Invece, è arrivato il Covid – 19 e lo ha reso ancora peggiore; su questo non c’è dubbio. Non che la solita merda non abbia smesso un attimo solo di scorrere, beninteso, sotto i ponti. Però al resto si è aggiunto questo problema con il quale anche noi – la parte ricca della parte ricca del mondo, quella che se fa una guerra la fa telecomandando un drone in casa degli altri – non potevamo proprio non fare i conti. Perché anche se, naturalmente, ha colpito più duro dove la vita era già più dura, il virus ha colpito in tutti i luoghi e gli strati sociali, è nell’aria e l’aria è ancora, almeno quella, bene (o male) comune. Non affronto qui il tema. È ancora troppo grande, incombente, minaccioso. Non mi sono sentito di farlo finché avesse costituito una minaccia; mi sembra ancora il momento del fare più che del pensare. Sono venuto meno a questa determinazione in occasione dell’invito al seminario “L’enigma del valore. N. 3. Dei corpi perduti e dei corpi ritrovati”, organizzato il 10 ottobre a Milano presso la Casa delle donne dall’associazione “Effimera. Critica e sovversioni del presente”. Perché quando ho accettto l’invito, nel corso dell’estate, era il momento in cui ci si illudeva che il peggio fosse alle spalle. La registrazione dell’intervento, comunque, è disponibile sul sito dell’associazione (segui il link).
La catastrofe che ci ha colpito quest’anno e lo ha reso diverso dai precedenti (e speriamo anche dal prossimo) – ha colpito tutto, non ha risparmiato i luoghi di cura e i nostri servizi, limitandone l’operatività e interferendo pesantemente con il lavoro di ogni giorno – è stata di dimensioni tali, e le considerazioni che si potrebbero fare sono tante, che non è possibile dirne in sintesi. Del resto, in molti lo hanno fatto meglio di come potrei io. Mi limito a rappresentarla attraverso le parole con le quali un giornalista, Gian Luca Rocco, ha ricordato la scomparsa del padre, psichiatra forense e psicoanalista genovese: «Oggi sono morte per Covid-19, 993 persone, mai così tante in un giorno. Gian Luigi Rocco era mio padre e, in modo poco originale, è stato uno di quei morti (…). Il 3 dicembre, cioè quell’oggi che ora volge al termine, è morto, da solo, in un reparto di terapia intensiva (…) dopo oltre due settimane di riabilitazione e altrettante di degenza (sempre da solo) sotto un caschetto cpap che faceva lo stesso rumore, quando cercavamo di parlare [al telefono] di un sottomarino russo atomico, con tanto di bip (…). Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa all’inferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi. L’impossibilità di vedere, salutare, abbracciare il proprio caro. L’attesa di una telefonata per sperare in qualche migliormento. Seppellito sapendolo in un sacco come un soldato in guerra». Mi pare che queste parole rendano meglio di tutto il ricordo di cosa è stato quest’anno, di ciò che sappiamo che è ancora per qualche centinaio di italiani, e qualche migliaio di uomini e donne nel mondo, ogni giorno; e può essere ancora per ciascuno di noi e delle persone più care.
Ricorrenze. Ci sono alcune ricorrenze che vorrei brevemente commentare. Il 18 febbraio sono stati 80 anni dalla nascita di Fabrizio De André; lo avevamo ricordato in occasione dei 20 anni dalla morte su questa rubrica attraverso i protagonisti delle sue canzoni (segui il link). Il 31 agosto sono stati 150 anni dalla nascita della psichiatra e pedagogista Maria Montessori; la ricordo con la citazione del bel libro, dal titolo significativo, che le hanno dedicato nel 2000 Valeria Paola Babini e Luisa Lama: Una “donna nuova”. Il femminismo scientifico di Maria Montessori (Franco Angeli). Il 23 ottobre è trascorso un secolo dalla nascita di Gianni Rodari; con le sue geniali filastrocche non ha mai cessato di alludere garbatamente alla speranza di un mondo più saggio, e migliore. Il 28 novembre sono trascorsi due secoli dalla nascita di Friedrich Engels; con Karl Marx, uno dei due padri dell’idea comunista moderna. Mi piace ricordarlo con uno straordinario scritto giovanile del 1845, Le condizioni della classe operaia in Inghilterra, col quale – ricorrendo principalmente a fonti mediche – il giovane industriale cotoniero illustrava con straordinaria umanità e sentimento della giustizia l’altro lato, quello nascosto, della rivoluzione industriale e dell’affermarsi del capitale: i corpi esposti all’incidente dall’intensificarsi dei ritmi del lavoro, le condizioni materiali e morali spaventose di vita imposte a uomini, donne, bambini spinti nelle periferie delle città e ridotti ad animali da lavoro fuori e dentro la fabbrica, schiacciati in case anguste e sovraffollate in quartieri dalle acque fetide e l’aria malsana in anni di, certo, vertiginoso – ma iniquo e spietato – progresso. Si vorrà dire che il volto del capitale è cambiato in questi due secoli? Non ne sono convinto. Perché rileggendo quel testo documentato e sensibile, mi pare che le condizioni del lavoro straniero nella parte ricca del mondo e soprattutto quelle del lavoro in generale nella parte povera non siano lontane da quelle pagine fatte di corpi stanchi a cui erano negati ambiente di riposo, tutela della salute e speranze di miglioramento. L’8 dicembre sono trascorsi 50 anni dalla fondazione, ad opera di don Andrea Gallo, della Comunità di San Benedetto al Porto; è giusto ricordare questo evento non solo per l’impegno della Comunità in favore dei tossicodipendenti e degli ultimi, ma anche per essere stata da sempre un generoso tentativo di rendere Genova una città un po' più buona e più giusta.
