Percorso: Home 9 Epistemologia e storia 9 QUINTA LETTERA SULLA STORIA DELLA PSICHIATRIA E DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA: Basaglia a Gorizia

QUINTA LETTERA SULLA STORIA DELLA PSICHIATRIA E DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA: Basaglia a Gorizia

2 Mag 20

A cura di Paolo F. Peloso

 

L’Italia nel corso degli anni ‘50 rimase indietro rispetto agli altri Paesi occidentali; tutte e tre le «rivoluzioni» psichiatriche di cui abbiamo parlato giunsero in ritardo, un ritardo più contenuto per la rivoluzione psicofarmacologica. Franco Basaglia era assistente all’Università di Padova e si occupava di psichiatria avendo come riferimento i testi della psichiatria a orientamento fenomenologico; seguiva perciò una corrente filosofica che, in estrema sintesi (perché occorrerebbe molto tempo per approfondirla), mi pare che si caratterizzi, per quello che qui ci interessa, per questi aspetti fondamentali:

– cercare di rapportarci alle cose riportandole alla loro nuda realtà, cioè liberandole di tutti i giudizi e pregiudizi che nel corso della storia si sono accumulati (in questo senso è da intendersi l’affermazione di Basaglia che la malattia mentale non esiste, perché – come abbiamo visto – la malattia mentale è un particolare modo con cui a partire dal XIX secolo la medicina ha colto il fenomeno della follia, che invece essa sì esiste ed è una delle forme che l’esistenza dell’uomo può assumere. Per la stessa ragione, Basaglia riprende dalla fenomenologia l’dea che incontrando un uomo folle, dobbiamo mettere tra parentesi il fatto che quella persona sia malata e il termine con il quale la psichiatria indica sinteticamente la sua diagnosi, perché questo giudizio a priori ci impedirebbe di cogliere, come aveva già sostenuto prima Karl Jaspers, la realtà concreta e singolare di quella persona e della forma che l’esistenza ha assunto nel suo caso
– tentare, come scrive Lodovico Cappellari in un testo pubblicato l’anno scorso (L’esperienza psicopatologica. Il senso della clinica nella prospettiva della cura),  «di comprendere le esperienze interne [il «vissuto»] dell’altro anche quando esse appaiono incomprensibili a un primo avvicinamento, di dare loro un senso, di cercare di studiare ed evidenziare come certe esperienze vengono formandosi nel mondo interno, di ridare cioè il diritto, ai pazienti, di essere ascoltati e di condividere con noi un cammino terapeutico»
– non interessarci tanto alla descrizione della forma che la follia assume in un essere umano, ma invece concentrarci sul modo in cui egli affronta, organizza, sente, interpreta il suo essere sofferente, per cercare di dargli comprensione e aiuto.
 Il 1961 è un anno importante per il nostro discorso perché: – Michel Foucault pubblica la Storia della follia, nella quale ricostruisce la nascita della psichiatria e la trasformazione della follia da un fenomeno sociale in una malattia – Frantz Fanon pubblica I dannati della terra – Erwing Goffman pubblica Asylums.
E, quello stesso anno, Franco Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, e subito l’impatto con la povertà e la sofferenza dei malati, per lui che era abituato a visitare i pazienti della Clinica universitaria, è sconvolgente. Anni dopo racconterà di aver ritrovato in essi in quel momento la sua esperienza di detenuto, quando da studente era stato incarcerato per attività antifascista. E di aver ritrovato l’ambiente che Primo Levi aveva descritto a proposito del lager, le stesse dinamiche istituzionali, appena un po’ attenuate. Confesserà che il primo pensiero all’arrivo in manicomio è di fuggire, ritornare all’Università; di non poter affrontare quella realtà. Poi decide di rimanere e di lottare per la "distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione" (questo è il titolo della comunicazione con la quale tre anni dopo annuncerà al congresso internazionale di psichiatria sociale a Londra il suo progetto). Quello che BAsaglia incontra a Gorizia, insomma, è un uomo:

