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LA SALUTE E IL TELAIO. Pensieri a margine di una morte sul lavoro

8 Mag 21

A cura di Paolo F. Peloso

Fa impressione il contrasto tra l’immagine di serenità e giovanile freschezza che trasmette la fotografia della giovane mamma Luana D’Orazio diffusa in questi giorni, e la tragedia del lavoro che la ha vista vittima il 4 maggio a Prato. Ed è forse per questo contrasto che il mondo dei media si è soffermato con più attenzione – non priva di un certo fastidioso voyerismo – su questa rispetto alle 1.270 morti sul lavoro verificatesi nel 2020 (alle quali anche i lavoratori della sanità hanno contribuito con il pegno pagato alla prima fase di pandemia), o alle altre 185 dei primi tre mesi di quest’anno. E, tra queste ultime, quella di un suo coetaneo tunisino, Jaballah Sabri, morto anch’egli sul lavoro nel distretto tessile di Prato. Pare che – a quel che si legge – lo sfruttamento del lavoro non assumesse in quell’azienda la durezza che spesso lo caratterizza in altri casi, che imprenditrice e operaie lavorassero insieme in un clima familiare. Ma dalle prime notizie pare che una barriera di protezione fosse stata rimossa; un atto che, se vero, certo chi l’ha compiuto oggi non vorrebbe aver fatto… In ogni caso, la vicenda ci ricorda, con gli altri incidenti di Busto Arsizio, di Gubbio ecc. accaduti in questi quattro giorni, che quello tra lavoro, denaro e salute – e per ciò che riguarda la salute mentale ce ne siamo già occupati due volte in questa rubrica (vai al link) (vai al link) – è un rapporto in sé conflittuale. Qualche anno fa, mi è capitato di imbattermi nella figura di Giovanni Melchiori, un medico attivo a Novi a metà dell’Ottocento, e in un suo trattatello su incidenti sul lavoro e malattie professionali nelle filande di quello che era allora uno dei principali distretti tessili italiani. E oggi mi viene spontaneo riproporre qui qualche estratto di quella pagina di storia, dedicandolo a Luana, a Jaballah e agli altri morti o infortunati mentre lavoravano. Perché credo che sia giusto ricordare sempre che il capitalismo ha avuto sì nella storia – come Marx ed Engels riconobbero in una pagina letterariamente bellissima del “Manifesto” – uno straordinario valore propulsivo e il merito del miglioramento della qualità della vita per molti; ma anche che lo ha fatto – e lo fa – a prezzo di costi altissimi nel benessere, nella salute e a volte nella vita di molti di più.
 
Giovanni Melchiori era nato da famiglia nobile a Monzambano nel 1811. Si laureò in medicina e chirurgia presso l'università di Pavia. Patriota, fu perseguitato dalla polizia asburgica e costretto a fuggire in Piemonte nel 1840, dove fu nominato chirurgo primario all'ospedale S. Giacomo dei Pellegrini di Novi. Da medico, era spesso interpellato dalla popolazione a proposito di quadri morbosi le cui origini attribuiva agevolmente alle condizioni malsane del lavoro in filanda, o al fatto di abitare in ambienti pesantemente inquinanti da tale produzione. Nel 1846 figurava presente all’Ottava Riunione degli Scienziati Italiani a Genova, e a Novi riprese anche l’attività politica favorendo la fuga verso la Francia di patrioti perseguitati dalla polizia piemontese e l’ingresso in Italia di materiale clandestino dai circoli mazziniani all’estero. Durante gli anni novesi, sedette in Consiglio comunale insieme ai principali filandieri. Rientrato in Lombardia al seguito dell’esercito piemontese nel 1859, fu nominato direttore dell'ospedale di Salò. Poi, ormai anziano, si ritirò nella sua casa della frazione Colombara di Monzambano, chiamata oggi “Colombara Melchiori”, fino alla morte nel 1880.