Il 15 agosto sono trascorsi quarant’anni dalla scomparsa di Jean Paul Sartre; impossibile ricostruirne qui la sua importanza per il pensiero contemporaneo, ma mi piace ricordare il suo rapporto fondamentale con due psichiatri ai quali credo che non dobbiamo mai cessare di guardare: Frantz Fanon e Franco Basaglia. Il 29 agosto poi sono stati quarant’anni dalla scomparsa dello stesso Franco Basaglia; avrei voluto ricordarlo quest’anno con la pubblicazione di un libro, al quale sto ancora lavorando, ma l’ho potuto fare solo anticipandone su questa rubrica la premessa (segui il link). Il 26 settembre sono trascorsi ottant’anni dal suicidio, mentre era in fuga dai nazisti che avevano occupato la Francia, di Walter Benjamin: le potenzalità delle sue sempre illuminanti intuizioni, credo, forse non saranno mai sufficientemente esplorate. Ed è di questi giorrni l’uscita in italiano del volume La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin di Michael Lòwy (ombre corte) nel quale è approfondito il rapporto tra messianismo ebraico e reinterpretazione originale del marxismo nel filosofo berlinese. Il titolo della raccolta, allude al ribaltamento del rapporto tra storia e rivoluzione rispetto a quello del marxismo classico, fino a fare della rivoluzione non il coronamento e l’accelerazione della storia dello sviluppo del capitale, ma all’opposto appunto il freno d’emergenza cui (forse) sarà possibile all’uomo ricorrere per impedire che il capitale finisca di trascinare, nella sua folle corsa, la storia alla catastrofe.
Ci hanno lasciato. Da quando guido una delle sei unità operative delle quali è composto il DSM genovese, abbiamo scelto con i colleghi di utilizzare i fondi previsti per la formazione per invitare esperti del fenomeno della follia e del lavoro dei servizi a contribuire al formarsi di una cultura comune del gruppo di lavoro. Due di costoro ci hanno lasciato quest’anno; sono state persone importanti nella mia formazione, e desidero dedicare loro un breve ricordo. Il 30 marzo ci ha lasciato Fausto Petrella. Era nato a Milano nel 1938, dopo la laurea in medicina intraprese parallelamente la specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali e la formazione analitica, due esperienze che ebbe il merito di sapere tenere strettamente integrate. All’inizio degli anni ’60 ebbe inizio la sua collaborazione con Dario De Martis (segui il link), che seguì a Cagliari e poi a Pavia, dove divenne nel 1980 professore ordinario di Psichiatria. Dal 1974 il gruppo pavese si è impegnato – unico gruppo universitario in Italia a fare questa esperienza – nello smantellamento dell’Ospedale Psichiatrico di Voghera e nella costruzione dei servizi nel territorio e nell’ospedale generale. I principi adottati erano quelli della psichiatria di settore e della psicoterapia istituzionale francesi. Raro caso di psicoanalista ugualmente a proprio agio con e senza divano, all’impegno di psichiatra dentro le nuove istituzioni ha fatto corrispondere quello nella Società Psicoanalitica Italiana, della quale è stato presidente dal 1997 al 2001. Aveva sviluppato negli anni idee molto chiare sulle quali – nonostante la squisita bonomia e l’atteggiamento sornione e divertito che indulgeva volentieri alla battuta di spirito – non era disposto a transigere. Che l'ospedale psichiatrico doveva essere chiuso, e occorre lavorare perché niente di simile ritorni. Che la psichiatria è un lavoro difficile, e non è possibile affrontarla con scarsità di risorse o pressapochismo: non è possibile affrontare in modo semplicistico questioni che per loro natura sono complesse. Che in sanità è l’apparato amministrativo