si possa chiedere ed ottenere una tantum o nell’immediatezza del primo incontro, assunto il quale il medico acquista la libertà di manovra fintantoché lo ritiene necessario. Si tratta, invece, di un processo continuo, fatto di contenuti precisi, che ha tra i requisiti fondamentali quello dell’attualità, di cui a lungo abbiamo discusso25. Dunque, non è necessario acquisirlo all’inizio della prestazione, ma deve essere confermato per l’intera durata del trattamento, anche quando l’adesione è messa in crisi da fatti contingenti, da resistenze manifestate dal paziente e, comunque, da fattori riconducibili all’interno della malattia26. Per questo motivo, è evidente che, in considerazione del fatto che il consenso deve essere ribadito quale atto di accettazione consapevole per l’intera durata della prestazione, ma al tempo stesso che il paziente non sempre è in grado di fornirlo, il medico si trova nella scomoda situazione di operare in un clima di incertezza e di approssimazione27. Ciò, come già affermato, non deve portare il terapeuta a sostituirsi al paziente, né tantomeno a ricostruire in via presuntiva la sua volontà28. Il problema del consenso informato in psichiatria rimanda al concetto di “capacità di intendere e di volere” che ha valore in ambito forense, ma che a parere della dottrina medico-legale “non corrisponde ad alcun assetto psichico definito ed affidabile e tanto meno a chiari parametri psicopatologici29. Tanto è vero che (…) in ambito bioetico si preferisce usare il termine inglese di competence o capacity, che fa riferimento alla generica capacità di un individuo di orientarsi nello spazio e nel tempo, di essere capace di comunicare e di esprimere la propria volontà (…); è “un insieme di capacità, un’attribuzione psicologica assai articolata e complessa che riguarda atti diversificati, per cui una persona può essere competente in alcuni settori del suo agire e non in altri”, cosicché essa “deve essere sempre contestualizzata, nel senso che deve essere sempre riferita a un atto specifico, riportata a quel preciso contesto, a quel determinato problema, al momento della decisione e al correlato funzionamento mentale del soggetto interessato dalla decisione30. La questione viene posta, così, alla rovescia: si suppone a priori che ciascuno di noi sia in possesso delle sue facoltà, ma è l’ipotesi, semmai, che va dimostrata”31. Da un punto di vista medico-legale, quindi, è evidente che non ci sono strumenti normativi da invocare per poter operare in regime di assoluta legittimità con pazienti che non siano in grado di formulare un valido consenso o la cui validità sia continuamente messa in crisi da un approccio superficiale, labile o discontinuo32. La libertà decisionale del paziente e, di conseguenza, la validità del consenso informato sono condizionate da fattori complessi, quali il livello di compromissione cognitiva ed emozionale e l’intensità del rapporto di dipendenza terapeutica. Basti pensare al fatto che al malato può mancare la coscienza di malattia, che il disagio del disturbo mentale può essere percepito molto di più nell’ambiente circostante, nella famiglia, piuttosto che dal paziente stesso, per cui in questi casi raggiungere un consenso attivo ed informato rispetto al piano terapeutico proposto può rappresentare quasi un punto di arrivo piuttosto che un punto di partenza per lo psichiatra33. Per questi motivi, tutta la dottrina psichiatrica concorda sul fatto che l’elencazione dei requisiti necessari per considerare valido un consenso sono distanti dalla realtà e che, pertanto, “con simili pazienti il consenso può divenire non un pre-requisito essenziale per dare inizio alla terapia, ma più spesso uno degli obiettivi da raggiungere attraverso un lungo lavoro terapeutico”34. Dunque molti interventi, “in campo psichiatrico iniziano proprio basandosi sul semplice assenso che, in seguito, nel costruirsi di un contesto clinico favorevole, nel divenire dell’alleanza terapeutica e nello stabilirsi di un clima di reciproca fiducia, si può