«… Isolato, segregato, reso inoffensivo dalle mura che lo rinchiudono, il ricoverato pare assumere un valore al di là di quello umano, fra animale docile ed inoffensivo ed una bestia pericolosa….. …l’uomo pietrificato dei nostri ospedali, l’uomo immobile, senza uno scopo, un’attesa, una speranza verso cui tendere, l’uomo acquetato e libero dagli eccessi della malattia, ma ormai distrutto dal potere dell’istituto»  F. Basaglia, 1965

In quel momento, l’ospedale psichiatrico esiste da quasi due secoli (da ancora di più, se consideriamo le istituzioni come quella descritta da Menavino; Basaglia è un uomo solo, che concepisce un sogno che sembra folle, impossibile. Questa è la realtà che incontra, nel ricordo che ne fa ad Antonio Slavich, il primo collega che lo raggiunge per aiutarlo:

«L'interno degli otto reparti, da 50 o da 100 letti, era verniciato a olio e arredato con qualche panca e pesanti tavolacci; vi stazionavano qualche divisa bianca, non proprio immacolata, e più di 600 corpi infagottati in tela, grigi e rapati. Nei due reparti A accettazione i corpi stavano in prevalenza a letto, alcuni legati; nei due reparti B agitati molti erano contenuti a letto nelle celle. Nelle belle giornate, che a Gorizia erano frequenti anche a novembre, era il tempo delle lunghe ore d'aria: e allora tutti dovevano stare a rabbrividire nei cortili, alcuni ingabbiati, alcuni – specie al B – anche legati agli alberi, i più stesi per terra lungo i muri, o sulle panche di pietra, o ambulanti in un moto perpetuo e senza meta. Il sommesso brusìo e lo scalpiccio erano assordanti, ma in quella mattina di sole qualcuno, forse per compiacere il nuovo direttore, aveva acceso gli altoparlanti, da cui Mina urlava: "Tintarel-la di luu-naaaaa! Tintarella color laat-teeeeee!". Persino Franco fu colpito dal contrasto stridente e ne sorrise, come in seguito raccontò lui stesso a Slavich con la consueta ironia» (Slavich, 2018, p. p. 33).

Basaglia è un uomo di grande cultura e può disporre di un apparato teorico ampio e di peso che lo aiuta ad affrontare le difficoltà che incontra nel mondo incrostato da due secoli di storia del manicomio; cerchiamo di schematizzarlo per quanto è possibile:

Riferimenti filosofici: Jaspers, Husserl, Binswanger, Minkowski, Merlau-Ponty, Sartre
Sociologia delle istituzioni: Primo Levi, Russel Barton, Erwing Goffman
Antifascismo e lotta anticoloniale: Antonio Gramsci, Frantz Fanon
Esperienze di trasformazione del manicomio: comunità terapeutica anglosassone, socioterapia e psicoterapia istituzionale francesi
Esperienze all’esterno, nella società: psichiatria di settore francese, psichiatria di comunità anglosassone
Storia della psichiatria: Michel Foucault, riscoperta di John Connolly