Il breve saggio Osservazioni igieniche sulla trattura della seta in Novi (Voghera, Tip. di Cesare Giani, 1845) è prezioso su un duplice versante: sia come fonte di documentazione sulla vita delle classi subalterne a Novi e la loro stretta relazione, dentro e fuori la filanda, con il processo produttivo della seta; che come testo di medicina del lavoro, per le notizie che fornisce sulla condizione di lavoro delle filande sotto il profilo sanitario.
La seta, del resto, si presta molto bene a esprimere la metafora di quelli che erano in quegli anni i rapporti tra la classe degli industriali e “negozianti” (cioè commercianti) e quella dei lavoratori: agli uni la purezza, il candore, la freschezza, la morbidezza della seta prodotta; agli altri la puzza, il marcio, l’afa, la ruvidezza della sua produzione. Il medico appartiene ai primi, ma è costretto a misurarsi quotidianamente con la sofferenza dei secondi e di qui l’esigenza di darne testimonianza: «Se noi ci poniamo a esaminare le sorgenti da cui scaturiscono le ricchezze della Città manufattrice, nel mentre che ammiriamo la possanza dell’industria umana a convertire in preziosi arredi e in eleganti tessuti materie informi, come vennero da natura, non possiamo non rimaner rattristati dalla misera condizione di chi vi si affatica, ché malattie, e la morte stessa, più presto ci procaccia, che agi e robustezza».
Da ciò, la scomoda funzione del medico nel suo rapporto con i ceti dirigenti, rivendicata con un orgoglio che anche alla medicina dei nostri giorni dovrebbe essere di monito: «Commiserando gli avidi speculatori, circoscrivendo a giusta misura i loro guadagni, l’Igiene, che tutti gli uomini ugualmente beneficia, non poté starsene silenzioso alle ingiurie, che patiscono tanti dei suoi protetti, e in molte maniere, e in molti luoghi con precetti sociali e divini, alzò sua voce a tutelare l’umanità. Ella fece dei Medici, più di ogni altro, tanti suoi Ministri, e infondendo il cuore alla pietà, e alla saggezza, li costituì banditori della pubblica salute».
L’orario di lavoro riportato da Melchiori è dall’alba al tramonto, con un’ora di interruzione dalle 11 alle 12 per il pranzo; si comincia a giugno alle 3 e 45 e si va avanti per 16 ore e un quarto, fino alle 20; poi sempre meno fino a novembre, quando si lavora per 11 ore e un quarto, dalle 6 alle 17 e un quarto. Se a questo si aggiunge il tempo necessario per andare e venire da casa, per rigovernarla, provvedere alla prole, preparare lo spuntino per l’indomani, rimangono cinque o sei ore di sonno per riprendere le forze e affrontare il giorno dopo.
Le “maestre”, o trattrici, hanno in genere da 15 a 45 anni; devono mantenere sempre la stessa posizione al lato sinistro del banco, col tronco inclinato sulla destra verso la caldaia e la filiera e il torace ruotato nella stessa direzione: «Le mani sono sempre bagnate dall’acqua calda, in cui immerge le dita specialmente della destra. Il vapore di quell’acqua impura la coglie più d’ogni altro, le irrora e riscalda le braccia, il petto, il capo: è il veicolo precipuo dell’odore nauseante dei bozzoli di buona qualità, e di quello disaggredevolissimo dei sorbolliti e macchiati».

Le “aspiere” sono ragazze, o ragazzi, dai 9 ai 14 anni, o donne anziane incapaci di trarre la seta; alternando le due mani, fanno continuamente girare il naspo, in modo quanto più possibile celere e costante. I naspi sono tutti alla stessa altezza, e le operaie più basse lavorano quindi a braccia alzate.
Non sorprende che in questo inferno prosperino le malattie, alcune comuni a tutte le professioni, altre caratteristiche dell’una o dell’altra.
