Rapporto tra infermiere e paziente psichiatrico

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22 dicembre, 2012 - 17:06

 di Maria Rita Pederzani Psicologo Psicoterapeuta
Casa di Cura Ai Colli - Bologna

PREMESSA

Questo articolo costituisce un resoconto scritto di un ciclo di cinque incontri organizzati all'interno della struttura psichiatrica per brevidegenti "Casa di Cura ai Colli" di Bologna (www.aicolli.com) rivolti al personale infermieristico al fine dell'aggiornamento professionale. Sono stati tenuti dalla Dott.ssa Maria Rita Pederzani, Psicologo Psicoterapeuta, reponsabile del servizio di psicoterapia della Casa di Cura.

Tali ciclo e' stato preceduto da una prima serie di incontri in cui e' stata illustrata agli infermieri l'intera panoramica delle patologie psichiatriche secondo la classificazione del DSM IV.

L'intenzione di questo nuova serie di incontri era di rispondere alle esigenze espresse dagli infermieri di meglio comprendere le dinamiche sottostanti alle patologie conosciute fenomenologicamente. L'approccio adottato, quindi, e' stato prevalentemente di tipo psicodinamico unitamente ad una introduzione ai meccanismi controtransferali. Cio' viene descritto in maniera piu' dettagliata nella introduzione del presente articolo.

Al termine degli incontri gli infermieri hanno espresso la richiesta di mantenere uno spazio all'interno del quale poter avere un momento di confronto e di supervisione der loro operato.

       

 

INTRODUZIONE

All’infermiere che lavora in ambito psichiatrico oggi viene chiesto di ridefinire la propria professionalita' superando la semplice padronanza della tecnica infermieristica generale, senza pero' di fatto fornirgli gli strumenti e le conoscenze necessarie per farlo. Gli si chiede cioe' di osservare e assistere il paziente ospedalizzato estendendo il contenimento, realizzato tradizionalmente con mezzi meccanici e chimici (contenimento fisico e tramite farmaci), ad un contenimento che presuppone da parte dell’infermiere un ruolo emotivamente più attivo ed una messa in atto di comportamenti che risultino più "terapeuticamente" indicati possibile per quel tipo di paziente in quella specifica circostanza.

Affinche' l’infermiere possa svolgere un compito del genere e' necessario che sia fornito di una serie di conoscenze teorico-cliniche che allo stato attuale non possiede. Per cui il primo problema che emerge e':

  1. FORNIRE ALL’INFERMIERE PSICHIATRICO GLI STRUMENTI NECESSARI PER UNA DEFINIZIONE DI PROFESSIONALITA’ più ADEGUATA ALLA REALTA’ in cui opera.

In merito a tale problema gli infermieri hanno espresso il desiderio di acquisire una conoscenza, almeno sommaria, delle patologie psichiatriche con cui più frequentemente vengono a contatto e la necessita' di discutere i principali problemi di gestione ad esse collegate. Sono state cosi' individuati quattro profili di pazienti su cui convergeva il massimo interesse:

-paziente BORDER-LINE

-paziente DEPRESSO

-paziente PSICOTICO

-paziente ANORESSICA

L’acquisizione delle conoscenze teoriche e la discussione delle difficolta' gestionali, per poter essere utilizzabili al massimo sul piano operativo, devono essere integrate da un graduale apprendimento della capacita' di CONOSCERE LE PERSONALI REAZIONI EMOTIVE al paziente.

Tale processo di autoascolto presuppone primariamente il passaggio da un piano di realta' ad un piano di rappresentazione. In altre parole considerare il dato di realta' (es. un gesto autolesivo) come rappresentazione di un significato per il paziente, cioe' cosa vuol dire quel gesto, che cosa ci racconta della storia e del modo di vivere del paziente e nello stesso tempo che cosa il paziente vuol comunicare all’ambiente esterno attraverso quel gesto. Se l’operatore coglie nel paziente un modo di essere con un significato e un’intenzionalita' di comunicazione, diviene più facile per lui ascoltare le proprie risposte emotive.

La conoscenza teorica della malattia permette all’infermiere di accettare la nozione per cui il PAZIENTE E’ UN BAMBINO NEL CORPO DI UN ADULTO. Il paziente ospedalizzato usa l’ambiente esterno come un teatro un cui egli "rappresenta" il proprio mondo interno, riproducendo personali tipi di relazioni patologici o distorti con inevitabile coinvolgimento degli operatori, i quali diventano "attori" a loro volta.

Conoscere il "copione" offre all’infermiere la possibilita' di sottrarsi ad un ruolo imposto, contrastando da un lato la patologica modalita' d’azione del paziente (e favorire per cio' il processo di maturazione del paziente medesimo) e dall’altro riducendo le reazioni emotive negative al comportamento del paziente o per lo meno tollerandole maggiormente.

  1. la seconda serie di problemi emersa e' quella riguardante la COMUNICAZIONE CON I MEDICI, comunicazione vissuta essenzialmente orientata alla mera esecuzione dei compiti.

Scandagliando tale tematica possiamo constatare che questo vissuto si fonda su di un preciso schema mentale organizzativo del personale ospedaliero: quello della struttura PIRAMIDALE. Alla base della piramide vengono collocati gli ausiliari, seguono gli infermieri, quindi i medici e al vertice naturalmente il primario-direttore sanitario. Secondo tale modello, ogni livello della piramide ha il potere di impartire ordini al livello inferiore e l’obbligo di sottostare a quelli dei livelli superiori.

E’ chiaro quindi che le comunicazioni dei medici sono vissute dagli infermieri da una prospettiva di subordinazione, spesso acritica e indiscutibile. Le reazioni che ne conseguono sono ben prevedibili sia sul piano operativo che sul piano affettivo: svolgimento meccanico delle mansioni, elusione delle consegne impartite, discontinuita' nelle attuazioni delle iniziative terapeutiche, sentimenti di frustrazione, ritiro dell’investimento di energie dedicate al lavoro, senso di svalutazione della propria professionalita', vissuto di isolamento e inferiorita' rispetto agli operatori laureati ecc.

E’ sembrato utile, a tale proposito, offrire se non altro uno schema mentale alternativo a quello piramidale che desse maggiore risalto al senso di cooperazione e collaborazione a discapito dell’ "esercizio di potere". Il risultato e' stato quello di immaginare una catena circolare, dove ogni anello rappresenta un operatore diverso e dove ausiliari, medici e infermieri lavorano sullo stesso piano, simultaneamente e in un rapporto di interdipendenza, con lo sguardo rivolto in una unica direzione: al centro , punto in cui si colloca il paziente. Operare con l’obiettivo comune del benessere del paziente e con la percezione che il "medico non puo' fare a meno dell’infermiere", cosi' come l’infermiere non puo' fare a meno del medico ed entrambi non possono fare a meno degli ausiliari, puo' aiutare a superare gli ostacoli della conflittualita' di potere e incoraggiare una comunicazione più libera e aperta fra le diverse categorie di operatori.

D’altro canto la comunanza di obiettivi presuppone la conoscenza e la condivisione del programma terapeutico. L’applicazione del programma terapeutico avverra' in modo tale che ciscun operatore agisca in modo coordinato rispetto ad ogni altro operatore e allo stesso tempo in modo coerente rispetto al programma terapeutico stesso.

Prima di affrontare qualunque tipo di patologia, occorre chiarire che per nessuna malattia che noi vediamo esiste una causa unica. La malattia e' il risultato dell’INTERAZIONE DI FATTORI AMBIENTALI E GENETICI. Certamente il peso degli uni e degli altri puo' variare da soggetto a soggetto, ma non si puo' mai prescindere dalla "combinazione" degli uni con gli altri. Altro punto fondamentale e' che occorre ricordare che il "seme" della patologia viene sempre gettato nei primi anni di vita dell’individuo. La malattia puo' "sbocciare", cioe' puo' manifestarsi in momenti ed eta' diverse dell’esistenza, ma il "seme" e' gia' li' dall’infanzia. Per comprendere meglio questo concetto bisogna immaginare lo sviluppo della personalita' come una linea che va da 0 a 5-6 anni. E’ nell’arco di questo periodo che si formano le basi psichiche, affettive e cognitive di una persona ed e' in questo periodo che puo' piantarsi il "seme" della malattia.

