PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

SCRIVERE DI BASAGLIA A QUARANT’ANNI DALLA MORTE

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29 agosto, 2020 - 07:38
di Paolo F. Peloso

Quarant’anni fa, il 29 agosto 1980, moriva Franco Basaglia. In molti ne stanno parlando, e mi piacerebbe aggiungere un mio contributo. Mi era venuta la fantasia di cogliere quest’occasione per l’uscita di un libro che raccogliesse le cose che ho scritto e pensato intorno a lui, lavorando per quasi trent’anni in una psichiatria senza manicomio. Il testo del libro adesso è quasi pronto, ma manca sempre qualcosa. C’è anche un titolo che potrebbe essere “Ritorno a Basaglia?”, ma non mi è stato possibile arrivare puntuale all’appuntamento. Ne anticipo perciò oggi almeno, sulla rubrica, quella che in questo momento mi pare che potrebbe essere la premessa, sperando che ad essa possa seguire prima o poi il resto.


 
Franco Basaglia è morto quarant’anni fa, il 29 agosto 1980, a Venezia dove era nato l’11 marzo 1924. Aveva 56 anni, l’età che io ho adesso. Il 15 aprile dello stesso anno era morto Jean Paul Sartre, il filosofo che ebbe la maggiore influenza su di lui.
Allora io avevo 17 anni e ricordo che tenevo una fotografia di Basaglia sulla testiera del comodino, accanto a quella di Salvador Allende con la Moneda in fiamme, a quella classica del Che e a quella di Smith e Carlos che alzano i pugni guantati di nero alle Olimpiadi del 1968. Allora in molti accarezzavano ancora l’idea della rivoluzione, e io ero tra questi. Nel linguaggio di allora, mi pareva che il “politico” dovesse integrarsi col “sociale”, cioè con attività che andavano dalla raccolta di fondi per l’assistenza ai lebbrosi, all’impegno in quella agli anziani e ai disabili. In quel 1980 cominciavo a interessarmi a Marcuse, Freud, Dostoëvskij, ma non pensavo ancora di fare lo psichiatra; Basaglia era per me, come è ancora per molti, “quello della 180”, l’uomo che aveva “chiuso i manicomi” e che aveva “liberato i matti”.
Insomma, una specie di Che Guevara della psichiatria.




Vent’anni dopo lavoravo in un Centro di Salute Mentale a Genova e nell’ambito delle attività del Centro diurno collaboravo al periodico locale “Corriere di Sestri Ponente”. Nel giugno del 2000, avvicinandosi il ventennale della morte, ricordo che il direttore Paolo Arvati, illustre demografo e storico genovese, mi propose di scriverne e io intitolai l’articolo, che può essere considerato l’embrione dal quale si sviluppa oggi questo volume: Franco Basaglia: l’ottimismo della pratica[i].
Molte cose erano cambiate nei vent’anni trascorsi dalla sua morte nel mio rapporto con Basaglia e con la psichiatria. All’inizio del 1983 avevo conosciuto Antonio Slavich, avevo cominciato a frequentare l’ex ospedale psichiatrico di Quarto e letto L’istituzione negata. Allora erano passati solo cinque anni dalla Legge 180, tre dalla morte di Basaglia ma la realtà si era già trasformata con una rapidità straordinaria: qualcosa di enorme era appena accaduto, ma i racconti dei testimoni, dei quali ero ghiotto, sembravano già storia. Gli ospedali psichiatrici avevano iniziato il loro disfacimento che sarebbe stato lento, i servizi si erano organizzati e cominciavano a incontrare i problemi che negli ultimi scritti Basaglia colse in prospettiva tra rischi di dilatazione a dismisura del mandato, tendenza alla neoistituzionalizzazione e al formarsi di una nuova cronicità.



Dieci anni dopo l’ingresso a Quarto, nel 1993, mi ero specializzato in psichiatria e poi in criminologia clinica e intanto, dal 1991, lavoravo nei servizi: ero ormai uno psichiatra. Prima per sette anni a Savona, CSM e poi SPDC, poi dal 1998 a Genova con un ritorno per quattro mesi in ex ospedale psichiatrico, questa volta a Prato Zanino, dove ho partecipato alla chiusura; poi, di nuovo al territorio, zona Sestri ponente e Cornigliano. Frattanto era iniziato il mio coinvolgimento, prima a livello locale e poi nazionale, nella Società Italiana di Psichiatria. Nel passaggio da Savona a Genova ho effettuato il mio pellegrinaggio basagliano, con uno stage di un paio di settimane a Trieste e una visita a Gorizia.
A quel punto Basaglia non era più per me soltanto “quello della legge”; avevo letto la maggior parte dei suoi scritti e mi interessava soprattutto il tentativo che li attraversava di rispondere a una domanda, che dà il titolo al primo libro collettaneo del gruppo: Che cos’è la psichiatria?
Adesso sono trascorsi altri vent’anni, mi è capitato di rileggere spesso Basaglia, scriverne quando sapevo di farlo e scriverne anche quando mi sembrava di scrivere di altro.
Così, l’avvicinarsi del quarantennale della sua morte mi ha suggerito l’idea di una riflessione più organica su quest’uomo che credo abbia – per il carattere fondativo che riveste e per la radicalità delle sue domande sull’essere psichiatra – un’importanza nella storia della psichiatria che può essere paragonata soltanto a quella di Philippe Pinel.
Pinel, infatti, ha avuto il merito di integrare il sapere medico-filosofico che lo aveva preceduto in una sintesi convincente per fondare, nel momento di massima glorificazione della ragione e della scienza, la psichiatria. Basaglia ha aggiornato i riferimenti al percorso che il sapere medico e filosofico aveva conosciuto in un secolo e mezzo, per rifondare la psichiatria in una fase di crisi della scienza, imprimendole libertà, vitalità e dinamismo attraverso la negazione e riaffermazione continua di se stessa senza possibilità di approdo a una sintesi nuova.
Passato l’entusiasmo iniziale, l’impresa di scrivere un libro su di lui ha svelato però tutta la sua difficoltà; i suoi scritti sono molti, e il rischio di perdervisi è grande.
Poi, in molti hanno scritto di lui. A partire dai collaboratori diretti, che ne hanno condiviso l’esperienza, i rischi, i dubbi, i successi e sono perciò forse i più titolati. Poi i biografi, da Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (2001, 2020) - che ne hanno approfondito in modo inarrivabile il pensiero - per proseguire con il giornalista Oreste Pivetta (2012). Poi, gli storici, come Valeria Paola Babini (2009) e John Foot (2014), che si sono sforzati di rendere insieme giustizia alla sua primogenitura e all’originalità e interesse di altre esperienze (Perugia, Cividale, Parma, Reggio Emilia, Arezzo, Trieste, Ferrara, Nocera Inf., Gorizia della seconda équipe, ecc.). Alla vita e al lavoro di Basaglia sono stati dedicati un libro fotografico (Aa. Vv., 2008), il film bellissimo ed emozionante del regista Marco Turco C’era una volta la città dei matti (Italia, 2010), e persino una storia a fumetti lo ha preso a protagonista (Alghisi e coll., 2011).
Mi chiedevo dunque cosa avrei potuto scrivere io di originale e utile, venendo dopo tutti costoro; e cosa avrei certamente omesso nell’impossibilità di abbracciarli e tenerli presenti tutti. Perché, certo, Francesco Guccini ha ragione: non si dovrebbe «studiar la stessa pagina di storia / conosciuta già a memoria, / date e luoghi impressi a mente» (dall’album Parnassius Guccini, 1993).