trasformare in un vero e proprio consenso”35. Ne deriva che non bisogna assumere atteggiamenti paternalistici rispetto alle decisioni che il paziente deve prendere con il suo terapeuta, ma neanche deve ritenersi indispensabile l’acquisizione di un consenso perfettamente configurato sia sotto il profilo della forma che dei contenuti. Inoltre, non appare necessario acquisire il consenso dei congiunti36. Può accadere, però, anche il contrario, ossia di iniziare un trattamento con un valido consenso che poi si dissolve con il passare del tempo per l’evoluzione del disturbo psichico, come nella malattia dell’Alzheimer37. È importante che l’informazione confluisca nella comunicazione, ma nei casi specifici anche il livello dell’assenso è sufficiente per iniziare un intervento che può riguardare sia l’accertamento della malattia che il suo trattamento38. Perplessità in ordine alla validità del consenso informato investono anche i disturbi depressivi, infatti “ci si può ragionevolmente chiedere che senso abbia considerar valido il consenso informato in un grave depresso, con deliri e con grave rallentamento psicomotorio che ostacola o impedisce ogni forma di comunicazione”39. La dottrina psichiatrica più accreditata sottolinea come un aspetto importante della comunicazione sia la “restituzione del consenso”40. Non è sufficiente la certezza di aver fornito informazioni in maniera chiara, semplice, di facile comprensione; è necessario verificare cosa, di quello che lo psichiatra ha spiegato, il paziente ha effettivamente recepito. Quindi, è compito clinico dello psichiatra valutare il grado di attenzione e di comprensione, nonché la coerenza e la validità della risposta ricevuta41. Da queste premesse discende il carattere dinamico del consenso, da intendere come un processo che accompagna tutta la relazione tra medico e paziente42. La validità del consenso al trattamento da parte del paziente psichiatrico richiede che vengano soddisfatte alcune condizioni concernenti le capacità in merito alla decisione di accettare o rifiutare un trattamento psichiatrico ed in particolare: la capacità di comprendere le informazioni essenziali, di elaborarle razionalmente, di valutare la situazione e le probabili conseguenze di una scelta e di comunicarla43. Pertanto, sia che si tratti di un soggetto per il quale si giudichi opportuna una terapia farmacologica, sia in caso di trattamento di tipo analitico, di fronte al rifiuto consapevole del paziente il medico deve astenersi dal dar corso alla terapia. Il limite che lo psichiatra non deve superare è il rifiuto esplicito del paziente al trattamento44. In questi casi, ove ricorrano le condizioni di legge, potrà essere attuato un trattamento sanitario obbligatorio, altrimenti lo psichiatra deve rispettare la volontà e la libertà del paziente45. Se non lo facesse ed indirizzasse la sua opera verso trattamenti di prevenzione che limitano la libertà del paziente, con presidi, ad esempio, di tipo farmacologico, agirebbe in contrasto con i desideri di questi ed in una direzione che si allontanerebbe dalla nuova impostazione del rapporto tra medico e paziente, che esige il rispetto dell’autonomia e della libertà attraverso gli strumenti dell’alleanza terapeutica che passa per l’informazione ed il consenso46. Quando l’intervento terapeutico viene svolto con la partecipazione di un’équipe curante, come accade nell’ambito dei servizi psichiatrici, il consenso acquisito da uno dei componenti deve ritenersi implicitamente esteso a tutti gli altri47. Quanto alla forma dell’atto di consenso, sarà opportuno che questo sia scritto e accompagnato da un dettagliato foglio di informazioni, almeno per quei casi che hanno un certo carattere di invasività: ci si riferisce ai trattamenti con elettroshock ed a quelli con farmaci neurolettici che possono alterare le condizioni psichiche e fisiche48. Per una corretta formalizzazione è indispensabile che il paziente o altro per suo conto pongano la firma sia sul foglio delle informazioni che su quello del consenso49.