Nel mettere mano alla distruzione dell’istituzione, Basaglia fa proprio ciò che scriveva Barton: da un lato si occupa, singolarmente uno per uno e non in modo seriale come faceva il manicomio, dei degenti per liberarli dall’autostigma e aiutarli a rendere la loro follia compatibile con la vita nella società; e dall’altro si occupa della città e dello Stato, per combattervi i meccanismi dello stigma che rendono necessario l’ospedale psichiatrico.
In una conferenza fondamentale tenuta all’Università di Genova nel 1967, sostiene che gran parte della degradazione, inferiorizzazione e istituzionalizzazione del degente passa attraverso il corpo, i gesti, gli atti e racconta come a Gorizia si sta affrontando il problema, per poi concludere che: “Un’istituzione che intende essere terapeutica, deve diventare una comunità (…) dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo-proprio e il proprio ruolo”.
Quello del ruolo, insomma, continua a essere a Gorizia come lo era stato per i teorici della comunità terapeutica e della socioterapia un intreccio impossibile da sciogliere. Nell’assemblea si è uguali ma diversi. C’è il sig. tale e il signor tal altro, tutti possono contraddirsi l’un l’altro, ma poi c’è il «signor direttore» e c’è il dottor tale e il dottor tal altro ai quali tutti si rivolgono e dai quali, anche se si sentono liberi di contestarli, si attendono poi le soluzioni. E i dottori al termine della riunione discutono tra loro, in una sorta di assemblea sull’assemblea. Uguaglianza o diversità dunque?
Mi pare che dagli scritti di Gorizia in quel periodo si possa dedurre che si è uguali sul piano antropologico, è pari cioè la dignità umana e sono pari i diritti basilari previsti dalla Costituzione. Si è uguali per tutto ciò che non implica specifiche competenza e le responsabilità a esse collegate. E si è diversi quanto alle competenze e ai livelli di responsabilità. Si discute tutti, e ogni voce è importante; e se si deve decidere se la prossima gita da organizzare sarà al mare o in montagna si voterà per alzata di mano (e guardate che anche ricordarsi la riconsegna al gruppo di questo potere non è per niente semplice per noi operatori, perché siamo sempre tentati di decidere per gli altri); ma se dobbiamo decidere se le condizioni cliniche di Gino sono abbastanza buone per partecipare, beh lì non si decide più a maggioranza e, magari dopo aver ascoltato il parere di tutti, però decide il tecnico. Rispetto al manicomio, dove tutto il potere era del direttore e poteva essere da lui delegato al più all’interno dello staff, la comunità terapeutica è una realtà molto più complessa, è una continua faticosa operazione di assunzione e riconsegna di potere per la quale il gruppo di Gorizia conia la definizione di «deistituzionalizzazione», un nodo che ritorna sempre nella riabilitazione.
Deistituzionalizzazione, infatti, è un termine che viene inventato a Gorizia e che non ha a che fare tanto (o solo) con il fatto di chiudere un’istituzione totale, come un manicomio o un carcere, quanto piuttosto col rompere la tendenza a pietrificare, rendere rigidi, inamovibili definiti una volta per tutte ruoli e rapporti tra le persone che è propria di ogni istituzione, anche quelle della nuova psichiatria. Deistituzionalizzazione è aborrire ogni pur piccolo esercizio di potere che non sia reso indispensabile dalla necessità. Ogni regola seriale, uguale per tutti, che non possa essere volta per volta discussa, verificata nella sua reale necessità, rinegoziata con ciascuno. Ogni momento nel quale il lavoro istituzionale tiene più conto dell’interesse e della comodità dell’istituzione o del singolo operatore che dei bisogni e della libertà del paziente. Deistituzionalizzazione è, per Basaglia e la sua équipe, scegliere, ogni volta che si può, il massimo di libertà possibile per l’altro. Sforzarsi di guardare e vivere le cose come l’altro le vive.
Nel 1978, gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi in Italia, nel 1998 anche le ultime persone che c’erano rimaste chiuse dentro sono uscite, nel 2015 sono stati chiusi anche gli ultimi sei Ospedali Psichiatrici che rimanevano, quelli Giudiziari. Si potrebbe pensare allora che Basaglia abbia vinto su tutta la linea, che questi discorsi che stiamo facendo su Gorizia facciano veramente parte ormai della storia. Invece credo di no. Nella vostra carriera, già nei vostri tirocini, avrete modo di vedere come, chiuso il manicomio, il nodo istituzione/deistituzionalizzazione ci accompagna ancora ogni giorno nel lavoro, in tutti i luoghi nei quali si ripete l’incontro tra un soggetto che soffre e l’istituzione psichiatrica dalla quale si aspetta la cura. Come questo nodo sia qualcosa che non potrà mai essere consegnato alla storia dell’evoluzione del pensiero psichiatrico e riabilitativo dove pure ha le radici, perché forse è il nodo centrale della psichiatria e della riabilitazione. Ed è anche una questione che si riapre, direi, ogni volta che un operatore e un paziente si incontrano, per fare insieme riabilitazione psichiatrica. A Gorizia le cose cominciano a muoversi, certo in modo graduale, agendo su più piani contemporaneamente:

1. Apertura dei reparti, abbattimento delle reti e delle sbarre
2. Introduzione degli psicofarmaci, che prima erano poco utilizzati
3. Umanizzazione delle relazioni, stoviglie, personalizzazione degli abiti e degli spazi
4. Abolizione graduale dei mezzi di contenzione
5. Assemblee di reparto e generali, trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica
6. Ripresa dove possibile dei legami con le famiglie all’esterno, permessi e dimissioni in famiglia
7. Qualificazione del lavoro degli infermieri, formazione  
8. trasformazione completa del significato terapeutico del lavoro dei ricoverati.