Sono molto diffuse nei primi mesi della trattura le affezioni gastroenteriche, e negli ultimi le malattie reumatiche; molto frequenti anche le malattie degli occhi, soprattutto per chi lavora nell’ambiente malsano delle gallerie. Nei periodi di diffusione di morbi epidemici, come la grippe del 1842, l’affollamento della filanda la rende un’incubatrice perfetta per la propagazione del contagio: «Dalla Brianza alla metà di giugno erano venute 102 donne, parte maestre, parte aspiere e sorvegliatrici tra i 12 e i 30 anni: 73 di loro furono colte dalla grippe, avendone 10, 12 e perfino 20 contemporaneamente ammalate. Quello che avvenne di queste, di cui fu facile precisare il numero, perché assieme raccolte in due filande, successe alle altre del paese; e mi accertai che in alcune filature ve n’ebbero più che in altre, cioè nelle meno ventilate». Inoltre: «La scabbia curai in più individui della stessa filanda, ed ogni anno ciò accade, dipendendo dal contatto simultaneo, e dalla comunione di più individui dell’infimo ceto».
La maestra è l’operaia più esposta ad ammalare: «L’attitudine del suo corpo è assai incomoda, e dee produrre sempre disagio, ma più nella corpulenta, e nella gravida, che nella mingherlina (…). Il deliquio, e la sincope, benché molte volte sia sintomo di malattia interna subdola, o foriere di sua manifestazione, pure avviene per languore, per stanchezza, e per l’aria viziata; il quale talvolta si potrebbe prevenire, se fosse in arbitrio della maestra di condursi all’aperto, o se aver potesse un ristoro». L’estate prevalgono le malattie dell’apparato digerente: «Di fatto, come io feci, se ad una ad una interroghi le maestre di una filanda, trovi che più della metà si lagna di languori di stomaco, di acidità, di eruttazioni, di peso o dolore all’epigastrio, di dispepsia, anoressia, di bocca amara, limosa, di vomito, di dolori colici, di stipsi, di diarrea, di dissenteria, di flatulenze, e di tenesmo; le quali malattie o meglio sintomi, finché leggeri curano da sé, o li sopportano per più o meno di tempo per esser tollerabili col lavoro, ma aggravandosi si ha a curare febbri gastriche, gastro-intestinali, e talvolta le più gravi ed esiziali. Durante i mesi caldi precipuamente dimagrano, perdono il buon colorito, e l’ordinaria vigoria». Coll’autunno, subentrano le malattie cardiorespiratorie: «Qual mai operajo è più esposto al vicendare della temperatura della trattrice? Nel mentre che è riscaldata nel davanti e da un lato, dall’altro e nel di dietro è colpita da aria, o vento freddo, che entra dalla vicina finestra (…). Molte son prese da tosse, altre da oppressione di respiro, da strettura di petto ecc. (…). Il mal di capo è frequentissimo nelle trattici». E ancora: «L’utero, l’adjacente retto intestino, la vescica urinaria ammalano ben di spesso (…). Le emorroidi sono un retaggio della vita sedentaria, e le nostre maestre, che la guardano senz’interruzione e sono di frequente affette da irritazione dei visceri addominali, ne sono più che mai soggette (…). L’utero (…) si ammala non di rado. I sintomi principali (…) sono: dolore ai lombi, per cui tante volte si leva da sedere, stiramenti alle anguinaglie, dolenture alle fosse iliache, dietro al pube, al sacro, amenorrea, dismenorrea, metrorragia (…). Io fui richiesto di consigli moltissime volte da ragazze puberi divenute dismenorroiche ed amenorroiche nel secondo o terzo mese della trattura, sofferenti malessere generale, pallide in volto, con cefalea, cardiopalmo, e con leucorrea acre ed irritante; altre con mestruazione sì copiosa, e per lungo tempo durevole, irregolare, a corti intervalli, da incuter loro timori. Osservai che le maestre provenienti dalla Brianza, la maggior parte nubili, vanno soggette quasi tutte ad anormalità di mestruazione nel tempo che si traggono a Novi: nel maggior numero v’ha dismenorrea e anche amenorrea. Ritornando poi al proprio paese e dandosi ai soliti lavori per la massima parte della campagna, la mestruazione si riordina. Molte di esse vennero a Novi per 4, 5 anni a trar la seta, e ogni anno provarono lo stesso incomodo. Che v’influisca la diversità del cielo io lo credo, ma più di tutto al certo è la qualità del lavoro; di fatto nello stesso disordine vediamo incorrere le loro compagne del nostro paese».
Più impressionanti di tutte, le vicende relative alle donne gravide: «In ogni filanda, v’han donne gravide, e in buon numero e in ogni epoca. Costrette dalla necessità sopportano al banco tutte le molestie della gravidanza, e fino agli ultimi giorni vi si applicano, accadendo a molte di perdere le acque dell’amnios mentre che lavorano, e quivi incoarsi il travaglio del parto. In verità, che a vedere una donna prossima al parto a trar la seta eccita compassione per il disagio che mostra di soffrire. Il volume del ventre, che a destra dà contro al banco, le osta di adagiarsi nella posizione più comoda, e di mantenervisi, quindi maggiore sforzo del tronco e degli arti superiori, e più presto si stancherà delle altre. Queste donne risentono eminentemente l’azione dell’aria impura della galleria, e son quelle che più spesso cadono in deliqui o in sincopi, e che più offrono alla regione renale, e lombare, crampi ed intormentimenti degli arti inferiori, i quali gonfiano e s’infiltrano (…). Si presenta uno scolo mucoso della vagina abbondante, talor sanguinolento, cui tengon dietro metrorragie, l’aborto, il parto precoce, e la morte del feto. Dalle mie annotazioni, dell’esattezza delle quali posso guarentire, risulta che nel 1842 successero più aborti, e parti non naturali al tempo della trattura nelle donne che v’incumbevano, che in tutte l’altre nell’anno intiero. La posizione seduta e ricurva, lo scontro continuo al lato destro del globo uterino contro del banco, nuocono sommamente al feto».
Due casi clinici sono impressionanti; in un caso, la perdita del feto è preceduta da sintomi continui, e da uno sforzo drammatico di andare comunque a lavorare: «Io seppi dalle altre maestre sue vicine, che quella sgraziata accusava da molti giorni inquietudine, dolori ai lombi, al fianco destro e al pube, che ad ogni tratto levavasi da sedere, non potendo mantener in quella posizione che per poco tempo». Nell’altro: «Una donna di 31 anni madre di 4 figli, due dei quali avea dato alla luce coll’assistenza dell’ostetrico, cominciò a trar la seta gravida la quinta volta al sesto mese. Per tutto l’ottavo e il nono dové abbandonare più volte per qualche giorno il lavoro per un dolore vivo insoffribile nella fossa iliaca sinistra, occasionato dall’urto del banco, che premeva il feto contro quella parte. Stretta dal bisogno sullo scorcio del nono mese volle far forza e persisté a lavorare fino al momento del travaglio del parto. Si sgravò il 14 settembre 1843, ma poco dopo si formò un ascesso nella fossa iliaca, che la tolse di vita dopo un mese».
Come le gravide, anche le puerpere sono forzate dalla tirannia della miseria a sottoporsi precocemente alle dure leggi della trattura: «Non è raro vedere una puerpera all’ottavo giorno dopo un parto felice capitare a riprendere il suo lavoro, e taluna anche al quarto. Colpisce subito a quanti pericoli si esponga, atteso il suo stato, e le tante cause malefiche indivise dell’arte di trar la seta. Molte, cariche dei loro neonati, che si tengono vicini tutto il dì, vanno alla filatura; come le altre incumbono al travaglio senza godere privilegio di sorta. (…). Esse presentansi coll’aspetto di ammalate, malescie, sono sparute, scarne, perdon d’appetito, e nel mentre che attentano alla salute del figlio, se non costrette dalla deficienza totale del latte di affidarlo a nutrice mercenaria, consumano se stesse».
Quanto agli arti superiori delle maestre, il braccio sinistro sempre in estensione per tenere i bozzoli, duole mentre: «I movimenti del destro per cercare i capofili, per alimentare il filo con nuove bave, nel qual atto la mano da prona si fa quasi supina, suscitano un’irritazione ai tendini estensori del pollice e dell’indice, ed alle lor guaine (…) malattie comuni a tutti gli artefici che esercitano le mani a lavori di forza, come i calzolai, i prestinai, le lavandaje ecc.». Ma, soprattutto: «Le mani, e soprattutto le dita, immerse nell’acqua calda, esposte coll’avambraccio al vapore ammalano in vario modo, non venendo risparmiate neppure le articolazioni, e le ossa. L’infiammazione della pelle resipelacea e flemmonosa è frequentissima (…). Tali infiammazioni hanno per causa precipua il calorico; ma vi prendono parte altresì le qualità irritanti dell’acqua (…). Per l’immersione delle dita entro l’acqua bollente, derivano scottature di primo e di secondo grado all’apice delle dita, e al resto anche della mano. Vidi infiammarsi la cassula dell’ugna, e questa staccarsi; o altra specie di patereccio, il flemmonoso, il tendineo, l’articolare, il periosteo con necrosi di falange (…). Nel 1844 estrassi due volte l’ultima falange dell’indice destro necrosata in totalità in seguito a infiammazione del periostio. Ma la malattia, che tormenta il maggior numero delle filatrici, sono le scorticature delle mani. La cuticola bagnata tutto dì nell’acqua calda si fa rugosa, si gonfia, si macera, si consuma, e lascia il corpo papillare a nudo».
Le infiammazioni cutanee possono però diffondersi anche al resto del corpo, soprattutto per il ristagno irritante del sudore, e la stagione più fredda è spesso accompagnata da dolori artritici e neuralgie; frequenti sono le infezioni della congiuntiva oculare, e la posizione seduta innaturalmente protratta favorisce dolori alle natiche, sciatalgie, ristagno venoso e gonfiore agli arti inferiori: «Alzatasi la sera la maestra trova i suoi arti inferiori torpidi, pesanti, rigidi: con difficoltà muove i primi passi, e talvolta ancor zoppica».
Non manca, infine, un’osservazione che richiama alla mente il mobbing: «Ogni anno conobbi qualche operajo delle filande, ma soprattutto delle maestre, infermare in vario modo per cause morali: odj, gelosie, timori, ingiurie invendicate od altro provocato dai loro compagni, o dai sorvegliatori o dal Direttore, per cui rimasero punti in sul vivo da ammalare. Nel 1842, correndo il mese di agosto, fui chiamato presso una giovane maestra di temperamento nervoso in preda a convulsioni sì violente, che più persone abbisognavano a contenerla. Seppi che da qualche giorno veniva sgridata, anche con disoneste parole, pubblicamente per disattenzioni, ed errori nel lavoro. Sopportò per alcun tempo gli insolenti rimbrotti e non meritati, a suo dire, del padrone; ma infine tanto rincrescimento e dolore la prese, che cadde in deliquio, cui tennero dietro le convulsioni».
Melchiori prosegue il suo ragionamento individuando molte migliorie che, con poco dispendio e un po’ di buona volontà, potrebbero essere a suo parere introdotte.
La filanda non si limita, però, a nuocere alla salute dell’operaia quando è al suo interno, ma lo insegue con le sue malefiche esalazioni anche sulla strada, e dentro casa. Melchiori ricorda come l’aria alle periferie delle città sia già stata considerata meno pura e più nociva alla salute fin dai tempi di Ippocrate, e più recentemente da Bernardino Ramazzini (1633-1714), considerato il fondatore della medicina del lavoro, «per i depositi di materie putrescenti, letamai, fosse stercorarie aperte, sbocco delle cloache ecc.; e perché altresì v’ha minor polizia e nelle case e nelle strade per lo più abitate da popolo minuto». A Novi si aggiunge a questo l’addensarsi, nella periferia della città, delle filande che rovesciano sulle strade e nelle case a sottovento il cattivo odore della galleria e delle crisalidi putrefatte, e talvolta anche il vapore; e versano nei terreni intorno, attraverso i condotti pubblici spesso assai permeabili, le acque di spurgo che per un lungo tratto della circonvallazione a ponente si mischiano a quelle di due concerie, generando un odore cadaveroso e ributtante tanto da costringere il viandante a cambiare percorso e da far compatire chi abita nei pressi.
