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GIORNO DELLA MEMORIA 2022: lo sterminio dei malati di mente sotto il nazismo

27 Gen 22

A cura di Paolo F. Peloso

Il 27 gennaio, anniversario della liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, è giustamente dedicato in primo luogo al ricordo dello sterminio degli ebrei da parte del regime nazista, che seguì anni di persecuzioni alle quali anche l’Italia si associò con la legislazione razzista del 1938, condivisa dalla parte del mondo scientifico più asservita al fascismo (vai al link), che ebbe, tra le conseguenze, la diaspora temporanea o definitiva di numerosi intellettuali la cui storia Patrizia Guarnieri sta meritoriamente lavorando a ricostruire (vai al link).
Non dobbiamo però dimenticare altre le categorie coinvolte nello sterminio: zingari, slavi, avversari politici in particolare comunisti, e – prima di tutti costoro – i malati di mente. Lo sterminio di questa popolazione fu realizzato prima di quello delle altre, e deve essere ricondotto a un filone del pensiero occidentale diverso da quelli razzista e antisemita, che vide più attivi gli psichiatri; a loro perciò dedicherò quest’anno la giornata.
Nelle lezioni tenute al Collège de France, Michel Foucault (1974-75) ha individuato intorno alla metà dell’Ottocento il momento nel quale la psichiatria cessa di proporsi principalmente come medicina del pensiero e dei sentimenti e da un lato dilaga dal manicomio nel campo del governo biopolitico della società, proponendosi come strumento di controllo e indirizzo dei comportamenti; e dall’altro pretende sempre più convintamente di poter – senza mai dimostrare realmente le proprie – l’oggetto  in espansione del suo sapere ad anomalie rintracciabili nel corpo.
La psichiatria si occupa così sempre meno di guarire l’alienato, e sempre più assume una funzione di difesa sociale trasformandosi in una «tecnologia generale degli individui che incontreremo ovunque ci sia del potere: famiglia, scuola, officina, tribunale, prigione» (Foucault, 1974-75, p. 246). In questo processo di “medicalizzazione dell’anormale”, la psichiatria arriva ad avanzare la pretesa di sostituirsi alla giustizia e all’igiene, diventando: «La disciplina della protezione scientifica della società, la scienza della protezione biologica della specie» (ibid., p 282). L’anno successivo, Foucault (1975-76, p. 222) avrebbe ulteriormente precisato che il nuovo razzismo di stato «rappresenta il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, è stato possibile introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire».
A questa evoluzione, non furono estranee in primo luogo l’introduzione della nozione di degenerazione da parte di Bénédict Augustin Morel (1809-1873) nel 1857 e la sua diffusione, attraverso una sua estensione all’intero campo dell’ereditarietà, da parte di Valentin Magnan (1835-1916) e Paul Maurice Legrain (1860-1939) negli anni ’80 e ’90, nonché la sua progressiva estensione dalla medicina dell’individuo a quella delle masse. In secondo luogo, la pubblicazione de L’origine della specie da parte di Charles Darwin nel 1859, e la grande influenza che essa esercitò, direttamente o indirettamente, sul mondo scientifico. E dopo di essa quella, da parte di suo cugino sir Francis Galton (1822-1911) nel 1883, del libro  Indagini sulle facoltà umane nel quale veniva utilizzata per la prima volta la parola “eugenica” (più recentemente trasformata in eugenetica). Con essa, ci si intendeva riferire a una nuova scienza, volta al miglioramento della specie umana attraverso interventi di governo della riproduzione e di selezione in grado di dirigerne scientificamente l’evoluzione.
Tra gli strumenti che la nuova scienza, alla quale la esuberante psichiatria dell’epoca positivista si guardò bene dal far mancare il proprio contributo, aveva a disposizione, si distinguevano quelli più miti e quelli radicali. Tra i primi, sono da ricordare l’igiene sessuale e matrimoniale perseguiti attraverso l’educazione dei fanciulli, l’applicazione di reattivi mentali per indirizzare nel campo delle scelte scolastiche e lavorative, l’uso di tecniche riabilitative volte a migliorare la capacità di performance, sia in riferimento all’uso del corpo che a quello della mente, degli individui.  Molto più perturbanti furono i secondi, che passavano per la sterilizzazione obbligatoria degli individui considerati potenzialmente capaci di trasmettere caratteri genetici disgenici alla discendenza,  l’aborto selettivo fino a giungere all’eliminazione di quelle che venivano considerate “vite prive di valore” anche dopo la nascita e anche quando avevano già raggiunto l’età adulta.