Avevo pensato a una raccolta di scritti già editi, per lo più online; ma durante l’elaborazione il progetto mi è cresciuto sotto le dita, ha preso gradatamente autonomia prolungandosi oltre il previsto e cambiando titolo più volte, si è strutturato in tre parti. La prima, ripercorrendo inevitabilmente strade consunte, raccoglie le mie letture basagliane. La seconda fa riferimento ai momenti di tensione, contraddizione e frattura della storia della psichiatria nei quali mi pare che la necessità della rottura operata da Basaglia covasse, e attendesse forse solo che qualcuno ne avesse il coraggio e le circostanze divenissero più favorevoli. La terza che espone il mio rapporto con un Basaglia interno con il quale sento di essermi sempre confrontato in questi anni nel lavoro di ogni giorno, quando di fronte a una scelta impegnativa (e sono frequenti) mi chiedo: “ma lui, cosa farebbe?”.
Recentemente, occupandosi del pensiero di Basaglia, Pierangelo Di Vittorio (2020) ha colto in questi quarant’anni l’alternarsi, nell’immagine che ne è prevalsa, di due figure, il militante e l’intellettuale; personalmente, provo interesse e sintonia verso entrambe, ma quella che mi interroga più radicalmente è una terza, lo psichiatra. Sì, dico lo psichiatra anche se so che qualcuno - tanto tra coloro che amano la psichiatria ma non Basaglia, che tra coloro che amano Basaglia ma non la psichiatria – potrebbe storcere il naso, perché credo che abbia amato più lui questo mestiere, la psichiatria, col rinfacciarle con schiettezza e a volte brutalità limiti e difetti, che tanti cicisbei che ne coltivano - non senza interesse personale spesso - la vanagloria, l’ipocrisia, le illusioni.
Perciò, qui è soprattutto dello psichiatra che ci occuperemo, sforzandoci di strapparlo all’ampiezza delle curiosità che certo, come uomo, lo hanno stimolato: com’è possibile rendere più giusta la società, che cos’è la follia e in quale rapporto sta con la realtà (domande che è sempre bene che lo psichiatra tenga aperte sullo sfondo, ma nelle quali non si deve perdere; e lungo le quali avvertirei a mia volta forte il desiderio di seguirlo…). E costringendolo, forzandolo direi a stare con noi nelle situazioni della cura, che sono quelle dove a me pare dia il meglio: l’incontro con l’uomo malato, la gestione e la negazione insieme delle dinamiche e dei muri dell’istituzione, la deistituzionalizzazione del quotidiano”[ii], insomma.
Tra coloro che hanno scritto recentemente di lui, Alessandro Ricci (2020, p. 37) dice a proposito delle parole di Basaglia e degli altri che «in un tempo come il nostro di tramonto delle utopie è essenziale conservare con cura questi concetti, dove possibile praticarli; è un’eredità non facile, e tuttavia essi ci trasmettono la forza di un pensiero critico generoso e disinteressato, che può ancora generare pratica professionale e sociale». E ancora Di Vittorio (2020, p. 87) si chiede come sia possibile recuperare la voce del momento «quando bisognava “mettere tra parentesi la malattia” e provare a “emancipare” gli internati, senza però cessare di assisterli e curarli? Quando essere “responsabili” significava tradire il proprio mandato istituzionale, facendosi carico della libertà dell’”altro”, degli internati, con tutti i rischi che ciò comportava?».
Sono anch’io convinto della difficoltà ma insieme dell’importanza, di questa operazione e del fatto che solo quello che ho voluto definire - forse in modo icastico e non senza gusto della provocazione – un “ritorno a Basaglia” possa salvare oggi la psichiatria, riportandola allo stato fluido al quale non dovrebbe mai sottrarsi. Cioè all’incontro, dal quale dovrebbe sempre ripartire. E ai dubbi, le domande irrisolte sulle quali poter fondare una nuova epoché, dalla malattia certo ma anche da tutte le certezze – i modelli teorici e soprattutto organizzativi - che intorno a essa, in questi quarant’anni, si sono di nuovo cristallizzate.