La conclusione del testo di Melchiori è un appello rivolto ai proprietari delle filande: «I trattori soprattutto dovrebbero prestarsi a tali uffici di tutta umanità coll’aiuto dei loro figli, e delle loro spose (ché tanta pietà e religione adorna il cuore delle Signore Novesi) le quali possono disporre a maggior agio del tempo, iniziando per tal modo i primi ai dolci sentimenti di filantropia».
Ma le speranze del Melchiori non paiono essere state ben riposte, se la situazione che descrive ritornando su questi temi al termine degli anni ’50 è sostanzialmente la stessa del ’45, e se quando il governo promulgò nel 1857 un concorso sull’argomento, le sue osservazioni dovevano risultare ancora abbastanza attuali da meritargli l’attribuzione del primo premio da parte dell’Accademia medica di Torino.
Il 15 marzo di quello stesso anno 1845 in cui Melchiori aveva pubblicato il suo saggio, peraltro, un giovane industriale cotoniero tedesco, Friedrich Engels (1820-1895), dedicava invece il suo scritto La situazione della classe operaia in Inghilterra, in base a osservazioni dirette e fonti autentiche, che a sua volta contiene un’importante documentazione delle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia nell’Inghilterra del tempo, agli operai inglesi.
Certo le situazioni descritte nei due volumi – usciti entrambi nel 1845 e aventi entrambi per oggetto le condizioni di lavoro nell’industria tessile – sono molto diverse, innanzitutto per le dimensioni che i problemi assumono nelle metropoli inglesi e nella relativamente piccola città di Novi, poi per il fatto che l’industria cotoniera consentiva una completa meccanizzazione del ciclo produttivo, mentre l’industria della seta utilizzava il vapore soprattutto per il riscaldamento dell’acqua e il lavoro vero e proprio rimaneva ancora manuale e rendeva necessarie (e quindi valorizzava) la manualità, abilità ed esperienza del lavoratore, proteggendolo così dal rischio della disoccupazione. Pure, molti erano anche gli elementi comuni alle due situazioni: gli effetti della concentrazione del lavoro nella fabbrica; l’inquinanto dell’ambiente nel luogo della produzione e nel territorio circostante, che corrispondeva in entrambi i casi ai quartieri abitati dagli operai; la necessità di aggiungere, per molti, al tempo di lavoro quello di trasferimento dai luoghi di vita a quelli di produzione; lo sfruttamento della mano d’opera femminile che, costringendo le donne a lasciare la casa, sconquassava gli equilibri della famiglia e colpiva in modo specifico le fasi della gravidanza, del puerperio e dell’accudimento dei bambini; lo sfruttamento dei minori; l’esposizione a incidenti e malattie professionali. Inoltre, in entrambi i casi, il carattere internazionale assunto dal mercato e la ferocia della concorrenza su scala globale che determinavano una contrazione dei salari e inasprivano per gli operai le condizioni di miseria che erano state già proprie del mondo contadino.
Molto diverso comunque è l’interlocutore al quale i due autori si rivolgono aspettandosi migliorie: nel caso di Melchiori – in un’Italia  dove l’interesse per la questione nazionale prevale ancora largamente sui temi della lotta di classe – si tratta dei filandieri e delle loro signore, dai quali si aspetta atti di compassione. Nel caso di Engels, si tratta di quelle stesse plebi immiserite e sfruttate, alle quali si rivologe per spronarle all’organizzazione e alla rivolta.
 
 
 
 
Estratti da: G.P. Peloso, P.F. Peloso, L’ordito e la trama. Vol. I. Frammenti di storia sociale tra Genova e Novi, Genova, Collana di studi e ricerche dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 2012.

Nelle immagini:
Giovanni Melchiori (fotografia tratta dalla rivista NoviNostra)
Giovanni Migliara (1785-1837): Interno di filanda

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