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Informazione e comunicazione in psichiatria
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Come dichiarato nel precedente paragrafo, la capacità decisionale richiesta al paziente è specifica, relativa alla propria salute ed alla propria vita e non può prescindere da una conoscenza dei contenuti piena e dei risvolti positivi e negativi della scelta da compiere50. Quindi il medico sarà tenuto a fornire il più elevato ed accessibile grado di informazioni, ottemperando il suo primario dovere informativo, colmando il deficit dovuto alla tecnicità sostanziale. L’informazione in psichiatria è un problema che ha fatto discutere, senza giungere ad una soluzione condivisa, la dottrina medico-legale51. Infatti i dubbi non sono stati del tutto sciolti e sono consistenti e talmente vari che non è possibile fornire in questa sede una analisi dettagliata. Il complesso problema del consenso informato è stato affrontato anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica che ha sottolineato la natura graduale e mutevole della capacità di intendere e di volere anche nel caso della psicosi in quanto tra l’assoluta incapacità, propria della demenza, e la normalità, vi sono una serie di gradi intermedi, dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono determinarne diminuzioni, ma non la totale assenza52. Analizzando la problematica dell’informazione e del consenso i pazienti psichiatrici possono essere distinti in due categorie: quelli affetti da forme patologiche che si traducono nell’impossibilità ed incapacità di intendere e di volere, anche temporanea o parziale, causata ad esempio da psicosi e stati confusionali, e quelli affetti da patologie in cui sono alterate solo funzioni che non intaccano queste capacità, come i nevrotici53. L’informazione deve essere fornita in maniera tale da non viziare la decisione del paziente e deve essere tanto più precisa e dettagliata quanto maggiori potrebbero essere i rischi, gli effetti indesiderati e le possibilità di insuccesso della terapia. Soprattutto in questi casi, il medico deve essere accreditato delle capacità di una valutazione psichica, anche se sommaria, del paziente e lasciato arbitro dei contenuti dell’informativa54. La dottrina medico-legale riconosce al medico un ambito di discrezionalità entro cui poter valutare liberamente se è il caso di informare più o meno dettagliatamente il malato, fornendo una informazione minima di base, sempre dovuta a tutti55. Partendo dal presupposto che l’informazione è ineliminabile per conseguire il consenso del malato, lo psichiatra deve contestualizzarla, tenendo conto del livello cognitivo e culturale del paziente, del tipo di notizia che gli si deve dare e della difficoltà del problema da affrontare, oltre che delle sue condizioni emotive. In altri termini, deve adattarla alle sue capacità56. È questo il modo per passare da un’informazione impersonale ad una autentica comunicazione. Essa, comunque, deve comprendere un attendibile e comprensibile orientamento diagnostico relativo alla condizione attuale del paziente, le caratteristiche del trattamento prescritto, le motivazioni che sostengono la prescrizione, i vantaggi riconoscibili per il trattamento prescritto, sia a breve che a lungo termine, gli svantaggi ed i rischi correlati al trattamento stesso57. Il paziente, ove possibile, deve essere informato dell’incidenza, della gravità e dei possibili antidoti, degli effetti indesiderati più gravi del trattamento prescritto e delle possibilità di prescrivere un trattamento alternativo, farmacologico o non, considerandone vantaggi e svantaggi58. Quindi, in psichiatria non è sufficiente che l’informazione sia tecnicamente corretta, completa, comprensibile, chiara e che soddisfi tutti i requisiti che il medico “informatore” deve rispettare, ma è importante che venga offerta in un contesto relazionale significativo e che il “ricevente” sia in grado di decodificare correttamente, almeno nelle sue linee di massima, il messaggio che gli è stato trasmesso59. Infatti, “il significato reale del consenso informato è vincolato non tanto al contenuto dell’informazione scritta, ma piuttosto a quanto di tale informazione il paziente recepisce effettivamente. In altre parole, il soggetto non acconsente a ciò che gli viene detto, e tanto meno a ciò che è scritto, ma a ciò che capisce60. È stato dimostrato che il livello di comprensione e ritenzione dell’informazione non è elevatissimo in condizioni normali; a maggior ragione ciò è applicabile a condizioni critiche”, quali appunto quelli del paziente con deficit psichico61. Ogni informazione, avendo origine da una certa realtà clinica, dovrebbe andarsi a collocare negli spazi di autonomia, di libertà e di capacità che si presume il malato ancora possegga. Ma non basta: la sua risposta varia al variare del livello nozionistico e culturale di base62; del tipo di intervento proposto63; dell’essere stato o meno intrapreso un percorso di cura e di assistenza, in corso di somministrazione di psicofarmaci o di psicoterapia o di terapie combinate; dalle caratteristiche del contesto in cui avviene l’incontro con l’operatore sanitario, ad esempio in ambulatorio o nell’abitazione64. In ogni caso, il paziente deve essere informato relativamente a diagnosi, indicazioni terapeutiche e terapie alternative, conseguenze delle terapie e della mancata terapia, durata della terapia, prognosi65.
