PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
OMS 2017: SALUTE MENTALE SUL LUOGO DI LAVORO
20 gennaio, 2018 - 01:00
L’OMS ha scelto di dedicare la Giornata mondiale della Salute mentale il 10 ottobre 2017 al tema della salute mentale sui luoghi di lavoro. In pochi se ne sono accorti, e confesso che anche a me la cosa era sfuggita. E’ stata la sollecitazione di un amico giornalista che mi ha chiesto un commento sintetico sul suo quotidiano[i] a farmelo notare, e indurmi a rifletterci ulteriormente nei giorni successivi. Mi sono venuti così in mente, a partire dalle dichiarazioni dell’OMS, alcuni pensieri - al solito un po’ sparsi.
Il primo è stato che il nesso strettissimo tra salute mentale e lavoro è avvertito da sempre. Già i primi psichiatri, alla fine del XVIII secolo, individuarono nel lavoro la prima forma di terapia nei manicomi. Si accorsero che aiutava le persone a tenere i piedi per terra, aumentava il senso di dignità e la speranza, preveniva la cronicità. Il lavoro così ha rappresentato nel XIX secolo l’anima del manicomio, lo strumento nel quale esso soprattutto confidava per l’esercizio dell’azione terapeutica. E anche oggi, lasciatoci alle spalle il manicomio, riscopriamo ogni giorno l’importanza del lavoro nella cura delle malattie mentali, e il fatto che esso costituisce un’esigenza imprescindibile dei nostri pazienti come di tutti[ii]. Nel documentario I giardini di Abele, girato da Sergio Zavoli per la RAI all’Ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1968, un ragazzo internato al quale il giornalista chiedeva cosa avrebbe fatto per farsi capire, farsi voler bene, rispondeva: «Beh, per farsi voler bene non c’è nessun mezzo». Già, quanto a volersi bene, il bene o ce lo si vuole, o non c’è niente da fare. Ma a quello che lo incalzava: e per farsi accettare? Il ragazzo rispondeva: «Per farsi accettare bisogna parlare delle cose di lavoro. Prima di tutto i soldi, no? Diritti civili e soldi. Tocca formarsi un avvenire». E fuori, cosa conta di più? «Mah, il denaro. Anche un malato ha facili rapporti tra individui quando fa vedere che lavora e guadagna». E così via. Non la pensano diversamente oggi, quando vengono ai servizi, i nostri pazienti.
Del resto il lavoro, e con esso il reddito che nasce dal lavoro, ha uno stretto rapporto con la vita. Recita un vecchio proverbio che chi non lavora non mangia. Ed è proprio vero, perché già i primi uomini furono costretti a lavorare per procurarsi il cibo e proteggersi dalle insidie della natura; e non occorre scomodare Ludwig Feuerbach per comprendere che queste cose sono centrali nella vita.
Nella relazione tra lavoro e salute mentale il primo rischio è rappresentato dunque dal fatto di non avere un lavoro, o di perderlo. Sono state condotte numerose ricerche che dimostrano che la perdita del lavoro si associa a un aumento del rischio di malattia mentale, o anche di suicidio. E tra i primi a evidenziare il fenomeno in Italia vi fu lo psichiatra Francesco Bini a proposito della crisi che aveva colpito Firenze dopo il 1871, a seguito del deprezzamento degli alloggi e della perdita di lavoro nel settore pubblico e nell’indotto per il trasferimento della capitale a Roma[iii]. E a questa sono seguite numerose altre osservazioni.
Anche la recente crisi economica globale, come è noto, è stata caratterizzata in Italia da episodi di suicidio che hanno fatto notizia, in stretta connessione temporale con la perdita del lavoro[iv]. Questo fenomeno ha attirato maggiormente l’attenzione quando ha riguardato gli imprenditori, ma non è stato infrequente neppure tra i lavoratori dipendenti. Credo che ciascun operatore della salute mentale che lavori nel territorio si sia trovato a fronteggiare in questi anni problemi di depressione e rischio di suicidio collegati al fallimento di una piccola impresa, alla perdita del lavoro dipendente o alla disoccupazione cronica.
