PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

ABELE NON ABITA PIU' IN QUEI GIARDINI, PERO'…

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20 luglio, 2019 - 13:39
di Paolo F. Peloso
Sono passati cinquant’anni da quando entravano nelle case degli italiani attraverso la porta maestra della RAI le parole e le immagini de I giardini di Abele, il documentario girato in quel manicomio di Gorizia, dove un giovane direttore stava lavorando a distruggerli, quei giardini dove per l’ennesima volta qualcuno subiva una violenza, un’ingiustizia e il fratello rifiutava di sentirsene responsabile con le celeberrime parole: “e io ché ne so di mio fratello?”. Sergio Zavoli, 45 anni all’epoca, conduttore su RAI 2 del fortunato programma TV7, è stato il protagonista di quell’incursione con la superotto.
Ed è stato proprio da quel documentario, ha spiegato recentemente don Ciotti in una Lezione magistrale affascinante alla Conferenza nazionale sulla Salute Mentale[i], che il gruppo che è oggi una delle realtà di partecipazione sociale più interessanti dell’Italia che vuole cambiare, degli italiani che non vogliono rinunciare a chiedersi ché ne è del fratello, si è dato quel nome.
E mi chiedo oggi, nel giorno in cui ricorre il XVIII anniversario della contestazione al G8 genovese e dell’uccisione di Carlo Giuliani[ii] - appuntamento nel pomeriggio in Piazza Alimonda - dove andrebbe Sergio Zavoli con la sua superotto, oggi che - grazie all’ostinazione di Franco Basaglia in primo luogo -  quei giardini di Abele non esistono più?
La risposta mi pare fin troppo ovvia: andrebbe, come qualche suo epigono coraggioso già fa, sui barconi che salpano dalla Libia, nei campi di concentramento ai quali l’Europa restituisce i bambini, le donne, gli uomini che tentano di lasciare l’Africa col miraggio di vivere un po’ meglio: quelli, non c’è dubbio credo, sono i nuovi giardini di Abele dei quali in molti dicono, come allora dell’inferno manicomiale, “e io ché ne so di mio fratello?”[iii].
Perché questo documentario che si riferisce con tanta precisione di una situazione, la trasformazione in atto nel manicomio di Gorizia, ha un valore universale: perché parla di Abele, e Abele può essere chiunque.
Credo che quel documentario sia stato uno dei documenti più densi ed intensi della storia della psichiatria: affascinanti le musiche e l’immagini con le quali si apre. Indimenticabili le parole con le quali la voce fuori scena di Zavoli introduce a quel luogo con citazioni quasi alla lettera dagli scritti di Basaglia di quegli anni[iv].
Il momento non è casuale: Zavoli allude garbatamente a un fatto di cronaca drammatico che rischia di fare piazza pulita dell’intera esperienza basagliana, di sbarrarne per sempre il percorso. E sceglie di correre in soccorso a questo intellettuale che evidentemente stima nel momento che per lui è più difficile, e nel momento in cui quell’esperienza è meno popolare. Chissà, se non ci fosse stato quell’incidente, se non ci fosse stato lì, in quel momento, così drammaticamente bisogno di sostegno, se Zavoli ci sarebbe andato lo stesso, a Gorizia?
La voce fuori campo ci parla della dialettica ospedale chiuso/ospedale aperto che è al centro de L’istituzione negata uscita nell’anno nel quale vengono girate quelle scene, non erano ancora anni di ossessione della privacy ma si giustifica per il fatto che, inevitabilmente, per mostrare il volto del manicomio dovrà inevitabilmente mostrare il volto delle vittime, cercando un delicato equilibrio tra il rispetto del pudore e l’esigenza di dare volto alla denuncia.
Sono uomini senza voce e senza diritti, quegli uomini e quelle donne,  come negri, indigeni, apolidi, sottoproletari, ebrei. Coglie il ruolo importante – certo non esclusivo – che la povertà può avere nell’origine e il decorso della follia, sul quale Basaglia insiste nei suoi scritti. Una povertà, e un divenire poveri soprattutto, che non è solo povertà materiale ma lo è anche, e che non solo ha un posto preminente tra gli eventi di vita che meritano di essere considerati, ma è anche la povertà della condizione manicomiale che nella follia sprofonda chi ne è vittima: così, “accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere alla fine se stesso”. Perché certo “anche i ricchi possono ammalarsi, ma i poveri di fronte alla malattia sono indifesi”[v].
La voce fuori campo invita a interrogarci sulle nostre responsabilità nel destino di quegli uomini e quelle donne, e intanto le immagini mostrano i simboli dell’istituzione chiusa: camicia di forza, chiavi. E poi, la liberazione: il passaggio all’ospedale aperto  i suoi simboli, a partire dall’assemblea, il nuovo momento centrale della vita istituzionale al quale tutti partecipano, dove tutti hanno voce.
Entra nel dibattito che è in corso tra gli infermieri, come cambia il loro ruolo, il ruolo degli psicofarmaci, il fatto che il non-legare comporti più fatica per loro.
E poi c’è quell’intervista, bellissima, con Basaglia, il suo mostrarsi timido, schivo, impacciato di fronte all’obiettivo, ma anche determinato a sostenere la sua battaglia. I dubbi di Zavoli – che sono quelli di molti allora e ancora - sul carattere civile o scientifico dell’esperimento goriziano, come se non potesse essere l’uno e l’altro, l’uno intrecciato con l’altro.