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La scriminante del consenso negli accertamenti diagnostici
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Lo psichiatra, come ogni altro specialista, ha la necessità di richiedere accertamenti diagnostici. Questi possono essere di natura non cruenta e/o immuni da rischi, come visite specialistiche o esami di laboratorio, oppure cruenti e presentanti un certo margine di rischio, come esami angiografici o con iniezioni di mezzi di contrasto66. Come principio avente carattere generale, è necessario limitare gli esami del secondo tipo al minimo, utilizzando accertamenti analoghi, effettuati di recente perché richiesti da altro specialista o struttura sanitaria affidabile, sia per non sovraccaricare il paziente, che spesso è sottoposto ad un lungo iter diagnostico strumentale, sia per non gravare la sanità di costi evitabili67. Anche nel caso in cui debba prescrivere esami radiografici, lo psichiatra deve essere attento a fornire informazioni ed a richiedere il consenso del paziente, non esitando a ricorrere ad esami meno rischiosi, anche se meno probanti, quando il paziente rifiuti decisamente di sottoporsi all’esame prescritto68. È necessario motivare, magari nella richiesta scritta fatta al radiologo, l’esame ed il fine che si prefigge, sottolineando che per tale indagine specialistica è stato chiesto ed ottenuto il consenso informato del paziente69
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Il privilegio terapeutico
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Una particolare importanza assume, nel consenso al trattamento del paziente psichiatrico, il cosiddetto “privilegio terapeutico”70. Nella letteratura anglosassone il therapeutic privilege è riferito alla condizione nella quale il medico omette di dare, per sua decisione o su richiesta del paziente, alcune informazioni che potrebbero compromettere l’accettazione al trattamento proposto, in nome del dovere primario del medico di curare nel miglior modo il proprio paziente e di tutelare, quindi, il diritto di quest’ultimo alla salute71. Se non pone problemi la richiesta del paziente di non essere informato, in quanto espressione della libertà sancita dall’art. 33, ultimo comma, del codice di deontologia, molto controversa è l’ammissibilità della scelta del medico di tenere il malato psichiatrico all’oscuro di alcune informazioni72. Come regola generale, l’utilizzazione del privilegio terapeutico viene considerata contraria ad uno dei presupposti essenziali del consenso informato, ossia la necessità di dare un’informazione obiettiva e completa al paziente in merito alla diagnosi, alla prognosi ed alle opzioni terapeutiche73. Di fatto, spesso gli psichiatri utilizzano il privilegio terapeutico nei casi in cui è necessario effettuare un trattamento, in mancanza del quale sarebbero certe le ricadute negative in termini di salute74. La tendenza della letteratura anglosassone è quella di permettere al medico di modulare, ma anche di omettere, le informazioni tali da indurre nel paziente una reazione emotiva che non permetterebbe una discussione razionale delle modalità del consenso informato. Inoltre, anche l’art. 33, comma 2, del c.d.m., stabilendo che il medico deve informare il suo assistito “tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuovere la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”, implicitamente accetta un cauto uso del privilegio terapeutico in particolari circostanze75. Del resto, il fatto che il medico si ponga il problema di quali informazioni non dare per evitare che il paziente rifiuti le cure è sintomatico di un’attenzione verso il suo problema psichico, la quale è ben più apprezzabile rispetto all’alternativa di trattare tutti i pazienti nel medesimo modo, banalizzando e massificando la relazione terapeutica76.
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Il “contratto di Ulisse”
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La dottrina discute se il paziente affetto da disturbi psichiatrici di andamento cronico, remittente recidivante, che tipicamente si configura nel disturbo bipolare, ma anche nei disturbi deliranti cronici e schizoaffettivi, possa lasciare direttive anticipate nei periodi intercritici77. Il vincolarsi da soli nel caso si verifichino specifiche situazioni è parso un modo prudente di gestire momenti di irrazionalità78. Questo tipo di scelta è stato anche definito in termini di “comportamento strategico” come quello di Ulisse che si legò all’albero della nave per non soccombere al canto delle sirene, dando nel contempo precisi ordini ai suoi marinai di non obbedirgli qualunque protesta egli elevasse79. Con il termine “contratto di Ulisse”, dunque, si è chiamato il particolare accordo tra un paziente psichiatrico ed i suoi medici, per cui il primo acconsente ad essere ospedalizzato, oppure trattato con terapie specifiche contro la sua volontà nei periodi di crisi80. Da un punto di vista medico-legale la dottrina ha proposto alcune limitazioni a tale tipo di “contratto”. Innanzitutto, dovrebbe essere limitato ad alcune malattie psichiatriche e solo dopo che il paziente sia già passato attraverso almeno due episodi di completa remissione; la persona, quando accetta il contratto, deve essere libera da sintomi psichiatrici e da ogni tipo di coercizione81. Inoltre, il contratto deve essere possibile solo all’interno di una relazione psichiatrica già stabilita con reciproca fiducia. Ulteriore requisito è che il contenuto delle direttive anticipate deve essere chiaro e circostanziato: il paziente deve sapere quale trattamento accetta in anticipo e per quali sintomi, senza che vi sia possibilità di alcun fraintendimento82. Infine, il periodo di validità legale del contratto deve essere definito e limitato, come ugualmente limitato deve essere il periodo durante il quale il paziente può essere trattato contro la sua volontà. Tale disciplina appare coerente con quella elaborata, in prospettiva generale, dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento83.
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Il ruolo della famiglia e dello psichiatra
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La peculiarità delle malattie ora considerate rende più significativo, rispetto ad altri trattamenti medici, il coinvolgimento di terze persone che, conoscendo bene il malato, possono essere d’aiuto nell’instaurare e nel coltivare il percorso terapeutico84. Infatti, mentre in altre specialità mediche il piano terapeutico può essere mantenuto in un rapporto individuale diretto ed esclusivo tra medico e paziente, eventualmente con l’intervento del personale tecnico, ove siano necessari supporti strumentali, in campo psichiatrico per poter realizzare proficuamente la strategia di miglioramento dello stato di salute è spesso importante la collaborazione dei familiari, amici o anche di altre persone che vengono comunque in frequente contatto con il paziente. Ne risulta così che la relazione terapeutica non si sostanzia più solo in un dialogo fra due persone, ma si estende ad altri che vi partecipano in vario modo e con diversi ruoli85. Tuttavia, in virtù del combinato disposto degli artt. 34 e 12 c.d.m, la loro partecipazione può avvenire solo con il consenso del diretto interessato, a meno che vi sia grave pericolo per la vita del malato stesso ed il “paziente medesimo non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità d’agire e/o di intendere e di volere; in quest’ultima situazione peraltro, sarà necessaria l’autorizzazione dell’eventuale legale rappresentante laddove precendentemente nominato”86. Da un punto di vista giuridico, nessun peso può essere attribuito al parere espresso da parenti e familiari, c.d. parere-assenso, perché nel nostro ordinamento la famiglia non può essere diretta autrice di decisioni, ma può essere informata e chiamata in campo in presenza di “una giusta causa di rivelazione di segreto professionale”, secondo l’art. 10 c.d.m.87 La questione del coinvolgimento dei familiari e l’idea di renderli partecipi al processo terapeutico non è stata ben accolta da una parte della dottrina psichiatrica, che ha voluto collocare il consenso del paziente in una cornice più ampia ammettendo la necessità di figure che possono essere significative ed importanti per il paziente88. In ogni caso, sia che il contesto familiare sia in sintonia con le vedute del paziente, sia che invece si opponga, è fuori discussione che un’adesione rigorosa ai principi del consenso non consenta di aggirare in alcun modo la volontà dell’interessato, che lo psichiatra è tenuto a rispettare. Il consenso, infatti è e resta personale anche nel caso del paziente psichiatrico e una volta reso manifesto dovrà essere rispettato, a meno che ricorrano le condizioni per un trattamento sanitario obbligatorio89.