A sostegno di quest’ultimo provvedimento, venivano invocate ragioni di ordine altruistico, perché persone sofferenti e inguaribili non dovessero sopportare una inutile sofferenza; eugenetico, perché persone geneticamente tarate non potessero trasmettere i loro geni; utilitaristico, perché persone improduttive e prive della possibilità di migliorare non pesassero inutilmente sui bilanci pubblici.    
Queste tesi suscitarono, come era da attendersi, un acceso dibattito nel mondo scientifico. La sterilizzazione obbligatoria trovò applicazione in molti degli Stati Uniti fin dai primissimi anni del XX secolo, in Danimarca (1929), Germania (1933), in Norvegia e Svezia (1934), Finlandia (1935), Estonia (1937). La sterilizzazione obbligatoria proseguì in molti casi dopo la guerra, e anzi fu introdotta in Finlandia nel 1950 per terminare nel 1970, mentre fu abrogata in Danimarca, nel 1973 in Svezia nel 1975 e in Norvegia, solo in parte, nel 1977.
L’eugenetica fu respinta dall’Unione Sovietica di Stalin, che la considerò “scienza borghese” per il suo evidente carattere antiegualitario, e ricevette in genere tiepida accoglienza nei Paesi latini, anche per l’opposizione della Chiesa cattolica a ogni tentativo di manipolazione dell’atto procreativo, che culminò nel 1930 con la promulgazione dell’Enciclica Casti connubii. Non ebbe successo in Francia, ad eccezione dell’adesione di alcuni medici noti ma a titolo personale, e i provvedimenti più radicali furono fieramente avversati in Italia, in primo luogo dagli psichiatri.
La stessa generazione di psichiatri in buona parte fascisti per convinzione o per opportunismo che, invece – lo abbiamo ricordato su questa rubrica (vai al link) –  si macchiò di vergogna con l’adesione al Manifestio degli scienziati razzisti del 1938.   
E' stata recentemente pubblicata la lettera a Hitler di una donna tedesca, volta a ottenere che la figlia, destinata dalla commissione medica alla sterilizzazione in quanto schizofrenica, fosse dispensata dall’intervento: «Mia figlia considera la sterilizzazione un trattamento umiliante e si sentirà una cittadina di seconda classe espulsa dalla società. Preferirebbe morire che fare esperienza di una tale umiliazione… E’ disponibile ad accettare ogni altra misura preventiva protettiva da una discendenza indesiderata… Il 14 novembre 1935, ha ricevuto una lettera dal nostro ufficio sanitario che prescrive la sterilizzazione. Il 18 novembre 1935, mi sono rivolta all’ufficio sanitario chiedendo di rimandare l’intervento ma la mia istanza è stata respinta e le è stato detto di presentarsi senza indugio, oppure sarà portata là sotto scorta della polizia. Preoccupata per la sua vita e la sua salute mi rivolgo a voi come la nostra ultima risorsa, mein Fuerher». Pare che questi appelli rimanessero regolarmente senza risposta.     
Se, dunque, nella sterilizzazione obbligatoria la Germania non fu sola e anzi fu anticipata da altri Paesi dell’Occidente, diversa è la situazione per ciò che concerne la possibilità di sopprimere la vita di soggetti improduttivi, sofferenti, inguaribili. Non che essa non fosse stato discussa all’interno del mondo scientifico, raccogliendo consensi in particolare negli Stati Uniti e in Europa occidentale, ma essa non fu mai presa in considerazione in questo caso dal potere politico. Quanto all’Italia fascista, è da notare che gli psichiatri vi si opposero con forza in molteplici consessi internazionali, ed Enrico Morselli, allora presidente della Società Freniatrica, scrisse un libro nel 1923 volto a scongiurare confutare le tesi alla base di questa ipotesi, confessando il suo turbamento in primo luogo di uomo di fronte all’ipotesi che qualcosa del genere si potesse verificare. 
In Germania un certo interesse per questa eventualità risaliva già agli anni della Repubblica di Weimar e anche prima. Il primo a prenderla in considerazione pare sia stato uno studente di 21 anni, Adolf Jost, in un libro del 1895. Nel 1920 poi, lo psichiatra Alfred Hoche (1865-1943), professore a Friburgo, e il giurista Karl Binding (1841-1920) radicalizzarono le sue stesse argomentazioni legittimando l’eutanasia delle vite prive di valore nel volume L’autorizzazione a distruggere la vita indegna di essere vissuta, oggi disponibile in edizione italiana curata nel 2012 da de Cristoforo e Salietti per Ombre corte (Precursori dello sterminio).