che deve sentirsi al servizio dei tecnici, perché sono loro ad avere la responsabilità della qualità della cura, che è l’obiettivo dell’organizzazione. Che compito degli psichiatri è in primo luogo tutelare la dignità propria e del proprio lavoro, per tutelare quella del paziente; perciò hanno anche la responsabilità di non accettare di lavorare in modo che non consenta loro di essere all’altezza delle difficoltà, che non sono poche né piccole. E che devono essere affrontate dando vita a équipe colte e coese, al centro delle quali sta il bisogno della persona più che l’identità professionale; e a istituzioni capaci di lavorare insieme e sperimentare modelli organizzativi innovativi e originali per farlo. Che nei CSM e negli spazi ospedalieri i pazienti devono sentirsi accolti e qualsiasi ostacolo all’accoglienza rischia di elicitare più che di contenere l’aggressività. Nel 2010 riprendeva un’intervista rilasciata a me e Laura Pesce nel ’98, chiudendola con questa riflessione: «Mi preoccupa l’acquiescenza di molti operatori alla burocratizzazione e a richieste che spesso sono la caricatura di un’efficienza e anche di un’istanza di economicità, del resto spesso disattesa su altri fronti dalla pubblica amministrazione. Un grande lavoro innovativo e critico è richiesto da una psichiatria e da un’assistenza al livello della complessità del suo soggetto e che voglia sviluppare un’effettiva ricerca empirica, vale a dire basata su un’esperienza umana affettiva». Tra i libri – tutti colti e originali – dei quali è stato autore o curatore, ricordo: Sintomo psichiatrico e psicoanalisi. Per una epistemologia psichiatrica (con Dario De Martis, Lampugnani Nigri, 1972); Il Paese degli Specchi. Confronto con lungodegenti manicomiali (curato con Dario De Martis e Edgardo Caverzasi, Feltrinelli, 1980); La Mente come Teatro. Antropologia teatrale e psicoanalisi (Centro Scientifico Editore, 1985; riedito nel 2011 con sottotitolo: Psicoanalisi, Mito, Rappresentazione); Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione (curato con Dario De Martis e Paolo Ambrosi, Cortina, 1987); Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza (Cortina, 1993), che è la raccolta dei suoi saggi principali e costituisce una lettura colta e originale di aspetti in ombra del lavoro psichiatrico: amo immensamente questo testo e trovo che sia uno dei più bei libri di psichiatria pubblicati in Italia. Ricordo i capitoli dedicati a storia della psichiatria, psicopatologia, psicoanalisi, il mondo psicotico, l’acuzie, la cronicità, ai servizi, l’ospedale, il territorio, la casa, la psicoterapia, la riabilitazione, il sotterfugio…. Poi ancora Occasioni di dialogo. Quarant’anni di presentazioni, interviste e recensioni psicoanalitiche (Antigone, 2010), che è la raccolta dei suoi scritti minori ma non perciò privi d’interesse, tra i quali la nostra intervista; Sogno o son desto? Senso della realtà e vita onirica nella psicoanalisi odierna (Franco Angeli, 2011); e ultimo: L’ascolto e l’ostacolo. Musica, discorso, immaginazione nel lavoro psicoanalitico (Jaka Book, 2019). Aveva il gusto del ragionamento critico, del lavoro dell’intelligenza volto a scovare dietro le cose gli aspetti meno evidenti, meno scontati. Il gusto della costruzione insieme – in dialogo, in gruppo – del ragionamento, della comprensione; aveva una straordinaria capacità di pensare e aiutare a pensare, e a rileggere oggi i suoi scritti sembra di poter essere ancora come un po’ lì a ragionare con lui, mentre ci avvolgono l’aroma dell’inseparabile pipa o di un piatto di cucina genovese sapientemente preparato per lui, seduto a capotavola, dalla “Maura”.