Se da un lato la mancanza del lavoro è perciò senz’altro un grave problema per la salute mentale, e quindi è indispensabile una politica del lavoro che agevoli l’accesso anche per chi ha problemi in quell’area (ed essa è oggi, salvo rare lodevoli eccezioni, molto insufficiente), anche le condizioni del lavoro per chi lavora sono importanti, e bene ha fatto l’OMS a dedicare al tema la giornata della salute mentale di quest’anno.
Sul posto di lavoro si trascorre gran parte della giornata, lì si gioca una gran parte delle nostre relazioni sociali, delle aspettative di realizzazione in quanto persona, dell’autostima. Si comprende quindi come l’OMS sottolinei che è importante che il lavoro dia il più possibile sicurezza sul futuro: perché queste non rimangano parole fini a se stesse, credo che dovremmo fermarci a chiederci in modo pacato e sereno se alcune scelte recenti operate dal governo italiano - da quella della quale sfugge la concreta utilità diretta per chicchessia della “rottamazione” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ad alcuni aspetti del Jobs act che possono certo rispondere a esigenze del mercato ma tengono poco presenti quelle della persona - vadano nella direzione indicata dall’OMS. O se della sicurezza del posto di lavoro e in gnerale dei problemi posti dall'OMS in questa giornata non sarebbe necessario preoccuparsi di più. E poi, ancora per l’OMS, occorre che il lavoro si svolga in un luogo e con modalità anch’essi sicuri; che sia remunerato in modo equo; che le relazioni sul posto di lavoro siano serene - il che purtroppo non sempre è, fino ad arrivare all’estremo costituito dal mobbing sia nella sua variante verticale (gerarchica), oggetto del commuovente film Mi piace lavorare (Mobbing) di Francesca Comencini (Italia, 2003, clicca qui per il link al film), che trasversale (tra pari)[v]. E ancora che ciò che è richiesto dal lavoro sia proporzionale a ciò che un soggetto può dare e non sia perciò troppo, o troppo stressante. Poi, che le condizioni di lavoro implichino per tutti la possibilità di partecipare, avere prospettive di evoluzione e sentirsi protagonisti del proprio lavoro. Un punto, quest’ultimo, che ripropone forse, senza esplicitamente evocarla, l’attualità del problema psicologico che Karl Marx - che non è stato solo il fondatore del comunismo ma anche uno studioso dei problemi relativi all’economia e al lavoro dal punto di vista dell’essere umano - individuò nella trasformazione del lavoro operata dalla rivoluzione industriale: quello dell’alienazione del lavoro[vi].
L’OMS segnala i rischi che esistono, in particolare, per gli operatori umanitari - che ovviamente esso ha più direttamente sotto gli occhi - il cui lavoro comporta stress in relazione a grandi difficoltà e obiettivi irraggiungibili, ma anche bruschi mutamenti di scenario e lunghi periodi lontano da casa, alternanza tra periodi di lavoro estremamente gravoso e momenti di inerzia forzata. Il ragionamento potrebbe essere esteso, almeno per molti aspetti mi pare, a tutte le professioni d’aiuto e corrisponde in buona misura al fenomeno che è stato definito negli scorsi decenni: “sindrome da burn-out”. Ma occorre tenere presente che anche in situazioni estreme di stress la ricerca ha dimostrato come questo quadro sia più in rapporto con la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, e con la motivazione e l’effettiva autonomia decisionale del soggetto che con lo stress direttamente riferibile al lavoro in sé. Anche quando il lavoro è molto faticoso ed espone a grandi frustrazioni, infatti, il sentimento di proprietà e personale responsabilità e passione, insieme a un forte convincimento della sua importanza e a una buona qualità delle relazioni - cioè il fatto appunto che il lavoro non sia alienato - rappresenta un fattore psicologico protettivo di inestimabile valore. E un fenomeno analogo, del resto, è noto in ambito di psicologia militare, dove è risaputo che la motivazione legata al fatto di combattere per quello in cui si crede o per le persone e le cose che sono care aumenta la resilienza.