E poi la questione della cura in psichiatria, una cura che non si può fare finché l’alienato è costretto alla sudditanza, perché non c’è cura se non c’è “libera comunicazione” tra medico e malato, e sembra di sentire le parole di Frantz Fanon, le citazioni che si leggono negli scritti basagliani di quegli anni.
La schiva ma fondamentale ammissione: “io faccio la psichiatria, o almeno credo di farla”. Alla faccia di tanti che lo spacciano per antipsichiatra, perché certo fuori dalla psichiatria darebbe meno fastidio. Tanto a chi ama una certa “psichiatria” (quella che non si toglie mai il camice bianco, e non si sporca certo le mani con la povertà di tanti suoi pazienti), che a chi odia la psichiatria in toto, come se non esistessero il problema della follia, della cura, a volte del controllo. E invece no: lui è dentro la psichiatria, atipico, democratico, dialettico, contraddittorio, radicalmente critico, ma è dentro!
E dice verità scomode: che c’è una psichiatria per i poveri, e una per i ricchi, e che il suo sogno  sarebbe dare ai poveri la psichiatria che fino ad allora era riservata ai ricchi. Cita un proverbio calabrese: quello per cui chi non ha, non è. E lo sanno bene anche oggi i migranti, vittime di una povertà assoluta e in balia di leggi feroci e assurde, condannati ad annegare e morire nell’anonimato e nel silenzio. Che non è che il malato di mente non sia pericoloso, ma che questo non dipende soltanto (soltanto!) dalla malattia, dipende da quella e da altro, e anche la malattia stessa dipende da molteplici fattori nella sua origine come nel decorso. E poi che anche la pericolosità può essere gestita, non deve essere sempre necessariamente chiusa[vi].
Ancora, dopo quasi due secoli di psichiatria confessa candidamente, facendo sobbalzare tanti baroni pieni della loro sicumera sulle cattedre, ciò che la tradizione fenomenologica e l’esperienza sul campo gli hanno svelato: che nessuno sa cos’è il malato di mente.
L’importante è trovare l’intraprendenza e il coraggio di avvicinarsi alla malattia, e soprattutto al malato. Sono pensieri che non si concludono, pensiero in fieri forse destinati a rimanere tali, aperti, in ricerca, sempre dubbiosi. E alla domanda di Zavoli, evidentemente capace di cogliere il punto, se gli interessi di più la malattia, con il suo fascino di terra inesplorata da dissodare e da ordinare nella nosografia, o il malato, risponde questa volta sì, senza esitazione, “oh decisamente il malato!”.
Il malato che il grande internamento descritto da Foucault ha portato in massa all’internamento, il malato di fronte al quale Zavoli insiste: è necessario liberarsi da  molto scetticismo e molta pigrizia, per incamminarsi sulla strada della comunità terapeutica già percorsa da tante esperienze in Inghilterra e in Francia, che gli psicofarmaci appena introdotti rendono più facile da avvicinare.
Ed eccolo lì, il malato, nella parte finale del filmato, che ci mette la faccia e la parola. Il malato dell’istituzione aperta che non è l’alieno da andare a curiosare come fosse in uno zoo ma che assomiglia così tremendamente all’uomo che incontriamo per strada, al vicino di casa, a noi stessi. E che ribadisce che il manicomio pubblico si limita a custodire, e spazi di libertà li può ottenere solo chi ha, in forma privatistica; che si mostra meravigliato di tanto interesse: “sono mica un mostro, sa?”. Che si sente trattato “come un povero negro”, e il pensiero ritorna alla lotta anticoloniale di quegli anni, e a quella per l’accoglienza di oggi. Che a questo punto, libero di girare per la città, ha lui stesso un dubbio che, forse, malato non è; che abita ormai fuori, nella città, e ritorna all’istituzione psichiatrica per la visita di controllo, come tanti dei nostri  malati, la maggior parte, oggi; che sente con orgoglio che “quando verso un individuo si ha della fiducia, non si può dire che sia pazzo”.
Che sa che il denaro e il lavoro sono – allora e ancora io credo - i nodi centrali di questi percorsi d’inclusione “se parlo di film, di sole, di poesie ecc., nessuno mi sta a ascoltare, no, mentre se parlo di cose serie tutti mi ascoltano, i soldi, tutti mi ascoltano”[vii]. Chi non ha, non è, insomma...
Così, mi pare che se certo oggi Abele non abita più in quei giardini, ed è stata una grande vittoria della quale l’anno scorso abbiamo celebrato i 40 anni[viii], però ritornare a vedere le immagini e le parole di questo documentario può ancora dare molto. Perché Abele non abita più lì, ma abita altrove e ha lo stesso bisogno che non ci dimentichiamo di lui. E perché anche rispetto a quella specifica situazione - quella di chi “crede di fare psichiatria” da operatore, ma anche da paziente, famigliare, membro della società civile - ciascuna di quelle parole, che merita di essere mille volte riascoltata e meditata, perché ha ancora straordinariamente molto da dire.
Il documentario è ora disponibile open access sul web: assolutamente da rivedere di tanto in tanto, credo!
  