1 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
2 U. Fornari, “Il consenso informato in psichiatria”, Torino, 2007, 210 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
3 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.; C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
4 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.; C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
5 F. Modugno, “Trattamenti sanitari non obbligatori e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue”, in Dir. Soc., 1982, 303 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
6 F. Modugno, “I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale”, Torino, 1995, 12 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.; C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
7 V. Crisafulli, “Lezioni di diritto costituzionale”, Padova, 1993, 61 ss.; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.; C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
8 C. cost., n. 307/1990, precisa che “una legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
9 La stessa Corte Costituzionale ricorda che l’art. 13, comma 2, Cost. “appronta una tutela che è centrale nel disegno costituzionale, avendo ad oggetto un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e strettamente connesso diritto alla vita ed all’integrità fisica, con il quale concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona; C. cost., n. 238/1996. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
10 A. D’Aloia, “Al limite della vita: decidere sulle cure”, in Quad. Cost., 241 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
11 G. Iudica-P. Zatti, “Linguaggio e regole del diritto privato”, Padova, 2010, 162. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
12 P. Zatti, “Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele)”, in Nuova giur. Civ. Comm., 2000 II, 3 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
13 C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
14 C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
15 AA. VV., “Trattato Italiano di Psichiatria”, Milano , 1993; U. Fornari, “Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense”, Torino, 2001; F. Ferracuti, “Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense”, Milano, 1990. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 74 ss.
16 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
17 S. Argentieri, “Validità del consenso dei pazienti psichiatrici nelle sperimentazioni farmacologiche. Il punto di vista medico e deontologico”, Pisa, 2005, 208 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
18 U. Fornari, “Quale consenso informato in psichiatria?” in AA.VV., “Il consenso informato in psichiatria”, Torino, 1997; G. Vella, A. Siracusano, “Il consenso informato in psichiatria”, Roma, 1996. Vedi G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
19 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
20 U. Fornari, “Il consenso informato in psichiatria”, op. cit. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
21 R, Catanesi, F. Carabellese, V. Bologna, “Assenso o consenso informato? Indagine sui ricoverati nel SPDC del Policlinco di Bari” in U. Fornari, S. Coda, M. Iorio, “La valutazione della capacità decisionale in Psichiatria di consultazione”, Torino, 2003, 120. Gli autori hanno condotto una ricerca su 85 ricoverati in regime di volontarietà, giungendo al seguente risultato: “Si tratta di pazienti psicotici, in cura da oltre sei anni, che in numero non limitato non conoscono il motivo del loro ricovero, neppure in approssimazione, che non sanno quale sia la prognosi della loro malattia, quale sia la vera funzione dei farmaci assunti di cui conoscono in parte i nomi e abbastanza bene la posologia”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
22 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
23 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
24 U. Fornari, S. Coda, “Il consenso nella pratica psichiatrico-forense”; U. Fornari, S. Coda, M. Iorio, “La valutazione della capacità decisionale in Psichiatria di consultazione”, op. cit., 147 ss., rilevano che l’acquisizione del consenso informato non presenta una rilevanza circoscritta alla sola responsabilità professionale, in quanto comporta anche benefici nella psicoterapia: in particolare, aiuta il medico ad evitare che gli vengano attribuite “posizioni magico-onnipotenti”; prospettando al paziente i trattamenti alternativi, svincola la proposta terapeutica “da quella sorta di campanilismo per il quale solo la “nostra” terapia è quella “buona””; rende la persona assistita più attiva e partecipe all’interno del trattamento; infine, riduce “il rischio del verificarsi di una dipendenza regressiva troppo accentuata”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
25 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
26 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
