Vorrei riprendere la scelta fatta l’anno scorso, con la pubblicazione di Note invernali su 6 letture estive, di presentare collettivamente alcune delle letture che mi hanno colpito quest’anno. Allora si trattava di volumi di Ricci e Valent, Greco, Boido, Winchester, Benvenuto, Pezzoni e Buscaglia.
Quest’anno abbiamo già affrontato sulle pagine di questa rubrica Ibridazione. Politiche delle cure e delle culture, il testo collettaneo curato da Pompeo Martelli e nato dall’incontro tra Jaswant Guzder, etnopsichiatra e pittrice canadese di origine indiana, e il Museo laboratorio della mente del Santa Maria della Pietà di Roma. E a seguire Le scarpe dei matti di Antonio Esposito, a metà strada tra storia e attualità dell’assistenza psichiatrica in Italia, del quale abbiamo evidenziato gli aspetti che più ci hanno interessato e qualcuno che ha destato qualche perplessità. E poi ancora, recentemente, Le nostre oscillazioni. Filosofia e follia di Pier Aldo Rovatti, nell’ultimo articolo pubblicato.
Tra gli altri testi letti nel 2019 quello che più mi ha affascinato è L’esperienza psicopatologica. Il senso della clinica nella prospettiva della cura di Lodovico Cappellari (Fioriti, 2019).
Come evidenzia già il titolo, il libro di Cappellari ha uno strettissimo rapporto con l’esperienza, in quanto l’autore è stato per molti anni psichiatra e poi direttore di Dipartimento a Campo San Piero, nei pressi di Verona ed è proprio ai colleghi che operano nei servizi che innanzitutto si rivolge. Come ho avuto l’opportunità di fargli notare durante la presentazione del volume al Palazzo Ducale di Genova, non mancherebbe nulla perché potesse intitolarsi Manuale di psicopatologia fenomenologica, perché tocca tutti i principali temi dai quali la psicopatologia ad orientamento fenomenologico, in particolar italiana, si è fatta affascinare e sui quali ha arricchito la nostra consapevolezza in questi anni. Le prime pagine sono ovviamente dedicate alla psicopatologia fenomenologica, a descriverne l’approccio ai problemi, la fatica dello studio, la necessità di continuare a considerare la psichiatria, come scriveva Pinel, una disciplina a cavallo tra medicina e filosofia. Vi si parla ovviamente di schizofrenia, si approfondiscono il vissuto conturbante dell’ingresso nella malattia e l’inafferrabile concetto di autismo; della depressione e della mania nel loro rapporto con la temporalità; ma si focalizzano anche temi più specifici dal Delirio zoopatico a quello di Rapporto Sensitivo, a uno dei sintomi fondamentali bleuleriani ai quali si presta minore attenzione, l’ambivalenza, all’abitare nella sua relazione, in particolare, con la libertà, alla relazione tra corporeità ed esperienza vissuta, con approfondimenti sulle sensazioni allucinatorie tattili, la depersonalizzazione somatopsichica, la catatonia e lo stupor malinconico, il delirio del corpo di vetro, l’ipocondria, la dismorfofobia. L’ultimo paragrafo di questo libro così importante nella traiettoria umana e professionale dell’Autore è dedicato a quello che è stato per lui e per molti colleghi veneti un maestro, Ferdinando Barison, e arricchiscono poi il volume una completa bibliografia della psicopatologia fenomenologica italiana e dei contributi stranieri tradotti, e una postfazione nella quale Gilberto Di Petta e Mario Rossi Monti ricostruiscono i fondamenti storici, le linee di sviluppo e gli esiti recenti della Scuola italiana di psicopatologia fenomenologica, della quale sono tra i principali esponenti. E’ un testo, insomma, più da studiare che da leggere, che dà conto in modo molto completo di una corrente che ha attraversato la psichiatria italiana accompagnandone la riforma, offrendole uno dei suoi riferimenti teorici più importanti, e che gode oggi di una meritata fortuna nella vita dei servizi.
Il testo merita certamente di più delle poche parole che qui ho potuto dedicargli e gli ho perciò dedicato una recensione più completa che è in corso di pubblicazione sulla rivista Comprendre e qui ho solo ripreso per sommi capi; stabilirò un link quando disponibile.