Il lavoro non è più concepito solo come strumento per la distrazione dalla malattia, la rinuncia al disordine e l’allenamento alla normalità, ma come elemento della riacquisizione della fiducia in se stessi e della scoperta della propria dignità:

“Il problema del lavoro, delle attività verso cui stimolare i malati apatici, indifferenti, abulici, è fondamentale. Ma mentre nell’ospedale il lavoro ha il solo significato di un riempitivo, nella nuova situazione esso deve assumere un valore terapeutico, come occasione di incontri, rapporti interpersonali spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa distrutta (….). E nell’esigere la retribuzione quale logica contropartita di ciò che il lavoro dà alla comunità, il malato riesce a farsi riconoscere nel proprio valore di scambio” (Basaglia, 1967).

Le due assemblee che Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba commentano in Che cos’è la psichiatria? sono un capitolo straordinario, perché rappresentano una discussione tra persone su temi estremamente attuali. Innanzitutto per ciò che si dice sul lavoro in generale: vengono discusse questioni che corrispondono al tema della piena occupazione, che allora esisteva nei Paesi socialisti, o a quello del reddito di cittadinanza, del quale si discute oggi in Italia. Ma anche per quello che i degenti dicono sul lavoro in rapporto alla riabilitazione: si parla della paga, che per in paziente è «un sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio» (p. 156). E del significato generale del lavoro per la persona; la sig.na Danieli è lapidaria in proposito: «aiuta più il lavoro che le medicine, le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine» (p. 167). Insomma, si scopre che questi folli, ammutoliti da secoli, possono davvero dire la loro. Gli anni passano e tra 1967 e 1968, l’équipe di Gorizia dà alle stampe due libri fondamentali, nei quali racconta quello che sta avvenendo; hanno titoli ambiziosi: il primo niente meno che «Che cos’è la psichiatria?» e il secondo «L’istituzione negata», e avrà un successo strepitoso.
Il gruppo di Basaglia vi recupera le figure di Connolly e Marandon de Montyel, sconosciute in Italia, affronta diversi snodi teorici della questione della comunità terapeutica, gli operatori di Gorizia si confrontano con i colleghi di Parma che lavorano ancora in modo tradizionale. Sono due libri strani, nei quali è tutta la comunità ospedaliera a essere protagonista; la voce dei degenti irrompe in interviste e spezzoni di verbali d’assemblea, non più come «esempio clinico» come avveniva in genere nei libri di psichiatria, ma come soggetti che dicono la loro: sul processo di trasformazione in atto, sul desiderio di avere casa, lavoro, affetto. Dicono la loro e sono anche critici verso il direttore, e in questa possibilità di reciproca contestazione tra il personale, direttore compreso, e i degenti (impensabile al tempo del manicomio) Basaglia individua un segno del fatto che il processo di risoggettivazione sta avendo successo. Alla fine del 1968 – dopo che un brutto incidente, l’uccisione della moglie da parte di un degente in permesso a casa, ha precipitato Basaglia nello scoramento e ha rischiato di compromettere tutto il lavoro –  il giornalista Sergio Zavoli entra a Gorizia e gira un documentario straordinario, I giardini di Abele, nel quale (di nuovo) accanto a direttore, medici e infermieri sono i pazienti a parlare di sé: c’è chi non vuole essere visto come un mostro e chi vuole lavoro e soldi. In 7 anni, sono cambiate davvero tante cose…. L’esperienza ora è famosa, ma ormai sta stretta nei suoi muri: i degenti sarebbero pronti a ritornare alla città, alcuni lo fanno. Ma la città non si adopera per riprenderli. Tra Basaglia e Gorizia si è al braccio di ferro che porterà, complice anche un brutto incidente e la crisi personale e l'amarezza che vi hanno fatto seguito,  alle sue dimissioni. Lascia Gorizia facendo sue le parole con le quali Fanon aveva lasciato Algeri.


Nel video: Psicantria: Ehi Franco. Omaggio a Franco Basaglia 

Segui il link per la sesta e ultima lettera

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia