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«L’AGONIA DELLA PSICHIATRIA» e il «RITORNO A BASAGLIA». Note su un saggio di Eugenio Borgna a 44 anni dalla Legge 180

21 Mag 22

A cura di Paolo F. Peloso

 
Titolo: L’agonia della psichiatria
Autore: Eugenio Borgna
Edizioni: Feltrinelli
Pagine:127
Costo: 16 euro
 

Era il giorno del 44.o anniversario della promulgazione della Legge 180 – 13 maggio – quando ho iniziato a scrivere questo brano. Mi aveva colpito il titolo dell’ultimo saggio di Eugenio Borgna – un autore che considero un punto di riferimento fondamentale e del quale ci siamo ripetutamente occupati su questa rubrica per gli scritti più recenti: L’ascolto gentile (vai al link), La  nostalgia ferita (vai al link), Il fiume della vita (vai al link), Le passioni fragili (vai al link). L’agonia della psichiatria è un titolo che non lascia spazio ai dubbi sull’entità della preoccupazione che Borgna nutre per la psichiatria che stiamo praticando.
Ma quali ragioni hanno portato un autore che conosciamo per essere tanto garbato e misurato a lanciare con questo nuovo saggio un simile allarme? A manifestare tanta preoccupazione?
Il mio interesse per il volume è cresciuto quando la lettura mi ha rivelato fin dalle prime pagine che la strada indicata da Borgna per uscire da una situazione che lo preoccupa tanto da definirla “agonia” era la stessa alla quale mi riferivo anch’io nel saggio del quale stavo correggendo le bozze: un Ritorno a Basaglia?. Uscito in questi giorni, è stato al centro degli ultimi tre articoli di questa rubrica  L’ultima notte da file word (vai al link), Franco Basaglia e Giorgio Maria Ferlini (vai al link), La presentazione in anteprima a Genova (vai al link).
Cominciamo dal primo punto dunque. Perché Borgna, che ha lavorato per tanti anni nella psichiatria italiana dal piccolo ospedale psichiatrico femminile di Novara – al quale la direzione di Giovanni Enrico Morselli prima e poi la sua sembrano aver risparmiato gran parte degli aspetti di deumanizzazione che hanno preso piede in tanti altri ospedali psichiatrici italiani – al SPDC dell’Ospedale maggiore di Novara ed è tra gli autori italiani di psichiatria uno dei più prolifici e anche dei più interessanti, arriva a parlare di agonia?
Nel volume, Borgna lo spiega a partire da quella che identifica come la prima metamorfosi nella psichiatria del Novecento – le metamorfosi non sono così frequenti nella psichiatria come talora si può pensare – l’incrocio  cioè con la fenomenologia che ha posto le premesse conoscitive perché il modo di fare psichiatria potesse cambiare: «il mettere fra parentesi ogni apparente certezza diagnostica, l’importanza della introspezione e della immedesimazione nella conoscenza delle esperienze vissute e degli stati d'animo delle persone malate, o non malate, il valore delle relazioni umane fra chi cura e chi è curato, il rispetto della dignità della sofferenza, e della sofferenza psichica in particolare».
Tale metamorfosi, tuttavia, non aveva riguardato in un primo tempo in Italia che una sparuta minoranza di psichiatri e non aveva concretamente inciso sulla realtà dei manicomi, che è proseguita uguale finché non si è provato concretamente e coerentemente a trasformare il corpo teorico della fenomenologia nel grimaldello che fosse in grado di investire la realtà del manicomio e scardinarla dall’interno. La Legge 180 nasce dunque, nelle parole di Borgna, da un cambiamento di paradigma che «si è accompagnato alla rinascita delle emozioni nella conoscenza e nella cura della sofferenza psichica, non più considerata come qualcosa da analizzare con la freddezza di un chirurgo, che taglia e ricompone un organo malato, ma come una ferita viva da arginare: immedesimandoci nella vita interiore di chi sta male».



A quel punto, una psichiatria nel manicomio non era più possibile e l’alternativa si poneva in modo radicale: o a sopravvivere doveva essere il manicomio, con i meccanismi di serialità e di oggettivazione che imponeva, o a sopravvivere doveva essere la psichiatria andando incontro a una seconda e più generale metamorfosi, con il disfarsi del manicomio.
Alla vittoria della seconda ipotesi sulla prima aveva contribuito allora l’attenzione dell’opinione pubblica e della classe politica, in un momento nel quale, scrive ancora Borgna, di psichiatria «si discuteva solo negli anni, nei brevi anni, che hanno visto nascere e concludersi la rivoluzione teorica e pratica, ideale ed etica, di Franco Basaglia». Anni, dei quali auspica che una nuova generazione di psichiatre e psichiatri recuperi «i vertiginosi orizzonti tematici».
I segni che lo portano a pensare che quella spinta, allora tanto potente da aver chiuso i manicomi e aperto alla speranza di una diversa psichiatria, oggi sia venuta meno e attraversi un’agonia, stanno – scrive oltre – in una psichiatria incapace dello slancio e la passione «della speranza, l’intelligenza del cuore e l’attenzione, l’immedesimazione negli stati d’animo dei pazienti, e l’ascolto delle loro parole, incrinate da un dolore talora infinito».
E stanno anche nel fatto che: «ci sono servizi ospedalieri di psichiatria nei quali le porte sono chiuse, le finestre hanno le grate, e nei  quali la dilagante somministrazione farmacologica non si accompagna a contesti relazionali, e ci sono servizi ospedalieri di psichiatria nei quali le contenzioni continuano a essere realizzate, anche per giorni interi, nella indifferenza, o almeno nella rassegnazione, di medici e infermieri».       
Nel disinteresse dell’opinione pubblica e nella disattenzione di quella politica, appunto, che ha «accompagnato il lavoro di Basaglia, condividendone le radicali fondazioni etiche».
«Non posso non pensare di aver avuto coraggio» – scrive dunque Borgna a proposito di questo libro generoso e appassionato – «in un tempo che ritorna a essere quello di una psichiatria arida e positivistica, nello scrivere un libro poliedrico, come questo, che vorrebbe avvicinarsi all’interiorità delle anime perdute nel dolore e nella follia».
Al centro di quella nuova psichiatria, alla quale la fenomenologia dava nuova linfa e la Legge 180 ha dischiuso allora le porte, stavano per Borgna  le emozioni, che si fanno timide, talora «eteree e friabili», le parole e i silenzi, il tono della voce che riflette i sentimenti del cuore, gli sguardi che ci si scambiano. Stanno la tenerezza, la tristezza, le paure che possono sconfinare nell’ansia e raggiungere l’angoscia.
Un’angoscia che – i tanti anni trascorsa insieme a chi soffre hanno insegnato a Borgna – può essere quella che si prova attraversando “il roveto ardente” dell’esperienza psicotica; e allora scrive nel commentare l’evoluzione di un caso: «Una delle esperienze più dotate di senso in psichiatria è quella di seguire con il cuore in gola l’evoluzione di una sofferenza psichica, come questa, che lentamente migliora, scandita dalla presenza di barlumi di un sorriso, che a mano a mano trasfigura i lineamenti di un volto, cancellandone quelli dell’angoscia che lo oscuravano».
Lo sguardo preoccupato di Borgna sulla psichiatria si spinge fino all’attualità, e oltre. Sono quindi importanti le pagine che dedica alla pandemia, al sentimento di fragilità che dal suo inizio tutti ci pervade, la solitudine – nei suoi diversi aspetti – imposta soprattutto nel primo periodo dalle quarantene, il confronto con la morte di giovani e anziani e lo sforzo di riscoprire anche in questa fase così difficile della nostra vita, dalla quale non mi pare che peraltro si intraveda ancora l’uscita, la speranza.
Ed è appunto questa emozione, la speranza, a spingere Borgna a scrivere nei “giorni brucianti della pandemia”: «un libro che abbia come suo ultimo orizzonte di senso la salvaguardia dell’umano, che è in noi e nella follia».
E a fargli cogliere anche a questo riguardo, una volta di più, come «il tempo della pandemia ha dimostrato come il modello di cura derivato dalla riforma del 1978 abbia evitato le conseguenze che la psichiatria manicomiale, con le migliaia di malati degenti gli uni accanto agli altri, avrebbe avuto».
A chi è appassionato di storia della psichiatria degli ultimi due secoli queste parole di Borgna non possono non fare venire in mente le stragi alle quali andavano incontro i manicomi e gli ospedali ogni volta che l’odore mefitico del colera ne violava il portone d’ingresso. E, certo, non possiamo dimenticare che anche la psichiatria e le sue strutture residenziali non sono andate del tutto esenti dal pagare un tributo alla pandemia; ma niente comunque di paragonabile, Borgna ha ragione, a ciò che avrebbe potuto accadere se il virus fosse entrato nei cameroni dei tranquilli di un manicomio, con il loro centinaio di letti allineati testa a testa in serie, a poca distanza l’uno dall’altro.
Dicevamo dell’aver lavorato i primi anni Borgna in un ospedale psichiatrico femminile, e anche in questo volume non manca  una parte dedicata all’influenza del genere sulle modalità di manifestarsi della follia (e forse anche qui sta una delle ragioni per le quali l’ambiente del piccolo ospedale psichiatrico di Novara ha potuto mantenersi diverso da tanti altri). Così, arriva a parlare – ed è un tema che sarebbe interessante fare oggetto di dibattito – di una follia femminile e di una follia maschile come fenomeni in qualche misura differenti. O a cercare l’influenza del genere sui comportamenti suicidari; o sulla diversa vocazione di uomini e donne alla cura.
«Non c’è cura in psichiatria che non si nutra di umana gentilezza e di accoglienza delle anime ferite»; e poi ancora «curare in psichiatria è un’avventura complessa, nella quale intervengono conoscenze teoriche e stati d’animo, emozioni e sensibilità, introspezione e immedesimazione». «Mantenere viva in noi la fiammella dell’accoglienza e della tenerezza»: sono solo tre delle scintille che scaturiscono nel finale frammentario di questo libro dedicato a un’agonia della psichiatria nella quale Borgna non sembra rassegnarsi a cogliere solo un’agonia, ma sembra volere a tutti i costi provare a illuminare di timida luce la ricerca di quello cui si riferisce, con le parole di Emily Dickinson, come al  «piccolo ruscello della vita», che anche nelle acque limacciose e asfittiche di questa agonia avverte scorrere.
E proprio nell’avere scelto di fare della «ricerca» l’ultima parola di questo libro che ha per oggetto l’agonia della psichiatria ma non cessa mai di offrirci frammenti luminosi che ci guidino fuori di essa, colgo l’ennesimo elemento di consonanza, vorrei permettermi di dire, con quel «Ritorno a Basaglia?» al quale stavo lavorando mentre Borgna scriveva queste bellissime parole. Il quale inizia e termina con l’invito di Basaglia a metterci – anche oltre il tempo di questa nuova agonia della psichiatria e dell’agonia del mondo nella pandemia – alla ricerca di quella psichiatria perduta che, mi pare, è proprio quella stessa i cui timidi segni Borgna si sforza di far balenare anche nelle pagine di questo libro.  