 

[iv] Sugli scritti basagliani di quegli anni, cfr. in questa rubrica: 50 anni di “Corpo e istituzione”: Parte I: Basaglia e Genova, Parte II: Il corpo e il serpente, Parte III: Deistituzionalizzazione; Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo: Parte I. Gorizia e Parma, Parte II. Lavoro, psicoterapia, istituzione, Parte III. Tutta un’altra storia, Parte IV. E oggi?; L’istituzione negata. 50 anni dopo, è ancora da lì che dobbiamo partire; Ancora su “L’istituzione negata…” perché 50 anni dopo è proprio di lì che dobbiamo partire. Confronta inoltre: Franco Basaglia e il ’68. Un incontro fortunato.
[vi]  Ricordo in proposito, il dibattito con Angelozzi e Pozzi su Psicoterapia e scienze umane, n. 2 e 3 del 2017.
[vii] Sul tema del rapporto tra lavoro e salute mentale, cfr. in questa rubrica: 1 maggio. 5 tesi impertinenti su lavoro, psichiatria, persona.

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In ricordo di Sergio Zavoli, un gigante del giornalismo, e del suo impegno per un'Italia e una psichiatria migliori, ripropongo a un anno di distanza il commento su "Pol. it" al suo documentario "I giardini di Abele", disponibile su RAIPLAY.


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