Questo per dire che l’idea di sopprimere le vite considerate prive di valore degli internati nei manicomi e nelle cliniche psichiatriche non nacque dalla mente e meno che meno dall’ipotetica follia di un uomo, Hitler; ma fu un’ipotesi a lungo accarezzata e dibattuta nel mondo scientifico, che poi trovò nel nazismo il regime politico disposto a realizzarla.
Potremmo osservare che è pericoloso legittimare la circolazione di idee disinvolte nel trattare della vita e della morte della singola persona umana senza allarmarsi, perché nella storia non si può mai essere sicuri del fatto che, prima o poi, non si verifichino circostanze nelle quali qualcuno possa pensare di trasformare quelle che sembravano solo mere ipotesi teoriche in una feroce realtà.
La prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie attraverso la sterilizzazione obbligatoria fu tra i primi provvedimenti legislativi di Hitler subito dopo la nomina a cancelliere, con la legge approvata il 14 luglio 1933, che si stima abbia colpito in quegli anni tra tre e quattrocentomila persone, il 5-7% della popolazione tedesca. Tra di esse c’era Dorothea Sophie Back- Zechlin, che negli ultimi anni è stata anche con le sue pubblicazioni uno dei leader mondiali delle associazioni di pazienti psichiatrici.
Successivamente, l’eliminazione dei disabili, a partire dai bambini che perirono in un numero tra 5.000 e 10.000, precedette e integrò, quella che vedremo oltre dei disabili adulti.
Secondo la ricostruzione degli storici, i medici tedeschi avevano aderito più di altre categorie al nazismo, con un 45% di iscritti rispetto, ad esempio, a dati tra il 20 e il 25% di avvocati, insegnanti e musicisti, e al 9% della popolazione complessiva; il 7% dei medici tedeschi , poi, aderì alle SS.
Questa era la situazione quando nell’ottobre 1939 Hitler emanò un “provvedimento del Fuhrer”, e quindi non un vero e proprio provvedimento legislativo ma una sorta di richiesta privata e riservata, successivamente retrodatata al 1 settembre 1939 per farla coincidere con l’inizio della guerra, il piano Aktion T4. Affidata principalmente a medici, portò allo sterminio di oltre 70.000 pazienti, meticolosamente registrati nome per nome.
Il programma – che aveva sede al n. 4 della Tiergartenstrasse  (T4) – prevedeva una prima fase volta a selezionare i pazienti sulla base di quattro criteri: soffrire di una malattia mentale, selezionata sulla base di una lunga casistica, ed essere incapaci di lavorare; essere ricoverato da almeno cinque anni; avere avuto precedenti comportamenti criminali; essere cittadini tedeschi o di razza tedesca o correlata. Le schede, un volta compilate, spesso in modo assai sommario, dalle diverse istituzioni pubbliche e private che ospitavano pazienti psichiatrici, venivano inviate alla cancelleria di Hitler che provvedeva a girarle per l’esame a tre esperti scelti da una lista di quarantadue – ne facevano parte, tra gli altri, docenti universitari come Werner Heyde (1902-1964), professore a Wurzburg e consulente psichiatra della Gestapo; Carl Schneider (1891-1946), professore ad Heidelberg (da non confondere con il più noto Kurt, che invece al nazismo si oppose); Berthold Kuhn, professore a Jena – che, senza una visita diretta, assegnavano alla scheda un segno più di colore rosso per i candidati alla soppressione, o un segno meno di colore blu per gli altri.
I tre responsabili del programma, tra i quali Heyde  e Schneider, prendevano la decisione finale; un ruolo decisivo svolsero anche Maximinian  de Crinis (1889-1945), che occupò la cattedra di Berlino dopo la destituzione di Karl Bonhoeffer (1868-1948), il decano della psichiatria tedesca precedente all’avvento del nazismo caduto in disgrazia per le sue posizioni contrarie al regime (il figlio e il genero furono coinvolti in una congiura contro Hitler), e Imfried Eberl (1910-1948).
In una ricerca condotta sull’ospedale psichiatrico di Uchtspringe, il fattore protettivo più importante per non essere selezionati è parsa la capacità lavorativa (mentre pare che altrove molti psichiatri, pensando che l’inchiesta avesse la finalità di arruolare i ricoverati validi per il fronte, cercarono di nasconderne le abilità, per proteggerli); i fattori di rischio maggiori sono risultati il grado di insubordinazione e soprattutto l’appartenenza alla razza ebraica.   