Un secondo testo che come quello di Cappellari richiede senz’altro più di essere studiato che letto – e che si colloca in un certo senso agli antipodi di esso – e che ho trovato fondamentale nella formazione dello psichiatra è Genealogia della schizofrenia. Ebefrenia, Dementia praecox, neurosviluppo di Carlo Maggini e Riccardo Dalle Luche (Alpes, 2019), con prefazione di Mario Maj. Da qualche anno l’associazione Itaca organizza a Genoa un corso per volontari nel campo della salute mentale e mi chiede di tenere un incontro sulla schizofrenia; lo intitolo La schizofrenia: l’oggetto imprendibile della psichiatria e la lettura di questo volume mi ha ulteriormente confermato nell’idea che sì, afferrare quest’oggetto scivoloso, possederlo, squadrarlo, descriverlo strappandolo alla sua natura radicalmente enigmatica non è possibile, che esiste una grande complessità nel descrivere, oltre che nel comprendere, l’esperienza schizofrenica. La ricostruzione operata dagli Autori affronta la secolare vicenda della schizofrenia a partire dal dibattito intorno all’ebefrenia nel triangolo tra Germania orientale, Polonia, Russia a partire dal dissolvimento del concetto di psicosi unica sostenuto da Wilhelm Griesinger, e vede coinvolti i tedeschi Kahlbaum, Hecker, i russi Kowalevsky, Tsisch, Serbsky, per arrivare poi a Darazszkiewicz e al Kraepelin delle prime edizioni del trattato. C’era vita, in psichiatria, dunque prima di Kraepelin,e già si ragionava di quei quadri che occupavano un campo della clinica al quale sarebbe poi stato dato il nome di schizofrenia. C’è un mondo alle spalle di Kraepelin, e il testo di Maggini e Dalle Luche ha soprattutto il merito di riportarlo alla ribalta e dargli giustizia. Ci sono stati tanti affascinanti tentativi di afferrare l’oggetto scivoloso e proteiforme, tanti quanti sono gli studiosi che lo hanno inseguito, e lo vediamo così modificarsi, trasformarsi tra accorpamenti e perdite di pezzi nelle mani di ciascuno di essi, per poi sfuggire ancora. Fino a Kraepelin; già, Kraepelin: perché di tutte queste sistematizzazioni è proprio la sua ad avere successo e condizionare così fortemente e lungamente il dibattito? E perché delle sue diverse sistematizzazioni è la VII edizione del Trattato a lasciare la traccia più profonda, a rimanere oggi l’unica visibile a occhio nudo? Perché ignorare l’VIII edizione nella quale, forte di nuovi approfondimenti e delle obiezioni raccolte, aveva onestamente riconsiderato le sue certezze?
Probabilmente per quel meccanismo che porta l’uomo moderno a rifuggire dalla complessità come dalla peste e ad accontentarsi delle cose più semplici anche se non sono necessariamente le più prossime al vero, mi pare la risposta che propongono gli Autori che non nascondono la loro preferenza per il costrutto meglio delimitato dell’ebefrenia rispetto a quello della Dementia praecox, e per il binomio Kahlbaum-Hecker rispetto a Kraepelin. Al quale, comunque, va riconosciuto il merito di essersi spinto più oltre di tutti, a costo di drastiche semplificazioni, forzature e distorsioni, nell’inseguire l’illusione che tutto ciò che rimaneva sul fondo, una volta che dal sacco confuso della follia erano state strappate ad una ad una le varie malattie mentali – con i rispettivi sintomi, decorsi e prognosi –potesse essere riportato a un’ultima unica malattia.