Il 26 ottobre è mancato Mario Galzigna, già ricordato su questa rivista – della quale è stato co-fondatore – da Gerardo Favaretto (segui il link). Era nato nel 1944, era stato da giovane militante di Potere Operaio; poi docente di Storia della scienza ed epistemologia all’Università Ca’ Foscari e membro del comitato scientifico della Fondazione San Servolo a Venezia, animatore ultimamente della rubrica e del gruppo facebook L’ordine del discorso. Noi lo avevamo incontrato poco tempo dopo l’uscita, con la sua curatela, della seconda edizione della Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault (Rizzoli, 2011), presentata a Genova su invito della Scuola di specializzazione in psichiatria nell’aula di clinica neurologica dell’Università (vedi il video). Nel corso dell’incontro ci aveva introdotto con passione alla lettura di Foucault, ma anche Diderot, Artaud e ci parlava di studi che stava conducendo sulla cultura indigena brasiliana, e della sua esperienza di filosofo, storico ed epistemologo impegnato come supervisore in servizi psichiatrici. Frequentatore assiduo della tradizione filosofica, letteraria, storica e psichiatrica francese, ha diretto per Marsilio con Alessandro Fontana la collana Il corpo e l’anima, nella quale ha messo a disposizione del lettore italiano autori classici della psichiatria di ogni tempo da Galeno, a Cardano, a Jeanne des Anges, Burton, Ferrand, de Bienville, Bentham, Gall, Pinel, Esquirol, Georget, Borneville e Regnard, Sighele, tra altri. In quella collana ha pubblicato nel 1988 il suo testo più importante, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna; una copia anastatica è disponibile su questa rivista (segui il link). Traendo materiale ugualmente prezioso da scritti di medici e di folli, da Parigi e dai manicomi veneziani, Galzigna ci guidaa per un viaggio affascinante alla ricerca delle sorgenti della psichiatria, a inizio Ottocento. Tra gli altri testi dei quali è autore ricordiamo: L’archivio della follia (con Hrayr Terzian, Marsilio, 1980); La follia, la norma, l’archivio (Marsilio, 1985); Conoscenza e dominio (Bertani, 1985); La sfida dell’altro (Marsilio, 1999); Volti dell’identità (2001); Il mondo nella mente. Per un’epistemologia della cura (Marsilio, 2007), con prefazione proprio di Fausto Petrella; Storia di una passione. Diario poetico per la fine di un amore (Il poligrafo, 2011), con prefazione di Eugenio Borgna; Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo (Bollati Boringhieri, 2013); Conoscenza e dominio. Le scienze della vita tra filosofia e storia (Novalogos, 2013). Nel 2008 aveva curato per Feltrinelli il volume collettaneo Foucault oggi con testi tra gli altri di Berlincioni e Petrella, Bodei, Fontana, Rovatti. Curioso come sempre di esplorare, lungo la direttrice verticale della storia ma anche lungo quella orizziontale della geografia, le modalità di essere dell’uomo nella loro infinita varietà, l'anno scorrso mi aveva invitato a un incontro con Grégoire, quello che viene chiamato “il Basaglia africano”, che intendeva realizzare dalle sue parti, dopo aver letto in questa rubrica la sintesi di quello organizzato a Genova dalla comunità di Sant’Egidio (segui il link). Non sapevo che quell’iniziativa, che mi sembrava determinato a realizzare, sarebbe stata impedita dalla pandemia, né che non ci saremmo più sentiti.
Il 4 agosto ci ha lasciato Sergio Zavoli. Giornalista e uomo politico straordinario per umanità e rigore,era nato a Ravenna nel 1923. Lo ricordiamo in primo luogo senz’altro per lo straordinario documentario realizzato alla fine del ’68, I giardini di Abele (segui il link), perché si è trattato di un soccorso provvidenziale e un atto generoso di fiducia – perfetto tanto sotto il profilo artistico che del contenuto – realizzato e divulgato mentre, dopo l’uxoricidio Savarin, l’esperienza di Basaglia a Gorizia conosceva il momento più difficile. Ma l’interesse di Zavoli per la vicenda della chiusura del manicomio e l’esperienza basagliana non si è limitata a quel documento straordinario ed è proseguita negli anni; voglio ricordare l’intervista – recentemente ripresa da Venturini – che realizzò con Franca Ongaro nell’ambito del volume Il dolore inutile. La pena in più del malato (Garzanti, 2002), nel quale il giornalista ravennate affronta questioni spinose relative alla relazione di cura e al funzionamento dei sistemi sanitari a partire dalla sua visione profondamente radicata nella figura di Cristo e nell’amore per l’uomo, l’ultimo e il sofferente innanzitutto.
Infine, non hanno a che fare se non indirettamente con la psichiatria e la Legge 180 ma certamente con la lotta per costruire un’Italia e un mondo migliori, più umani e più giusti e perciò mi pare giusto ricordarle, tre straordinarie “ragazze del secolo scorso” che ci hanno lasciato quest’anno; mi riferisco a Rossana Rossanda, Carla Nespolo e Lidia Menapace. Ci mancheranno la loro intelligenza, la generosità, la passione e la determinazione nello scontro.
Seguirà la parte II: Ex libris, altre recensioni: vai al link
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