Qualche tempo dopo la decisione della commissione, una fila di autobus rossi – poi dipinti di grigio  nel tentativo di occultarli meglio – raggiungeva l’ospedale esaminato e trasportava i pazienti destinati all’eutanasia a uno dei sei centri di sterminio, predisposti per sopprimerli in gruppo con monossido di carbonio (si trattò della prima sperimentazione delle camere a gas).
A partire dall’estate del 1940 fu introdotto il passaggio per destinazioni intermedie, a scopo di occultamento di quella che rimaneva comunque una disposizione segreta e contrastante con la legislazione formale ancora vigente. Uno specifico ufficio, si occupava poi di stilare una falsa certificazione di morte da recapitare, con le condoglianza dell’istituto, alle vittime.
Nelle aree inizialmente coinvolte, Baden-Wurttemberg e Baviera, i pazienti soppressi arrivarono al 50%. Il 24 agosto 1941 Hitler fermò l’operazione, perché era ormai troppo risaputa e cominciava a destare scandalo. Ma l’ufficio centrale continuò a promuovere e supportare gli istituti intenzionati a portarla comunque avanti. La tecnologia sperimentata delle camere a gas e dei forni crematori trovarono più ampia applicazione nei campi di concentramento, e i centri di eliminazione di Bernburg e Hartheim furono riutilizzati in seguito per l’eliminazione di internati dei campi di concentramento malati o comunque inabili al lavoro. 
Originariamente pensato per la Germania, con l’inizio della guerra il programma Aktion T4 fu certamente esteso alla porzione austriaca della Stiria, dove nel solo ospedale psichiatrico di Graz fece 1.177 vittime. E anche alla sua porzione slovena dove, a Novo Celje, a partire dalla primavera del 1941 si ebbero almeno 567 vittime.
Anche in Polonia l’invasione nazista fu immediatamente accompagnata dall’assunzione del controllo delle istituzioni psichiatriche e dall’avvio del programma di eutanasia; già il 22 settembre 1939, cioè prima dell’emanazione dell’ordine Aktion T4, circa 2.000 internati dell’ospedale psichiatrico di Kocborow, presso Danzica, erano stati fucilati. Per l’indisponibilità di centri di sterminio nelle vicinanza, l’uccisione dei pazienti avveniva in molti casi nei boschi, tramite fucilazione e seppellimento in fosse comuni, in altri in camere a gas improvvisate su camion o tramite iniezioni letali o malnutrizione. Era segnata la sorte degli internati ebrei, due volte condannati allo sterminio, che furono uccisi negli istituti dove si trovavano o concentrati in un primo tempo nell’ospedalere psichiatrico ebraico di Zofiòvka, vicino a Varsavia, dove poco prima dell’assalto dei tedeschi il direttore Stefan Miller (1903-1942) ne informò i pazienti liberandoli, e si tolse la vita insieme alla moglie, Irena Themerson, psichiatra anch’essa. Analoga sorte per altri tre psichiatri dell’istituto e molti pazienti; altri morirono nel campo di sterminio di Treblinka.
La tragedia dei pazienti polacchi fu accompagnata da quella dei loro psichiatri. 
Si ha notizia di operazioni legate al programma Aktion T4 anche nella Repubblica ceca, mentre dopo la conclusione del programma, durante l’invasione, nell’Unione Sovietica e nelle Repubbliche baltiche migliaia di internati in ospedale psichiatrico furono uccisi con gli esplosivi, la fucilazione, ma soprattutto con camere a gas montate su camion.
Quanto al territorio tedesco, al termine del programma Aktion T4 corrispose il ripiegamento da parte del regime verso un piano di sterminio ancora più segreto e diffuso, che coinvolde direttamente come eseccutori materiali psichiatri e infermieri, le cui vittime sono stimate in oltre 270.000. Era basato su malnutrizione sistematica, sperimentazioni selvagge o somministrazione di farmaci letali, pratiche che in qualche caso proseguirono per qualche tempo anche oltre l’occupazione del territorio tedesco da parte alleata.