Nel video allegato il mio dialogo del 19 maggio 2022 con Chiara Bombardieri e Gaddomaria Grassi sul canale youtube della Biblioteca scientifica Carlo Livi di Reggio Emilia intorno al volume "Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno"  (ERGA, 2022).

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2 Commenti

  1. luigi.benevelli@libero.it

    Luigi Benevelli, recensione
    Luigi Benevelli, recensione del libro di Paolo Francesco Peloso, Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno, Erga edizioni, Genova, 2022.

    Nel suo recentissimo Ritorno a Basaglia?La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno, Paolo Peloso in modo intenso, appassionato, ricostruisce e ripercorre una stagione di motivazioni, culture, ispirazioni, politiche, gesti, esperienze e scelte di vita, ricerche, studi, cambiamenti radicali non solo nei modi e nelle finalità del lavorare nell’assistenza psichiatrica ma anche, partendo dalla stessa, la spinta a provare a cambiare le relazioni fra le persone, tutte, una per una, in direzione della pienezza dei diritti di cittadinanza di ciascuna.
    Paolo continua a incalzare, interrogare, citare, mettere a confronto i testimoni protagonisti in particolare delle esperienze di Gorizia, Parma, Trieste, Genova, esperienze pilota che si condussero in Italia nella seconda metà del XX° secolo e portarono a definire, dopo la chiusura dei manicomi, gli assetti di un possibile lavoro per la salute mentale. Molte di tali esperienze diffuse sul territorio nazionale comportarono spesso vere e proprie scelte di vita, grandi quantità di tempo, intelligenza, passione per alimentare e accompagnare una rivoluzione nelle pratiche professionali, insieme alla continua riflessione/verifica di quanto si stava producendo: parlo non solo di forti “vocazioni”, ma anche di disponibilità al sacrificio e ad una disciplina individuale e di gruppo quasi monastica. Tutto questo è rappresentato benissimo, con grande eloquenza ed efficacia da Paolo.
    Ma se “la rivoluzione che ha chiuso i manicomi” ha avuto successo è perché, a partire proprio da Franco Basaglia, non ha mai snobbato né la politica né gli psichiatri italiani e la loro organizzazione scientifica, la Società Italiana di Psichiatria (SIP): anzi, ha perseguito una continua, serrata interlocuzione con Parlamento, partiti politici, sindacati, amministrazioni locali, associazioni professionali, mass media .Questo impegno ha consentito il primo grandissimo successo storico dell’uscita dell’assistenza psichiatrica pubblica dalla separatezza gestionale rispetto al resto della Sanità (i manicomi erano affidati alle Province) e della sua piena integrazione nel Servizio sanitario nazionale (Ssn), dentro la più larga mobilitazione per un diritto alla salute che comprendeva anche quella mentale. Fu questa scelta strategica a portare al recepimento della legge 180 nel maggio 1978 nella legge 833 istitutiva nel dicembre dello stesso anno. Nel Ssn continuano a stare insieme oggi, non sempre purtroppo sentendosi come a casa propria, psichiatri, psicologi, infermieri professionali, assistenti sociali, educatori professionali, volontari, associazioni di famiglie e utenti. Quanto alle relazioni con la SIP, in particolare quelle con Balestrieri, Carlo Lorenzo Cazzullo, Franco Rinaldi, Franco Basaglia le perseguì per diffondere il più possibile la sperimentazione e la messa a punto, sul campo, dei modi più efficaci di fare salute mentale città per città, villaggio per villaggio, e senza rinunciare alla radicalità del progetto. Aggiungo che senza il lavoro dell’AMOPI, l’associazione dei medici che lavoravano in manicomio, senza la legge stralcio 431 del 1968 che introdusse il ricovero volontario e restituì i diritti civili a migliaia di persone internate, senza la correlata diffusione delle pratiche antimanicomiali e la serrata interlocuzione con critici e oppositori, la legge di riforma non sarebbe arrivata in Parlamento e Bruno Orsini non avrebbe mai potuto esserne il relatore.
    Il titolo Ritorno a Basaglia? si chiude con un punto di domanda, interrogandoci sui problemi che si incontrano, oggi, nel lavoro per dare attuazione alla “deistituzionalizzazione nella psichiatria”. A mio avviso, i blocchi, gli ostacoli vanno fatti risalire, per gran parte, sia alle indubbie difficoltà del progetto, sia al successo di alcune operazioni “strutturali” di contro-riforma e di re-istituzionalizzazione che hanno de-potenziato, deviato, svigorito l’impianto della 180 e della 833. Al riguardo, esplicito le seguenti considerazioni:
    – La legge ebbe buona diffusa sperimentazione nella varietà delle realtà provinciali di cui è fatta l’Italia, ma non nelle grandi città. Basaglia, Pirella, Slavich ne erano consapevoli e per questo scelsero di misurarsi con la dimensione e la complessità dei problemi e dei poteri politici, accademici, professionali nelle grandi città a Roma, Torino, Genova, mentre Sergio Piro rimase nella sua Napoli. Fece eccezione Giovanni Jervis. L’esperienza di Basaglia a Roma fu durissima .