27 G. Frova, A. Santosuosso, “Situazioni di emergenza e pazienti incapaci” in A. Santosuosso, “Il consenso informato”, Milano, 1995, 185; G. G. Rovera, “La validità del consenso informato nella persona con disturbi psichici”, Torino, 1997; U. Fornari, “Il consenso informato in psichiatria”, op cit.; Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
28 C. Roxin, “Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale”, Napoli, 1996. In proposito, noto è il caso “Englaro”, in cui la paziente, morta il 9 febbraio del 2009, a seguito della sospensione di nutrizione ed idratazione artificiali, divenne improvvisamente e traumaticamente incapace, in condizioni di stato vegetativo, e non lasciò alcuna manifestazione espressa di volontà rispetto a terapie e scelte di fine vita, così che, con autorizzazione della Corte di appello di Milano, con decreto n. 88 del 2008, si procedette all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, idratazione ed alimentazione con sondino nasogastrico, su richiesta del genitore in veste di tutore. Ai fini della ricostruzione della volontà presunta, diretta, nel caso del paziente psichiatrico, non ad interrompere un trattamento ma ad intraprendere una terapia, la Cassazione si è espressa riconoscendo al giudice la possibilità di disattivare il sondino nasogastrico che provvede alla nutrizione ed idratazione e che tiene artificialmente in vita una persona in condizione di stato vegetativo irreversibile da moltissimo tempo, con conseguente incapacità di rapportarsi al mondo esterno, su richiesta del tutote che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, purché “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”. Nel 2012, con sentenza n. 20984, la Corte ha ribadito che il consenso del paziente all’atto medico deve concretarsi in una esplicita manifestazione di volontà consequenziale a un’adeguata attività informativa, e non può mai essere tacito o presunto neppure nell’ipotesi in cui il paziente sia a sua volta medico; presuntiva può essere la prova che un consenso informato sia stato effettivamente ed esplicitamente dato. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
29 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
30 U. Fornari, “Trattato di psichiatria forense”, Torino, 2013. Si veda C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
31 S. Argenteri, “Validità del consenso dei pazienti psichiatrici nelle sperimentazioni farmacologiche. Il punto di vista medico e deontologico”, op. cit. 209. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
32 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
33 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
34 R. Catanesi, F. Carabellese, “Il consenso nella pratica riabilitativa”; U. Fornari, “Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense”, Torino, 2001. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
35 U. Fornari, ne “L’informazione come strumento comunicativo e terapeutico”, in “Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense”, Torino, 2001, 18, sostiene che nella maggior parte degli ambulatori psichiatrici “la realtà e quella dei pazienti in condizioni di disagio soggettivo, con scarsa autonomia decisionale e carente consapevolezza della malattia, più o meno insistentemente sollecitati a curarsi dai familiari e dal contesto in cui vivono, con difficoltà più o meno gravi a comprendere l’esatta natura dei propri disturbi, le necessità terapeutiche ed il percorso da intraprendere per avviare un processo di presa in carico”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
36 A. Fiori, “Ripensare il consenso informato” in U. Fornari, S. Coda, M. Iorio, ne “La valutazione della capacità decisionale in Psichiatria di consultazione”, Torino, 2003, 183 ss., valorizzano la necessità di tornare alla “medicina della responsabilità”, basata sulla posizione di garanzia del medico. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
37 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
38 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
39 P. Pancheri, “Consenso al trattamento, ma quale consenso?”, in “Giornale Italiano di Psicopatologia”, 1999, fasc. 2 e 5. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
40 U. Fornari, “Il consenso informato in psichiatria” e “Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense”, op. cit., 29 ss.
41 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
42 G. M. Vergallo, op. cit., 256.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
43 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
44 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
45 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
47 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
48 G. M. Vergallo, op. cit., 259 ss.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
49 G. M. Vergallo, op. cit., 262.; C. Cupelli, op. cit., 82 ss.
50 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 262 ss.