Ma, allora, con Kraepelin la questione è risolta? Certo che no; sapevamo dal Kraepelin della VII edizione che in questa strana malattia della quale non si conosce la causa, né la localizzazione e persino la sintomatologia è assolutamente cangiante, l’unica certezza era l’esito in demenza (anche se, per la verità, a una porta socchiusa in qualche caso verso la guarigione Kraepelin stesso non ha mai del tutto rinunciato). Ma ecco Bleuler a dirci che no, neppure la prognosi negativa è una certezza, e anzi non di una malattia stiamo parlando ma del “gruppo delle schizofrenie”. Che non si tratta di una malattia ma probabilmente di varie malattie che possono conoscere cause diverse, decorsi e prognosi diversi, ma sono appunto un gruppo perché hanno una caratteristica fondamentale in comune: scissione, spaccatura. Cioè il fatto che i meccanismi fondamentali del soggetto, quelli che lo tengono insieme, lo rendono uno e uno lo mantengono nel tempo, che gli consentono di riconoscersi e riconoscere le cose intorno a sé, sono rotti, inceppati. E non è il saliscendi dell’umore che non tocca i meccanismi fondamentali del funzionamento mentale dei disturbi affettivi, né l’accentuarsi e il fissarsi di una o l’altra delle esperienze della mente nella paranoia, l’ossessività o le fobie, i disturbi alimentari, né il suo perdersi variegato ma superficiale nell’isteria, né il suo spegnersi generale ed omogeneo nella demenza, che sono tutti i quadri sui quali si interrogavano e ai quali avevano dato gradatamente forma gli antichi In questa ultima esperienza spaventosa e dolorosa di rottura della mente si verifica appunto l’incepparsi selettivo di qualcuno dei meccanismi che fondano come tale un soggetto, mentre altri meccanismi, almeno in una prima fase, continuano a funzionare e consentono al soggetto di assistere al proprio lento confondersi col resto, a volte esserne perfino fisicamente attraversato, e di soffrirne.
Io credo che qui stia la vera messa a nudo del problema: non una malattia insomma, ma l’insieme di malattie nelle quali qualcuno dei meccanismi nucleari della mente, quelli che tengono tutto insieme, può rompersi; molte malattie come sono molte quelle che possono rompere quell’oggetto altrettanto complesso della mente che è il corpo. Gruppo di malattie che possono avere origine nell’hardware che è il cervello o nel software che è la mente; che possono colpire uno o l’altro dei meccanismi che fanno sì che la mente funzioni; e dare quindi origine a quadri eterogenei, a decorsi ed esiti diversi.
Non so com’è, ma Bleuler ha su di me uno strano effetto e mi fa partire forse un po’ per la tangente. Torniamo al testo quindi, per osservare che il destino di un gruppo di malattie che tanto hanno a che fare con la scissione non poteva forse essere che scisso: portare il nome coniato da Bleuler (quello proposto da Kraepelin era davvero infausto), ma corrispondere nella sostanza all’idea di Kraepelin: una sola malattia e la ricerca ostinata di sintomi e decorso costanti coi quali caratterizzarla. Ed è l’esito, come rilevano gli Autori, al quale la nosografia negli anni successivi ha portato.
Poi il testo ci accompagna lungo il prosieguo nel Novecento della ricerca nel campo della psicopatologia descrittiva della schizofrenia, da Kurt Schneider, Crow, Janzarik, Berner e altri, approfondisce in capitoli preziosi i disturbi del linguaggio schizofrenico, la nascita e lo sviluppo della classificazione nei sistemi DSM, il modello dei sintomi di base della scuola di Bonn – al quale Maggini ha sempre dedicato particolare e meritata attenzione – la ricerca attuale sulla schizofrenia in rapporto con quelle sul neurosviluppo e la neurodegenerazione, fino al dibattito internazionale di oggi, che personalmente non mi appassiona gran che, sulla denominazione.
Non so quale fosse l’intenzione degli Autori nello scrivere questo volume, ma in ogni caso un bel libro vive di vita propria una volta che è andato in stampa e comincia a circolare. Così, nel leggerlo io mi sento confermato dalla presentazione di tanti diversi modelli descrittivi e sistematizzazioni dello stesso problema, in alcune idee, che mi suggerisce anche l’esperienza clinica: non una sola malattia probabilmente, la schizofrenia ma neppure l’ebefrenia, ma un gruppo; non un’origine costante a partire dal cervello, ma anche la possibilità che il primo danno avvenga a livello della relazione e il cervello sia solo secondariamente coinvolto; un esito non costante ma, almeno in molti casi, aperto, che vale perciò sempre la pena di esplorare. Dopo un secolo e mezzo di sforzi per svelarlo, insomma, qui approfonditi con rigore e competenza, l’enigma della schizofrenia interroga ancora.