    – Aspro terreno di confronto fu quello della formazione, di cosa bisognava insegnare, imparare, leggere, sapere per lavorare con efficacia nei Dsm per i nuovi obiettivi, fino al come bisognava essere e diventare come persone per poter essere efficaci nel lavoro di cura. Di qui l’esplosione dell’offerta di formazione da parte di innumerevoli scuole di psicoterapia e psicoanalisi- cito per tutti Pier Francesco Galli e la Scuola di via Ariosto a Milano; il lavoro di Tullio Seppilli antropologo a Perugia; il lavoro di documentazione e ricerca intorno al progetto “Prevenzione malattie mentali” guidato da Raffaello Misiti e Cristiano Castelfranchi presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Il cambio radicale delle modalità e delle finalità del lavoro che da assistenza psichiatrica diventava “salute mentale” richiedeva la rivisitazione e la ridefinizione dei saperi da trasmettere non solo ai medici psichiatri, ma anche a psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, OTA, ASA. Per questo chi operava sul campo sentì l’urgenza di organizzare, cercare i nuovi apprendimenti spesso localmente presso i luoghi in cui si operava, o in centri quasi sempre fuori dai circuiti universitari. E qui l’esperienza di Trieste si costituì come luogo privilegiato di apprendimento “sul campo” di ciò che era indispensabile sapere per operare in servizi di salute mentale di comunità.
    – Per anni, quindi, i corsi di laurea di Psicologia e Medicina e le Scuole di specializzazione dell’Università italiana continuarono a rilasciare lauree e diplomi, di solito rimanendo ai margini di una enorme quantità di domande di aggiornamento e formazione permanente dentro i nuovi luoghi di lavoro, e le nuove istituzioni della riforma sanitaria e psichiatrica, Questo fino a che l’Università si riprese la titolarità esclusiva della formazione dei professionisti con il DPR 10 marzo 1982, n. 162 Riordinamento delle Scuole dirette a fini speciali e dei corsi di perfezionamento, con la legge 19 novembre 1990, n. 41 Riforma degli ordinamenti didattici universitari, la legge 15 marzo 1997, n. 12 Ordinamento degli studi dei corsi universitari- artt. da 95 a118: per dire che il movimento che accompagnò la chiusura dei manicomi e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale avendo come maestri persone come Basaglia, Maccacaro, Giovanni Berlinguer non riuscì a conquistare le Università, che anzi acquisirono il monopolio della formazione anche di infermieri professionali, assistenti sociali, educatori. Fra i registi più determinati di questa operazione va citato il prof. Adriano Bompiani (1923-2013), senatore della Repubblica dal 1976 al 1992. – Gli psichiatri accademici, che avevano conquistato la separazione delle proprie Scuole di specializzazione da quelle di Clinica delle malattie nervose e mentali, continuarono (e continuano) in grandissima parte ad ispirarsi esclusivamente all’approccio clinico alla malattia mentale e pretesero per sé posti letto per la formazione, separati da quelli dell’assistenza psichiatrica riformata. Fra le eccezioni ricordo Dario De Martis a Pavia e Michele Tansella a Verona. Gli ambienti psichiatrici universitari, in particolare quello della Clinica di Pisa, continuarono ad alimentare una campagna pressante contro il movimento riformatore accusato di essere ideologico, non-scientifico, velleitario, arrivando ad ispirare orientamenti politici in partiti di governo, in specie il PSI e il PLI. Le Università, insieme all’esclusiva della formazione, ottennero l’adozione del “numero chiuso” nei corsi, una scelta giusta in funzione dell’ottimizzazione della didattica, ma disattenta alle esigenze di quadri del Ssn, come oggi stiamo drammaticamente verificando. Al riguardo la responsabilità dell’attuale disastro è attribuibile al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni che da molti anni hanno abbandonato il metodo della programmazione che comporta la conoscenza delle esigenze dei servizi, il provvedere per tempo al farvi fronte mettendo a disposizione le risorse necessarie. Ma certamente l’Università non si è proprio curata del problema.
    – Altro intervento strutturale nel “cuore” del Servizio sanitario nazionale fu la decisione politica di estromettere i Comuni dal governo del Ssn per affidarlo alle Regioni. Tale scelta è risultata particolarmente infausta per il lavoro dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm) – ma non solo, come sappiamo- che ha al centro le persone con le loro relazioni sociali ed affettive nella dimensione locale, con la stretta integrazione fra sociale e sanitario, ossia gli ambiti comunali nei quali l’autorità di riferimento è il Sindaco. Così i Sindaci hanno cessato di contare nella gestione del Servizio sanitario che si svolge nel territorio da loro amministrato (a parte la firma per il t.s.o. in quanto massima autorità sanitaria locale), e le scelte di governo del Ssn sono state appaltate ad Aziende sanitarie di dimensioni sempre più grandi che hanno favorito e sostenuto nella maggior parte dei casi la sanità ospedaliera a danno del lavoro per la salute nei territori e nelle comunità locali: come la pandemia da Covid e la sua gestione hanno drammaticamente disvelato impoverendo e ostacolando lo svolgersi delle relazioni interumane così vitali per la salute mentale. Per questo, credo, c’è grande urgenza di una iniziativa legislativa per restituire il governo del Servizio sanitario nazionale ai Comuni, anche sotto forma di Aziende di servizi comunali, combattendo le ipotesi del “regionalismo differenziato”.

