A moderare la giornalista Carla Scarsi, che ha dato per primo la parola – assente Lucio Ghio, direttore del DSMD di Genova, per un impegno precedente fuori città – a Natale Calderaro, che è stato collaboratore di Mario Scarcella a Reggio Calabria e poi di Antonio Slavich a Genova, e ha diretto i Centri di Salute Mentale di via Pisa e di via Maggio. Immagino l’emozione sua e degli altri relatori a leggere, trattati con piglio da cultore di storia, fatti dei quali sono stati più o meno direttamente protagonisti. Nel suo intervento ha ripercorso l’inizio della carriera, da Reggio Calabria a Genova e il nostro rapporto iniziato nel 1983, quando io avevo vent’anni e mettevo per la prima volta piede in un ospedale psichiatrico. Poi, dopo avere illustrato i passaggi iniziali del libro, ha proposto due ricordi di Basaglia – Basaglia commosso e ammutolito all’indomani del sanguinoso golpe cileno durante il primo convegno di Psichiatria Democratica “La pratica della follia” nel 1974 a Gorizia; Basaglia che, in un ricordo confidatogli da Giuliano Scabia, nell’assemblea ci tiene a cogliere la parola davvero di tutti, anche gli interlocutori più imbarazzanti e improbabili, perché davvero nessuno siaa escluso – per poi proseguire con uno stimolo colto ancora nel libro, la questione del rapporto tra libertà, rischio, responsabilità: quel rischio che affronta anche attraverso l’illustrazione di una storia clinica, e ricordando come Basaglia se lo è sempre assunto in prima persona, a partire dalla scelta antifascista che fece e pagò quando era ancora studente.
A seguire Luigi Ferrannini, che all’inizo della cariera ha attraversato gli stessi passaggi di Calderaro, Mario Scarcella e Antonio Slavich, per dirigere poi a Genova il Centro di Salute Mentale della Doria e il SPDC dell’Ospedale Galliera. Ferrannini ha diretto per vent’anni il Dipartimento di Salute Mentale di ASL 3 a Genova ed è stato per un triennio presidente della Società Italiana di Psichiatria. Anche lui parte dal libro come «messa insieme di anni e anni di storia ed emozioni, di problemi, di possibili soluzioni e di errori commessi», a prtire dai quali ripartire per cogliere le metamorfosi della società e non cessare di sforzarsi di trasformare la domanda di reclusione, che spesso p la più immediata reazione alla follia, in domanda di cura. Ricorda quindi Michele Tansella, originario di Bari come lui, e la sua idea dell’operatore della salute, della salute mentale, come archeologo e come architetto insieme; come intellettuale cioè capace di coltivare le radici del presente nel passato – ed è ciò che il libro con il suo “ritorno” propone – per costruire nel presente il futuro. Il concetto di metamorfosi, che approfondisce, lo porta quindi a contrapporre la persistenza, nel tempo e nei luoghi, del modello manicomiale all’esigenza di metamorfosi della psichiatria di comunità, la sua pluralità di professionalità e di voci, l’eterogeneità di bisogni cui cercare di dare risposta nel farsi più liquida e impersonale della società.
Termina con un altro “ritorno”, a Jacques Hochmann in questo caso, che sottolineava già nel 1971 la stretta adesione della psichiatria alla società cui appartiene, della quale tende a recepire le metamorfosi e assorbire le caratteristiche.
Diverso dai due precedenti è stato il percorso professionale di Antonio Maria Ferro, che lo ha portato a muovere i primi passi da neurologo per poi preferire la psichiatria negli anni nei quali – come ha scritto lo storico Fabio Stok – Basaglia riscattava la psichiatria dalla posizione ancillare verso la disciplina gemella nella quale era caduta all’inizio del XX secolo e rendeva gli ambienti degli ospedali psichiatrici nella loro crisi e poi i neonati servizi, più interessanti per la stampa, e per la società, rispetto ai luoghi dell’accademia. Fondamentale per lui l’incontro con Giovanni Jervis, un altro collaboratore di Basaglia a Gorizia dopo Slavich, a Reggio Emilia; e poi quello con la psicoanalisi attraverso maestri come Paul-Claude Racamier e Salomon Resnik: Ha quindi diretto il Centro di Salute Mentale di Finale Ligure, l’SPDC dell’ospedale San Paolo e per vent’anni il Dipartimento di Salute Mentale di ASL 2 a Savona. Ferro si sofferma sulla figura umana di Basaglia, il suo aspetto, lo straordinario coraggio, la grande cultura; e sul nuovo psichiatra, al quale sono richieste per avere a che fare con un oggetto complesso come la mente una culturà poliedrica – medici-filosofi erano chiamati i primi alienisti all’inizio dell’Ottocento – la conoscenza della psicoanalisi e della fenomenologia e una capacità di originalità e invenzione che ha fatto della loro generazione di psichiatri dei “temerari sulle macchine volanti”. Parla del fascino di una psichiatria della crisi e della leggerezza e del rischio che il riduzionismo, l’istituzionalizzazione ritornino a prevalere. Il manicomio non è chiuso – prosegue cogliendo in ciò un tema centrale dell’insegnamento di Basaglia – e può tornare a nascere in ognuno di noi come “un’attitudine della mente”. Ogni istituzione di cura – conclude perciò – va a sua volta curata.
Credo che abbia conferito importanza al nostro incontro, e mi ha fatto molto piacere, l’intervento di Bruno Orsini, psichiatra e per molti anni parlamentare genovese della Democrazia Cristiana, che in quest’ultima veste ha avuto il merito di raccogliere le istanze di chiusura dell’Ospedale Psichiatrico che il movimento nato dall’intuizione e dalla lotta di Franco Basaglia aveva cominciato a realizzare in qualche provincia, e trovare in Parlamento le mediazioni e la forma necessarie per trasformarle in legge dello Stato. Nelle sue parole, l’invito ai colleghi più giovani ad andare avanti nella psichiatria come scienza complessiva, multidimensionale che ha per oggetto l’uomo nella sua totalità; e insieme l’orgoglio della consapevolezza che la propria generazione non è stata irrilevante (tutt’altro direi!) per la psichiatria. E chissà, mi hanno fatto pensare le sue parole, se e anche noi tra qualche anno potremo dire lo stesso… Forse, sarà più facile se avremo l’umiltà di ritornare alle solide basi che quella generazione ha posto, coltivare la storia della disciplina come fece Basaglia, per farne ogni volta un punto su cui fare forza per ripartire e non avremo troppa fretta di lasciarcele indietro.
Mi ha fatto particolarmente piacere la presenza di altri protagonisti degli eventi che il libro racconta come Giampaolo Guelfi, che ha lavorato con Agostino Pirella (altro collaboratore di Basaglia) ad Arezzo, per poi dedicarsi alla cura delle dipendenze; Vito Guidi, che è stato un pioniere nell’apertura dei CSM a Genova; Lino Ciancaglini e Mimmo Schinaia, allievi di De Martis a Pavia; Giovanna Ferrandes e Mirosa Pedemonte, due psicologhe che hanno lavorato nei nostri CSM e poi diretto, Ferrandes, il servizio di psicologia del San Martino. E poi Carlo Castelnovi che faceva parte dell’équipe di Carmelo Conforto con la quale mi sono formato all’università, e amici, colleghi, studenti ma anche persone che non conosco e sono state ugualmente interessate.
Poi, come si usa in questi casi, la parola è passata all’autore. Che si limita a ricordare qualche aspetto della costruzione del libro e raccogliere gli stimoli relativi all’attualità della questione del manicomio per coglierne i segni a tre diversi livelli: in certe strutture progettate oggi per il confinamento dei migranti, e nelle carceri; nelle strutture di cura quando si allontanano nell’ubicazione, nelle dimensioni, nelle caratteristiche, nei tempi di permanenza dai luoghi normali della vita; nell’atteggiamento che verso chi ha la sfortuna di essere interessato in prima persona dalla malatia mentale hanno talvolta colleghi, vicini di casa, ma possiamo avere abbiamo, spesso quando siamo più stanchi o scoraggiati, anche noi medici, infermieri, psicologi e operatori in genere della salute mentale, che non sempre riusciamo a praticare «la deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno». Nei nostri incontri di cura, che devono essere autenticamente umani per essere veri come Basaglia aveva scoperto a Padova; nelle nostre istituzioni, che dobbiamo porre al riparo, mettendole sempre in crisi, dal rischio di generare istituzionalizzazione, come lui aveva scoperto a Gorizia; nella società, alla quale dobbiamo cercare di essere d’aiuto perché faccia posto al suo interno nell’avere casa, lavoro, qualità della vita e anche affetto a chi è interessato in modo diretto dalla sofferenza mentale, come lui fece a Trieste.
Vedi anche gli articoli precedenti: "Ritorno a Basaglia?". L'ultima notte da file word (segui il link) e ."Ritorno a Basaglia?". Franco Basaglia e Giorgio Maria Ferlini (segui il link).
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