Il testo è, certo, prevalentemente attento a ricostruire le tappe di una psicopatologia prevalentemente descrittiva. Pure non manca, nella parte dedicata al Novecento, lo sforzo di approfondire gli incroci – in particolare a proposito del divenire schizofrenici e della cosiddetta “difettualità” – con “l’altra” strada della psicopatologia, quella attenta più che al descrivere al comprendere, che abbiamo visto oggetto del libro di Cappellari. Le due correnti, del resto, non possono essere distinte in modo rigoroso e, occupandosi della stessa questione, necessariamente danno luogo a contaminazioni determinando quell’oscillare – secondo una felice espressione di Cargnello che spesso ricorda Cappellari – tra l’essere con qualcuno e l’avere qualcosa di fronte, sul quale si fonda dopo Jaspers la psicopatologia. Certo non possiamo in questo caso aspettarci una rassegna completa e sistematica dei diversi autori come quella dedicata ai grandi descrittori del fenomeno schizofrenico, ma non mancano riferimenti interessanti a Jaspers, Binswanger, Conrad, Blankenburg, Minkowski o Ballerini tra gli altri. Qualche rapida incursione in campi non necessari all’economia del testo, mi permetto solo di osservare, forse poteva essere evitata, come quella nella quale il “mettere tra parentesi” la malattia è (un po’ sbrigativamente) accostato al negarla.
Impreziosiscono infine il volume una sintesi della storia della Germania negli anni nei quali il dibattito ebefrenia-Dementia praecox-schizofrenia prendeva corpo e alcuni profili biografici degli psichiatri che ne sono stati protagonisti: Griesinger, Kahlbaum, Hecker, Moebius, Wernicke, Pick, Heinrich, Serbsky, Tsisch, Daraszkiewicz, Kraepelin, Bleuler. Ma, soprattutto, ho molto apprezzato la scelta di tradurre due testi dell’epoca. Il primo è il lavoro di Ewald Hecker del 1871 sull’ebefrenia, a proposito della quale insiste, con sensibilità decisamente moderna e descrizioni pregevoli anche dal punto di vista letterario, sulla stretta relazione con l’esperienza della pubertà e dell’adolescenza, il trasformarsi del corpo e l’instabilità e l’incertezza della costruzione, non scontata, dell’identità adulta. Alle quali potremmo aggiungere fattori di ordine sociale quali il passaggio dalla scuola superiore all’università con la sua organizzazione meno strutturata e strutturante; fino a poco fa, la leva militare per i maschi come prima esperienza di distacco dalla famiglia e dall’ambiente; e oggi decisamente la disponibilità di sperimentare sostanze psicoattive.
Così, in Hecker l’evento-malattia trova il suo posto nell’itinerario biografico e nell’esperienza del soggetto, e questo è importante. Il secondo scritto è quello dedicato da Karl Kahlbaum nel 1890 all’eboidofrenia, e mi pare abbia anch’esso grande attualità quando si interroga su comportamenti adolescenziali allora e oggi in bilico tra stigmatizzazione morale (i “discoli”) e malattia. Ed è certamente un ambito problematico che investe il riconoscimento delle forme paucisintomatiche o solo prodromiche della schizofrenia, ma anche il dibattito intorno al quadro contestato negli scorsi decenni, e che oggi gode di nuova prepotente (e chissà se meritata) fortuna, dell’ADHD.
Così presentati questi due volumi che investono il cuore della ricerca psicopatologica e della psichiatria, passo ora ad altri che riguardano problemi più specifici della clinica.
Quest’anno ha visto la ripubblicazione del volume di Cosimo Schinaia sulla pedofilia, nel quale ho concorso a due capitoli, che assume adesso il titolo Pedofilia e psicoanalisi. Figure e percorsi di cura. Nuova edizione rivista, aggiornata e ampliata. Prefazione di Francesco Barale (Bollati Boringhieri, 2019). Originariamente pubblicato nel 2000, il testo ha girato il mondo in questi vent’anni, il che non è così frequente per l’Italia, e ha visto traduzioni in inglese (2010), spagnolo (2011), polacco (2014), portoghese (2015), francese (2017), tedesco (2018). La nuova edizione è arricchita da approfondimenti dei precedenti capitoli dedicati agli aspetti socioculturali, la fiaba, il mito, il romanzo, la storia, l’approccio medico-psichiatrico, quello psicoanalitico, alla relazione pedofila, alle dinamiche interne al gruppo di ricerca, e da nuovo materiale clinico.