    Concludo la risposta all’interrogativo Ritorno a Basaglia? per sottolineare che il Servizio sanitario nazionale (ossia le Regioni) è diventato il titolare del lavoro per la salute nelle carceri , ad oggi certamente il luogo di maggiore sofferenza, anche mentale, e di massima miseria di risorse.
    Osservo che il carcere, in particolare, ma anche le comunità locali, hanno da tempo in comune il compito di gestire la sofferenza mentale delle persone immigrate e migranti, che non si riconoscono nelle declinazioni “scientifiche” “atlantiche” “bianche” delle idee e dei trattamenti intorno alla salute e alla malattia: una sfida grande alle culture che hanno alimentato il movimento antiistituzionale psichiatrico italiano e innervato la riforma. Per queste ragioni ritengo sia ora che si proceda ad integrare i paradigmi bio-psico-sociali di riferimento per il lavoro nei Dsm con quelli dell’antropologia medica e culturale.
    La rivisitazione/revisione del Servizio sanitario nazionale nelle direzioni indicate consentirebbe, è mia opinione, di procedere ad una co-costruzione dei servizi a partire da chi li vive in modo diretto: la comunità di operatori, la comunità territoriale, gli utenti e le loro relazioni famigliari, affettive e sociali; a ripensare e rifondare i servizi su base antropologica, ri-pensando a luoghi della cura in cui diffondere i sintomi della salute, al di là dell’aggiustare i sintomi della malattia: il tutto in una continua ricombinazione tra ciò che è locale e ciò che è globale. I luoghi e le comunità territoriali che curano e i percorsi terapeutici (fisico, psichico, spirituale che sia) sensibile ai diversi valori e significati culturali di “persona malata” spingono ad allargare la riflessione anche intorno al ruolo delle comunità religiose degli immigrati e dei migranti nei processi di cura.