Confesso di avere avuto difficoltà, per queste ragioni, a comprendere il perché di questa particolare preoccupazione dell’OMS per gli operatori umanitari. Mi pareva che la salute mentale di chi è costretto a svolgere un lavoro del quale gli sfugge il senso dovesse essere più a rischio. Sono stati la lettura delle ultime pagine, quelle relative al ritorno, del diario di Gaddo Flego, impegnato con MSF in Rwanda nel 1994[vii], insieme all'incontro recente con una giovane psicologa di ritorno da una missione, a chiarirmi che il problema c'è e può fare soffrire. Quel saliscendi da montagne russe tra momenti nei quali si vive intensamente la sensazione di essere un pezzo della storia - momenti dove la rabbia, il dolore, l’amore, l’amicizia, la pietà diventano sentimenti spessi e incandescenti come il sole che picchia sull'Africa - e il ritorno alla vita normale delle persone normali, deve dare una scossa emotiva che smuove in profondità. E così, non sempre questi meccanismi di resilienza che mi pareva dovessero essere sufficienti a proteggere da qualunque urto poi nei fatti lo sono; e bene fa dunque l’OMS a preoccuparsi di questi lavoratori generosi e appassionati.
Il primo è stato che il nesso strettissimo tra salute mentale e lavoro è avvertito da sempre. Già i primi psichiatri, alla fine del XVIII secolo, individuarono nel lavoro la prima forma di terapia nei manicomi. Si accorsero che aiutava le persone a tenere i piedi per terra, aumentava il senso di dignità e la speranza, preveniva la cronicità. Il lavoro così ha rappresentato nel XIX secolo l’anima del manicomio, lo strumento nel quale esso soprattutto confidava per l’esercizio dell’azione terapeutica. E anche oggi, lasciatoci alle spalle il manicomio, riscopriamo ogni giorno l’importanza del lavoro nella cura delle malattie mentali, e il fatto che esso costituisce un’esigenza imprescindibile dei nostri pazienti come di tutti[ii]. Nel documentario I giardini di Abele, girato da Sergio Zavoli per la RAI all’Ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1968, un ragazzo internato al quale il giornalista chiedeva cosa avrebbe fatto per farsi capire, farsi voler bene, rispondeva: «Beh, per farsi voler bene non c’è nessun mezzo». Già, quanto a volersi bene, il bene o ce lo si vuole, o non c’è niente da fare. Ma a quello che lo incalzava: e per farsi accettare? Il ragazzo rispondeva: «Per farsi accettare bisogna parlare delle cose di lavoro. Prima di tutto i soldi, no? Diritti civili e soldi. Tocca formarsi un avvenire». E fuori, cosa conta di più? «Mah, il denaro. Anche un malato ha facili rapporti tra individui quando fa vedere che lavora e guadagna». E così via. Non la pensano diversamente oggi, quando vengono ai servizi, i nostri pazienti.
Del resto il lavoro, e con esso il reddito che nasce dal lavoro, ha uno stretto rapporto con la vita. Recita un vecchio proverbio che chi non lavora non mangia. Ed è proprio vero, perché già i primi uomini furono costretti a lavorare per procurarsi il cibo e proteggersi dalle insidie della natura; e non occorre scomodare Ludwig Feuerbach per comprendere che queste cose sono centrali nella vita.
Nella relazione tra lavoro e salute mentale il primo rischio è rappresentato dunque dal fatto di non avere un lavoro, o di perderlo. Sono state condotte numerose ricerche che dimostrano che la perdita del lavoro si associa a un aumento del rischio di malattia mentale, o anche di suicidio. E tra i primi a evidenziare il fenomeno in Italia vi fu lo psichiatra Francesco Bini a proposito della crisi che aveva colpito Firenze dopo il 1871, a seguito del deprezzamento degli alloggi e della perdita di lavoro nel settore pubblico e nell’indotto per il trasferimento della capitale a Roma[iii]. E a questa sono seguite numerose altre osservazioni.
Anche la recente crisi economica globale, come è noto, è stata caratterizzata in Italia da episodi di suicidio che hanno fatto notizia, in stretta connessione temporale con la perdita del lavoro[iv]. Questo fenomeno ha attirato maggiormente l’attenzione quando ha riguardato gli imprenditori, ma non è stato infrequente neppure tra i lavoratori dipendenti. Credo che ciascun operatore della salute mentale che lavori nel territorio si sia trovato a fronteggiare in questi anni problemi di depressione e rischio di suicidio collegati al fallimento di una piccola impresa, alla perdita del lavoro dipendente o alla disoccupazione cronica.
Se da un lato la mancanza del lavoro è perciò senz’altro un grave problema per la salute mentale, e quindi è indispensabile una politica del lavoro che agevoli l’accesso anche per chi ha problemi in quell’area (ed essa è oggi, salvo rare lodevoli eccezioni, molto insufficiente), anche le condizioni del lavoro per chi lavora sono importanti, e bene ha fatto l’OMS a dedicare al tema la giornata della salute mentale di quest’anno.
Sul posto di lavoro si trascorre gran parte della giornata, lì si gioca una gran parte delle nostre relazioni sociali, delle aspettative di realizzazione in quanto persona, dell’autostima. Si comprende quindi come l’OMS sottolinei che è importante che il lavoro dia il più possibile sicurezza sul futuro: perché queste non rimangano parole fini a se stesse, credo che dovremmo fermarci a chiederci in modo pacato e sereno se alcune scelte recenti operate dal governo italiano - da quella della quale sfugge la concreta utilità diretta per chicchessia della “rottamazione” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ad alcuni aspetti del Jobs act che possono certo rispondere a esigenze del mercato ma tengono poco presenti quelle della persona - vadano nella direzione indicata dall’OMS. O se della sicurezza del posto di lavoro e in gnerale dei problemi posti dall'OMS in questa giornata non sarebbe necessario preoccuparsi di più. E poi, ancora per l’OMS, occorre che il lavoro si svolga in un luogo e con modalità anch’essi sicuri; che sia remunerato in modo equo; che le relazioni sul posto di lavoro siano serene - il che purtroppo non sempre è, fino ad arrivare all’estremo costituito dal mobbing sia nella sua variante verticale (gerarchica), oggetto del commuovente film Mi piace lavorare (Mobbing) di Francesca Comencini (Italia, 2003, clicca qui per il link al film), che trasversale (tra pari)[v]. E ancora che ciò che è richiesto dal lavoro sia proporzionale a ciò che un soggetto può dare e non sia perciò troppo, o troppo stressante. Poi, che le condizioni di lavoro implichino per tutti la possibilità di partecipare, avere prospettive di evoluzione e sentirsi protagonisti del proprio lavoro. Un punto, quest’ultimo, che ripropone forse, senza esplicitamente evocarla, l’attualità del problema psicologico che Karl Marx - che non è stato solo il fondatore del comunismo ma anche uno studioso dei problemi relativi all’economia e al lavoro dal punto di vista dell’essere umano - individuò nella trasformazione del lavoro operata dalla rivoluzione industriale: quello dell’alienazione del lavoro[vi].
L’OMS segnala i rischi che esistono, in particolare, per gli operatori umanitari - che ovviamente esso ha più direttamente sotto gli occhi - il cui lavoro comporta stress in relazione a grandi difficoltà e obiettivi irraggiungibili, ma anche bruschi mutamenti di scenario e lunghi periodi lontano da casa, alternanza tra periodi di lavoro estremamente gravoso e momenti di inerzia forzata. Il ragionamento potrebbe essere esteso, almeno per molti aspetti mi pare, a tutte le professioni d’aiuto e corrisponde in buona misura al fenomeno che è stato definito negli scorsi decenni: “sindrome da burn-out”. Ma occorre tenere presente che anche in situazioni estreme di stress la ricerca ha dimostrato come questo quadro sia più in rapporto con la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, e con la motivazione e l’effettiva autonomia decisionale del soggetto che con lo stress direttamente riferibile al lavoro in sé. Anche quando il lavoro è molto faticoso ed espone a grandi frustrazioni, infatti, il sentimento di proprietà e personale responsabilità e passione, insieme a un forte convincimento della sua importanza e a una buona qualità delle relazioni - cioè il fatto appunto che il lavoro non sia alienato - rappresenta un fattore psicologico protettivo di inestimabile valore. E un fenomeno analogo, del resto, è noto in ambito di psicologia militare, dove è risaputo che la motivazione legata al fatto di combattere per quello in cui si crede o per le persone e le cose che sono care aumenta la resilienza.
Confesso di avere avuto difficoltà, per queste ragioni, a comprendere il perché di questa particolare preoccupazione dell’OMS per gli operatori umanitari. Mi pareva che la salute mentale di chi è costretto a svolgere un lavoro del quale gli sfugge il senso dovesse essere più a rischio. Sono stati la lettura delle ultime pagine, quelle relative al ritorno, del diario di Gaddo Flego, impegnato con MSF in Rwanda nel 1994[vii], insieme all'incontro recente con una giovane psicologa di ritorno da una missione, a chiarirmi che il problema c'è e può fare soffrire. Quel saliscendi da montagne russe tra momenti nei quali si vive intensamente la sensazione di essere un pezzo della storia - momenti dove la rabbia, il dolore, l’amore, l’amicizia, la pietà diventano sentimenti spessi e incandescenti come il sole che picchia sull'Africa - e il ritorno alla vita normale delle persone normali, deve dare una scossa emotiva che smuove in profondità. E così, non sempre questi meccanismi di resilienza che mi pareva dovessero essere sufficienti a proteggere da qualunque urto poi nei fatti lo sono; e bene fa dunque l’OMS a preoccuparsi di questi lavoratori generosi e appassionati.
Più in generale, i segni di quando il lavoro sta diventando stressante, e quindi pericoloso per la salute mentale, mi pare che possano essere in progressione: il fatto che il soggetto cominci ad avvertire maggiore fastidio o fatica nella ricerca del lavoro/nel recarsi al lavoro; che le questione relative alla mancanza di lavoro/ai problemi sul lavoro tendano a monopolizzare la vita mentale (non pensa ad altro e non parla d’altro); la comparsa di sintomi generici di ansia, insonnia, depressione riferiti al lavoro; la comparsa di sentimenti di disperazione rispetto al fatto che i problemi riferiti al lavoro (o alla perdita o mancanza del lavoro) si possano risolvere.
E’ chiaro che in questa progressione lo stress lavoro (o non-lavoro) correlato può diventare via via più pericoloso. Spesso il primo interlocutore è rappresentato da figure interne all’azienda: ufficio personale, e quando ci sono medico e psicologo aziendale. Queste figure possono giocare, quando vogliono farlo e soprattutto quando è dato loro lo spazio per farlo, un ruolo di mediazione prezioso tra le necessità della persona e quelle del lavoro. Nel mio lavoro al centro di salute mentale, ho trovato spesso interlocutori preziosi in queste figure. Quando l’azienda assume un atteggiamento più espulsivo invece - il che può essere nella sua natura quando i livelli di competizione si alzano e non si vede altro che la produttività (tanto esaltati come panacea di questi tempi) - un aiuto importante possono essere le organizzazioni sindacali interne. Quando poi il problema diventa più importante, la persona arriva, o di sua iniziativa o perché più o meno costretta, a rivolgersi a uno specialista. Ma è chiaro che in queste situazioni le professioni “psi” non possono intervenire altro che cercando di arginare i problemi, aiutando il soggetto a rafforzare la sua resilienza rispetto ad essi e attivando nell’azienda i livelli di mediazione possibili o all’opposto, quando si rilevino comportamenti giuridicamente rilevanti alla base dello stress, appoggiando il lavoratore nel suo percorso risarcitorio. La soluzione a monte non è al nostro livello, quello dell’intervento sulla persona, ma nell’intervento politico-sindacale, e al limite giudiziario, sulle condizioni nelle quali il lavoro è distribuito e si svolge; è solo a quel livello infatti che si può eliminare la noxa patogena o attenuarne l’effetto.
Per questo, l’OMS si rivolge agli Stati, con l’invito certo a emanare normative che rafforzino i servizi, interni ed esterni al mondo del lavoro, volti a sostenere chi affronta difficoltà riguardo al lavoro, ma soprattutto a operare perché la disoccupazione sia ridotta e le condizioni di lavoro siano sicure, eque, dignitose e salubri per tutti. In definitiva, mi pare di poter leggere tra le righe: perché il lavoro sia pensato a beneficio dell’uomo, e non soltanto l’uomo a beneficio del lavoro.
Ma da ciò siamo spesso molto lontani: e mi propongo di tornare a ragionare sui possibili perché in uno dei prossimi interventi su questa rubrica..
In allegato, il collegamento al video della canzone “Laureata precaria” di Simone Cristicchi, un modo scanzonato di ragionare su una questione importante.
E’ chiaro che in questa progressione lo stress lavoro (o non-lavoro) correlato può diventare via via più pericoloso. Spesso il primo interlocutore è rappresentato da figure interne all’azienda: ufficio personale, e quando ci sono medico e psicologo aziendale. Queste figure possono giocare, quando vogliono farlo e soprattutto quando è dato loro lo spazio per farlo, un ruolo di mediazione prezioso tra le necessità della persona e quelle del lavoro. Nel mio lavoro al centro di salute mentale, ho trovato spesso interlocutori preziosi in queste figure. Quando l’azienda assume un atteggiamento più espulsivo invece - il che può essere nella sua natura quando i livelli di competizione si alzano e non si vede altro che la produttività (tanto esaltati come panacea di questi tempi) - un aiuto importante possono essere le organizzazioni sindacali interne. Quando poi il problema diventa più importante, la persona arriva, o di sua iniziativa o perché più o meno costretta, a rivolgersi a uno specialista. Ma è chiaro che in queste situazioni le professioni “psi” non possono intervenire altro che cercando di arginare i problemi, aiutando il soggetto a rafforzare la sua resilienza rispetto ad essi e attivando nell’azienda i livelli di mediazione possibili o all’opposto, quando si rilevino comportamenti giuridicamente rilevanti alla base dello stress, appoggiando il lavoratore nel suo percorso risarcitorio. La soluzione a monte non è al nostro livello, quello dell’intervento sulla persona, ma nell’intervento politico-sindacale, e al limite giudiziario, sulle condizioni nelle quali il lavoro è distribuito e si svolge; è solo a quel livello infatti che si può eliminare la noxa patogena o attenuarne l’effetto.
Per questo, l’OMS si rivolge agli Stati, con l’invito certo a emanare normative che rafforzino i servizi, interni ed esterni al mondo del lavoro, volti a sostenere chi affronta difficoltà riguardo al lavoro, ma soprattutto a operare perché la disoccupazione sia ridotta e le condizioni di lavoro siano sicure, eque, dignitose e salubri per tutti. In definitiva, mi pare di poter leggere tra le righe: perché il lavoro sia pensato a beneficio dell’uomo, e non soltanto l’uomo a beneficio del lavoro.
Ma da ciò siamo spesso molto lontani: e mi propongo di tornare a ragionare sui possibili perché in uno dei prossimi interventi su questa rubrica..
In allegato, il collegamento al video della canzone “Laureata precaria” di Simone Cristicchi, un modo scanzonato di ragionare su una questione importante.
[i] F. Mereta, L’allarme degli esperti. Lavorare bene per vivere meglio. Disoccupazione, precariato ma anche impieghi non soddisfacenti incidono sulla salute mentale, Il Secolo IX, 6 novembre 2017, p. 22.
[ii] Cfr. in questa rubrica: 1 maggio: 5 note impertinenti su lavoro, psichiatria, persona (clicca qui per il link), e .Il pensietro lungo. 70 di Costituzione, 40 di 180 (clicca qui per il link).
[iii] Cit. in: A. Mari, La questione di Firenze, Firenze, Libreria Paggi e Stabilimento Civelli, 1878.
[iv] Sul tema rimando a: P. Calcagno, L. Ghio, P.F. Peloso, L. Ferrannini, Crisi economica e salute mentale: evidenze, quotidianità dei servizi e politiche sanitarie, Rivista Sperimentale di Freniatria, CXL, 1, 2016, pp. 13-42.
[v] Il mobbing non raggiunge spesso le dimensioni illustrate da Francesca Comencini nel film Mi piace lavorare (Mobbing), ma non c’è dubbio che la qualità delle relazioni sul posto di lavoro sono sempre una determinante importante del livello di soddisfazione complessiva della vita di ciascuno.
[vi] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici (1844), I manoscritto, sezione Il lavoro estraniato.