51 È compito delicato quello di indagare che il consenso o il dissenso prestati siano reali, adeguati e validi, provengano cioè da persona autonoma nella propria decisione e che tale manifestazione di volontà, positiva o negativa permanga intatta e libera durante tutto il trattamento. Tra le regole minime per la valutazione del consenso o del dissenso espresso è fondamentale l’analisi del processo mentale che la persona segue nella ricezione, nella valutazione e nella restituzione dell’informazione datagli, al fine di decidere se ci si trova al cospetto di un paziente competente o meno; le abilità funzionali che lo psichiatra è tenuto ad esaminare per esprimere un giudizio motivato sulla validità della posizione assunta sono, da un lato, “la capacità di recepire e comprendere informazioni rilevanti per la decisione da prendere; la capacità di valutare il significato dell’informazione; la capacità di ragionare sulle informazioni ricevute; la capacità di esprimere una scelta, di decidere”, e, dall’altro, “il contesto temporale, situazionale e relazionale in cui si inseriscono adesione o rifiuto”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; J.M. Birkhoff, “Il consenso e la capacità di comprendere del paziente”, in La responsabilità professionale dello psichiatra”, Torino, 2006; G. Masotti-T. Sartori-G. Guaitoli, “Il consenso del malato di mente ai trattamenti sanitari”, in Riv. it. med. leg., 1992, 308 ss.; U. Fornari, “Trattato di psichiatria forense”, op. cit., 1035 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
52 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
53 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
54 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
55 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
56 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
57 C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
58 U. Fornari, “L’informazione come strumento comunicativo e terapeutico” e “Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense”, op. cit., 13 ss.. Si veda C. Cupelli, op. cit., 92 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
59 C. Cupelli, op. cit., 94 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
60 C. Cupelli, op. cit., 94 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
61 A. A. Bignamini, “Il consenso di chi non puà consentire in sperimentazione clinica: etica e Gcp a confronto”, in Med. Mor, 1999, 1094. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
62 Soggetti, ad esempio, con carenze a vari livelli, immigrati, extracomunitari, ecc. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
63 Psicoterapeutico che sia o psicofarmacologico; di ricovero o di invio in una struttura intermedia; di terapia domiciliare o ambulatoriale. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
64 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
65 E. Sacchetti, “Il consenso informato e le terapie psichiatriche, con particolare riferimento alle psicofarmacoterapie”; G. Vella, A. Siracusano, “Il consenso informato in Psichiatria”, Torino, 1997, 49 ss.. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
66 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
67 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
68 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
69 N. Lalli, “Manuale di psichiatria e psicoterapia”, Napoli, 1999, 846. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
70 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
71 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
72 G. M. Vergallo, op. cit., 265 ss.
73 G. M. Vergallo, op. cit., 265 ss.
74 Ciò è particolarmente evidente in quei casi in cui la comunicazione diretta della diagnosi, ad esempio nella schizofrenia, e della necessità di una terapia per un disturbo non ritenuto tale dal paziente, come nel delirio, può comportare un netto rifiuto al trattamento. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
75 G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.
76 G. M. Vergallo, op. cit., 265.
77 G. M. Vergallo, op. cit., 265 ss.
78 G. M. Vergallo, op. cit. 265 ss.
79 G. M. Vergallo, op. cit. 265 ss.
80 In Gran Bretagna, questo contratto è chiamato crisis card. Due obiezioni sono state mosse principali: la prima sostiene che vi è una differenza essenziale tra questo contratto e le direttive anticipate. Infatti, le direttive anticipate in caso di malattie somatiche presumono la perdita irreversibile dell coscienza da parte del malato, tale che egli non sia più in grado di prendere o comunicare alcuna decisione che lo riguardi, come nel caso dello stato vegetativo persistente. Ciò non è dato nei disturbi psichiatrici, dove invece il paziente rimane portatore di una volontà autonoma e della capacità di comuncarla agli altri. La seconda obiezione riguarda la scarsa affidabilità delle diagnosi psichiatriche: perché il contratto di Ulisse possa funzionare è necessario che sia possibile effettuare una distinzione netta, chiara e precisa tra condizioni mentali e comportamenti normali e patologici. Ciò non può essere e, di conseguenza, rimane un’area di discrezionalità eccessiva e pericolosa in ogni forma di contratto di di Ulisse. E. Mordini, “Psichiatria, deontologia ed etica medica” in AA.VV., “Lo psichiatra italiano”, Milano, 1997. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 264 ss.. M. Vergallo, op. cit.
81 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
82 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
83 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
84 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
85 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
86 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
87 G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
88 G. M. Vergallo, op. cit.
89 L. Ancona, “La tutela del malato psichico” in A. Bompiani, “Bioetica in medicina”, Roma, 1996. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 267 ss.
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