Mente ad arte
Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre
di Matteo Balestrieri

Gli attor-comici sono un po’ matti? Uno studio scientifico cerca di rispondere

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7 giugno, 2014 - 08:52
di Matteo Balestrieri

  A maggio di quest’anno è stato pubblicato sul British Journal of Psychiatry un articolo che poneva l’interessante domanda che ho cercato di tradurre nel titolo di questo blog (Ando et al., “Psychotic traits in comedians”, BJP 2014). Il tema è piuttosto inusuale per un giornale scientifico, ma rimanda a diversi concetti che collegano la creatività e l’abilità artistica a tratti di personalità o a condizioni psicopatologiche. Sulla questione “arte e pazzia” è stato anche scritto molto, assumendo che l’essere fuori degli schemi implica in una certa misura la presenza di bizzarrie comportamentali e verificando che un certo numero di artisti presentava segni e sintomi di sofferenza mentale. In genere l’osservazione è caduta su artisti delle arti figurative, come pittori e scultori, su diversi scrittori e poeti e anche sul mondo degli attori e registi cinematografici. Meno frequentemente invece lo sguardo si è diretto sul mondo del teatro.

  Credo non a caso, l’articolo riporta di uno studio condotto in Inghilterra, che può essere considerata la maestra in età moderna di questo genere di arte, grazie anche al grande contributo delle opere di William Shakespeare. Ricordo a questo proposito che l’opera omnia del grande Bardo viene suddivisa tradizionalmente in tre categorie: tragedie, commedie e drammi storici. Tra parentesi, l’Italia vanta anch’essa una tradizione plurisecolare da questo punto di vista (vedi Aretino, Ruzzante, Goldoni), con il solo torto di non poter godere di altrettanta popolarità internazionale per soli motivi di diffusione linguistica.

  Al mondo della commedia dell’arte è dedicato l’articolo di cui riporto ora. Bisogna osservare innanzitutto che l’artista che si esprime attraverso l’umorismo e la comicità utilizza modalità che da sempre sono considerate un segno sicuro di sanità mentale: essere capaci di guardare con ironia alle cose, se non è un comportamento stereotipato, rivela una buona capacità di guardare alle vicende del mondo assegnando loro un valore relativo e non assoluto. Inoltre ricordo che l’humour nasce dal mettere insieme due concetti distanti tra loro in una maniera inaspettata o, in altri termini, dal guardare a un concetto da una prospettiva inusuale e imprevista, in genere attraverso un processo di esposizione rapido, per impedire un’assuefazione all’idea espressa o l’innesco di un filtro cognitivo che razionalizza il concetto. Questo spiega perché le barzellette fanno ridere solo se raccontate bene, ed alcuni non le sanno proprio raccontare. Questa modalità di comunicazione è stata denominata da Koestler nel 1964 come “bisociazione”.

  E’ stato anche osservato che gli elementi creativi necessari per produrre l’umorismo sono molto simili a quelli che caratterizzano lo stile cognitivo dei soggetti bipolari e schizofrenici. Le affinità dell’umorismo riguarderebbero il “pensiero iperinclusivo” tipico della psicosi (illogicità, disorganizzazione, frammentazione del pensiero), ma anche il pensiero definito come “divergente”, cioè capace di cogliere punti di vista differenti dalla norma. Nella fase maniacale del bipolare molto più che nello schizofrenico il processo è facilitato dall’elevazione dell’umore e dalle potenzialità consentite grazie alla velocità dei nessi associativi.
  Lo studio inglese ha confrontato, grazie all’utilizzo di un questionario focalizzato sui sentimenti e le esperienze inusuali (come telepatia, pensiero magico o altre esperienze similari) che includeva dimensioni della bipolarità e della psicosi (questionario O-LIFE), un campione di attori di commedia dell’arte (o attor-comici) con un campione di attori non comici e un gruppo selezionato da una popolazione generale. I campioni sono stati selezionati tramite avvisi inviati ad Associazioni di commedia dell’arte e ad attori affiliati a Università.

  Che cosa emerge dallo studio? Sembrerebbe che sia gli attor-comici che gli altri attori presentino tratti di personalità molto più accentuati rispetto al gruppo della popolazione di riferimento. Il questionario ha rilevato in particolare che gli attor-comici avevano più spesso esperienze inusuali, distraibilità, anedonia (cioè difficoltà a percepire il piacere) e una tendenza alla impulsività. Anche gli altri attori avevano queste caratteristiche, ad eccezione dell’anedonia, dimensione in cui non erano differenti dal resto della popolazione studiata. In altri termini, tutti gli attori (comici e non) possedevano importanti doti di estroversione (cioè, di apertura all’esterno) e di scarso controllo dell’umore collegati all’impulsività, mentre i soli attor-comici possedevano anche rilevanti tratti di introversione (cioè di chiusura) collegati alla anedonia.

  Questi risultati hanno spinto gli Autori dell’articolo ad avanzare questa spiegazione: l’attor-comico è indifferente al giudizio del suo pubblico, ed è solo la componente impulsiva che lo porta ad esibirsi in pubblico. Al contrario, il migliore bilanciamento delle componenti introversive ed estroversive porterebbe gli attori non comici ad un rapporto più diretto e genuino con il pubblico.
  Personalmente ritengo che, anche se è legittimo e doveroso cercare di offrire una spiegazione ai risultati ottenuti con uno studio scientifico, il commento degli Autori si spinga al di là dei risultati ottenuti. Essi sottolineano la componente anedonica dell’attor-comico, collocandola nell’ambito della schizoidia (comportamento di isolamento, con il ritiro dai rapporti sociali). Ma gli attor-comici sono davvero così? Davvero salgono sul palco indifferenti al giudizio del loro pubblico? Francamente mi sembra poco probabile. Nella prospettiva della teoria dell’attaccamento, chi evita la vicinanza emotiva e l’affettività lo fa perché non è in grado di gestire le emozioni e presenta insicurezze personali e dubbi sulle proprie qualità e capacità. In genere tende a evitare i rapporti interpersonali per paura e convinzioni di rifiuto e abbandono. Il tratto introversivo è quindi frutto di timore e non di indifferenza. Se è nozione comune che la maschera del clown nasconde la tristezza (e alcuni degli attor-comici lavoravano davvero anche nei circhi) è però anche vero che l’apprezzamento del pubblico può essere un buon balsamo alla propria autostima. Quindi potrebbe essere vero che chi fa dell’umorismo è alla ricerca di un pubblico che lo applauda, così che non è giusto dire che è indifferente ad esso.
  Se qualche attore - ancor più se recita nella commedia dell’arte - vuol dire la sua, è il benvenuto.

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