Su questo è ritornata su “Il manifesto” (28 agosto 2020, p. 15) in occasione di questo anniversario Maria Grazia Giannichedda, dopo aver ripercorso i limiti che il “sistema” della salute mentale oggi presenta: «I medici, gli infermieri, gli psicologi che oggi lavorano in questo sistema (…) di Basaglia non sanno nulla, né della legge 180 né della riforma sanitaria né di cosa siano un servizio di comunità e una politica pubblica di salute, o se ne sanno è per scelta propria, dal momento che le facoltà di medicina e psicologia non si occupano di questi temi, ignorano del tutto Basaglia ed evitano ogni discorso critico su salute, malattia, medicina».
Non che questo riguardi solo Basaglia, certo. è da un intero ventennio di storia della psichiatria, quello dove affondano le nostre radici più recenti, che dovremmo ripartire perché, come non si stanca giustamente di ribadire da allora con ammirevole coerenza Pier Francesco Galli (2019, p. 101), che ne è stato uno dei protagonisti: «in psichiatria, più che in altri settori della medicina, è necessario il recupero della cultura critica collettiva, di quella massa critica che ha caratterizzato a lungo la psichiatria italiana». Per il che, intanto, ritornare a Basaglia mi pare un punto di partenza.
Qualcuno potrà obiettare e con ragione che dalla morte di Basaglia molte cose sono cambiate: sono state studiate nuove molecole più efficaci e meno gravose in termini di effetti indesiderati; sono state studiate tecniche, modelli riabilitativi più efficaci e più in grado di valorizzare il punto di vista e l’apporto del soggetto al suo percorso di miglioramento clinico, autonomia, qualità della vita, soddisfazione. E potrà rimproverare questo libro perché di tutto questo non parla.
Il che è vero, certamente. Ma questo non significa che a questo non vi si attribuisca valore; piuttosto, significa che qui abbiamo voluto focalizzare alcuni elementi di fondo dove le cose nuove, e in molti casi preziose, vanno ancora a impattare. Consapevoli che, certo, molte cose sono cambiate in questi quarant’anni – e altri ne parlano e fanno benissimo a parlarne – qui vogliamo insomma soffermarci su ciò che non è cambiato, e quindi un “ritorno a Basaglia” e a quella fase della nostra storia può avere cose da dire che sono attuali e che diversamente perderemmo.
Il fatto che, io credo, la questione della follia pone sempre all’uomo le stesse domande senza risposta; che la pratica della psichiatria espone nel suo rapporto con la responsabilità e la libertà a rischi che le sono comunque connaturati; che le caratteristiche strutturali della società e i relativi processi di esclusione non si sono significativamente modificati negli ultimi due secoli.
E il fatto che questi quarant’anni trascorsi, quindi, sono un tratto certo lungo nelle nostre vite individuali, ma davvero breve invece nel lento scorrere della storia dell’uomo.
 
Tra i testi pubblicati in questa rubrica attinenti la figura e l’opera di Franco Basaglia ricordo:
 
50 anni di “Corpo e istituzione”
“Che cos’è la psichiatria?” 50 anni dopo
L’istituzione negata: 50 anni dopo è ancora di lì che dobbiamo ripartire…
Gorizia 1961: con Antonio Slavich, là dove tutto ebbe inizio…
Franco Basaglia e il ’68: un incontro fortunato
Abele non abita più in quei giardini, però…
Basaglia: la nuova edizione della biografia di Colucci e Di Vittorio
 
 
Nel video: Franco Basaglia nel ricordo della figlia Alberta

 

[i] Riprendevo così il titolo - dagli evidenti echi gramsciani - dell’edizione originale delle Conferenze brasiliane con le quali Basaglia aveva tratto nel ‘79 un bilancio del suo lavoro: La psichiatria alternativa: contro il pessimismo della ragione, l’ottimismo della pratica (San Paolo del Brasile, Brasil Debates, 1979).
[ii] Tale era il titolo azzeccato di un convegno organizzato da Alessandro Ricci per la cooperativa PantaRei e Psichiatria Democratica in Veneto nel 2019 (segui il link per il mio intervento al convegno).

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