    Luigi Benevelli

    Mantova, 26 giugno 2022

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    • chiclana

      Carissimo Luigi, intanto
      Carissimo Luigi, intanto grazie per la segnalazione del volume, che spero possa essere uno stimolo alla discussione sui servizi di oggi e un contributo utile a far conoscere ai colleghi più giovani un’esperienza eccezionale per la loro formazione e una pratica dei servizi che sembra ogni anno sempre più distante da quella che oggi viene richiesta. Credo che sia stato molto utile da parte tua ripercorrere l’iter legislativo che ha fatto sì, passaggio dopo passaggio, che ai servizi venissero a mancare due delle risorse più vitali per loro: la formazione a partire dalle pratiche e la partecipazione di una realtà locale ce, per sentire il servizio come una cosa propria, non può che essere piccola e attiva. Un iter legislativo che, in questo ha senz’altro ragione, porta precise responsabilità ed è difficile non pensare che avesse anche un obiettivo: distruggere quella che era stata una grande utopia concreta di universalismo ed equità, volta a fare dell’assistenza sanitaria, e anche psichiatrica quindi, qualcosa cui ogni persona ha diritto. Basaglia sta senz’altro dentro questa storia, ed è stato anche molto di più. E’ possibile ritornare indietro, per l’assistenza sanitaria e per le politiche di salute mentale, a quell’impostazione e a quei valori e a partire da quel momento quando il mondo sembrava volersi mettere a girare dalla parte giusta, fare tesoro di quell’esperienza e continuare ad affrontare le vecchie sfide (che non sono mai venute meno) e quelle nuove (che ad esse si sono aggiunte)? Credo che dobbiamo pensare di sì!

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