Emblematica, nell’ospedale di Kaufbeuren, fu la vicenda del quattordicenne Ernst Lossa, collocato con due sorelle in un collegio dopo che la madre era morta e il padre, un commerciante ambulante zingaro di etnia Yeniche, era stato internato in campo di concentramento perché la vita nomade della sua tradizione famigliare non era tollerata. A seguito di una serie di atti di indisciplina e furti nella scuola, Ernst ricevette a dieci anni la diagnosi di “psicopatico impulsivo bonario” ineducabile, e a dodici anni fu internato nel reparto pediatrico dell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren. Sempre irrequieto, forse anche perché aveva intuito le pratiche di sterminio che venivano attuate nell’ospedale, a quattordici anni veniva trasferito nella succursale di Irsee, e lì veniva assassinato mediante somministrazione di un’iniezione letale. Nonostante il fatto che questo e altri fatti analoghi fossero stati chiariti nell’immediato dopoguerra, il medico e l’infermiera responsabili di quell’atto furono condannati a pene irrisorie. La vicenda di Ernst Lossa insieme ad altre ricostruite nello stesso ospedale psichiatrico, anche grazie alla ricerca condotta da Michael von Cranach, è divenuta emblematica dello sterminio dei malati di mente da parte del nazismo e ad essa sono oggi ispirati, tra l’altro, il libro di Robert Domes Nebbia ad agosto. La storia della vita di Ernst Lossa  del 2008, e l’omonimo film del regista Kai Wessel.
Ma perché era stato, per il regime, necessario interrompere il programma Aktion T4?
I malati di mente internati nei manicomi non erano tutti persone socialmente isolate. In molti casi erano genitori, fratelli, figli, amici di qualcuno che era abituato a fare loro visita, che dopo il trasferimento ne chiedevano con insistenza le ragioni, si lamentavano di non poterli più incontrare e si interessavano al loro destino. Le notizie della frequenza con la quale stavano scomparendo, tutti con simili modalità, si erano diffuse e avevano cominciato a destare sospetti. La gente intorno ai sei centri di eliminazione cominciò a rendersi conto di strani fumi che certi giorni uscivano dal camino, e di strani odori che di lì si diffondevano. E cominciarono così a insorgere, anche nel cuore della Germania, voci coraggiose in dissenso, tanto nella psichiatria che nella società civile. Sarebbe bello, in questo scritto, poter ricordare anche quelle, che scrissero pagine tra le più belle, io credo, della storia della psichiatria, accanto a questa che è la peggiore.
E un giorno, forse, spero di farlo su questa rubrica; ma oggi è il giorno della memoria, e mi pare più giusto dedicare tutta la memoria a loro, le vittime.
Lasciare che siano loro, per un giorno nell’anno, a echeggiare dentro di noi.
La Società scientifica degli psichiatri tedeschi ha impiegato tempo a riconoscere le responsabilità di alcuni dei suoi dirigenti nello sterminio, e così dopo la guerra essi poterono imporre l’oblio e mantenere a lungo onori e potere. È riuscita a prendere coscienza delle proprie responsabilità solo recentemente, recependo l’incessante sforzo di memoria e denuncia di rari storici e psichiatri per lungo tempo inascoltati come Klaus Dörner, Alice Ricciardi von Platen, Henry Friedlander o Michael Von Cranach, e ha realizzato la mostra fotografica Schedati perseguitati sterminati che, tradotta in italiano in collaborazione con la SIP, è stata inaugurata nella primavera 2018 a Roma (vai al link), ed è stata replicata a Torino, Bolzano, Cagliari, Milano, Udine (vai al link).
Oggi vogliamo evocare questa pagina colpevole della nostra disciplina, per fare sì che tutte queste persone, che avrebbero avuto diritto a cura e hanno ricevuto morte, ciascuna delle cui storie evoca  sgomento, tristezza e rabbia infinite, siano almeno a posteriori onorate nel ricordo.
E la diffusione della conoscenza delle loro vicende possa contribuire a far sì che non si ripetano.
 
 
 
 
Questo brano è liberamente tratto dal secondo capitolo del volume: Paolo F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza, Verona, Ombre corte, 2008, al quale rimando per i riferimenti bibliografici. 
 
Nell’immagine, la stele che ricorda lo sterminio degli internati dell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren.
 
Nelle altre immagini: Ernst Lossa 
Aktion T4: in autobus verso la morte
 
Nel video: La storia di Ernst Lossa narrata dall’attore Marco Paolini nello spettacolo: Ausmerzen.

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