Anni fa mi era capitato di occuparmi di una donna di una cinquantina d’anni, il cui sintomo principale era rappresentato da violentissime arrabbiature per i più futili motivi. Diveniva paonazza, alzava tremendamente il tono di voce, inveiva senza possibilità d’interlocuzione, impiegava parecchio tempo a ritornare alla calma, ma non era mai violenta. La sua rabbia si scatenava alternativamente contro i familiari o, quando andavamo a visitarla, anche contro di noi. Quando era tranquilla era cordiale, e molto affettuosa; questo suo modo di relazionarsi poteva infastidire, certo, ma a volte la rendeva, nella ripetizione, anche buffa, e sembrava essere diventato per lei uno stile costante al quale la famiglia si era abituata, e noi pure. Una vera vita sociale, al di fuori della famiglia, certo, non l’aveva. Rimasi molto colpito quando mi dissero che durante una delle solite scenate coi familiari era esploso un aneurisma intracranico, del quale era evidentemente portatrice inconsapevole. Fortunatamente si salvò senza postumi, e divenne da quel momento più tranquilla e compliante verso la terapia a base di tranquillanti: si era presa anche lei un bello spavento. Allora mi ripromisi di studiare il problema e vidi che esisteva una certa attenzione, nella letteratura internazionale, per la relazione tra la rabbia e le affezioni cardiovascolari. Trovai che alla rabbia, tra altre passioni, la storia della psichiatria aveva dedicato una certa attenzione, e lessi un testo dedicato all’ira di Remo Bodei, una delle menti più interessanti delle quali ci ha privato questo 2019. Poi non ne feci mai niente, come tanti progetti rimasti lì. Però questo ricordo mi ha spinto ad accogliere con particolare interesse il volume che ha dedicato alla Rabbia. Dalla difesa all’ostilità la psicologa Laura Occhini del distaccamento aretino dell’Università di Siena (Franco Angeli, 2018).
Il testo, arricchito da una preziosa bibliografia, ricostruisce i rapporti di questa emozione della quale tutti abbiamo esperienza con la filosofia, a partire da Aristotele, con la letteratura – sono particolarmente belli i riferimenti danteschi – con la clinica dell’affettività e del temperamento e poi ne indaga i diversi aspetti, i significati, le forme che può assumere, i modelli con i quali la psicologia si è sforzata di classificarne le forme e definirne le componenti e infine di affrontarla.
Desidero poi segnalare, entrambi attinenti la psichiatria anche se assai diversi tra loro, i volumi di due colleghi che ho incontrato nel corso della mia vita professionale e che hanno rappresentato per me riferimenti importanti. Il primo è L’ascolto e l’ostacolo. Psicoanalisi e musica di Fausto Petrella (Jaca Book, 2018), già stretto collaboratore di Dario De Martis e cattedratico a Pavia e presidente della Società Psicoanalitica Italiana .
Preceduto da un articolo dello stesso titolo pubblicato sulla rivista Atque nel 1997, a testimoniare la longevità di questo interesse di Petrella per il tema, il volume parte dalla constatazione dell’importanza che ha l’ascolto ovviamente in psicoanalisi, ma anche in psicoterapia e in psichiatria e ne approfondisce le caratteristiche attraverso continui rimandi all’esperienza dell’ascolto nella cultura generale, alla musica e all’opera lirica ma non solo, e nella clinica, psichiatrica e psicoanalitica, la sua relazione con il tema dell’alterità e con temi fondamentali dell’animo umano, depressione, nostalgia, amore.
Il secondo testo è La relazione di cura. Difficoltà e crisi nel rapporto medico-paziente di Fabrizio Asioli, già direttore dei Dipartimenti di Parma e di Bologna (Franco Angeli, 2019). Anche in questo caso, l’interesse di Asioli per la relazione di cura nell’ambito della medicina generale non è nuovo.
Si occupa da molti anni di queste questioni ed è stato autore, tra l’altro, con Domenico Berardi del volume Disturbi psichiatrici e cure primarie. Psichiatria per i medici di mdicina generale e del territorio (Pensiero scientifico, 2009) che avevo letto e mi aveva aiutato nell’impostare il rapporto con i medici di medicina generale della zona in cui lavoro. In questo nuovo volume Asioli esplora il tema del rapporto medico-paziente per come è stato esplorato e discusso negli ultimi decenni, e quello della relazione terapeutica intesa sia come contesto all’interno del quale avviene la cura, sia come strumento di cura essa stessa, in grado di influenzare come è noto anche nei setting medici non specialistici in senso positivo o negativo l’efficacia di ogni atto terapeutico.
Nel video: Carlo Maggini. Schizofrenie subapofaniche e sintomi di base (2016).
A seguire la seconda parte: Letture 2019. 2. Il contesto storico e sociale.
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