In questo arco di tempo , caratterizzato da varie fasi, o "tappe", si assiste alla crescita del bambino dalla nascita all’eta' scolare. Per raggiungere e superare ognuna di queste tappe occorre aver superato quella precedente. Se per qualche motivo una certa tappa non e' stata superata sufficientemente bene, lo sviluppo psico-affettivo ha una specie di intoppo ed e' in quel preciso punto che si "fissa" il seme. Per cui in ogni malattia dell’adulto noi riconosceremo la fase per cosi' dire "fallata" del bambino.

 

 

IL PAZIENTE BORDER-LINE

Intorno ai 2-3 anni sorge nel bambino un conflitto tra la spinta verso l’autonomia e la paura che essere autonomo comporta: cioe' la PERDITA dell’appoggio emotivo della madre (conflitto indipendenza-dipendenza). Quindi per il bambino CRESCERE e' uguale a PERDERE la madre. In questa fase il bambino e' preoccupato che la madre scompaia, dimostrando una grande preoccupazione relativamente ai suoi spostamenti e alle sue assenze.

Il paziente border-line e' come se rivivesse continuamente una crisi infantile in cui teme che i tentativi di separarsi dalla madre provocheranno la sua scomparsa.

Nella riedizione ADULTA di questa crisi INFANTILE, l’individuo teme di essere ABBANDONATO dalle persone care ed e' incapace di tollerare periodi di solitudine. E’ come se senza l’altro il border-line non esistesse (cronico senso di vuoto).

Per poter tollerare la separazione dalla madre, e poi da adulti dalle persone care, occorre avere un’immagine materna interna UNITARIA, confortante. I pazienti border-line, invece, sono bambini che non sono mai stati capaci di mettere insieme gli aspetti buoni e gli aspetti cattivi delle figure genitoriali (scissione parti buone-parti cattive) per cui la madre e' TUTTA BUONA (quando e' presente e gratifica) oppure TUTTA CATTIVA (quando e' assente e frustrante).

Il border-line ,per evitare a tutti i costi l’abbandono, mette in atto una serie continua di strategie (passivita', seduzione ecc.ecc.) appellandosi alla madre tutta buona, ma si tratta di tentativi destinati al fallimento comunque, dal momento che le richieste del border-line sono irrealistiche.

L’altro, prima o poi, diventa frustrante. Scatta allora la RABBIA, sentimento ben noto in questo tipo di pazienti. Rabbia perché si sentono intrappolati in un sistema di potere in cui loro dipendono da un altro che puo' fare di loro cio' che vuole. Rabbia perché si sentono delusi, quindi abbandonati, quindi soli e vulnerabili e senza l’altro perdono il senso di identita'. Rabbia perché corrono il rischio di cadere nel vuoto e quindi nella depressione. Perché sentono di essere ancora una volta vittime di ingiustizia ( su questa base si innesca tra l’altro il vissuto paranoideo cosi' diffuso in questo tipo di pz.).

Il border-line, non avendo un’immagine materna interna UNITARIA e confortante, non e' in grado di contenere questa rabbia, cosi' come qualsiasi altro vissuto troppo intenso). Per usare un’immagine, il border-line diventa un vaso in cui l’acqua trasborda quando e' arrabbiato ed in quel momento non c’e' per lui un’alternativa esistenziale. Ma poiché appunto non ha gli strumenti per contenere questa rabbia, non riesce cioe' a mettere un tappo sul vaso, (rabbia che al momento ,ripetiamo, e' l’unica affermazione della propria esistenza)scatta l’azione aggressiva (passaggio all’atto - acting out). L’azione aggressiva presenta vari gradi, passa cioe' dall’aggressione VERBALE a quella FISICA .

Quest’ultima puo' essere rivolta o all’ALTRO o a SE STESSO. Nel secondo caso ci troviamo di fronte ai gesti AUTOLESIONISTI o AUTOMUTILANTI (farsi del male). Aggredire l’altro diviene percio' l’equivalente di danneggiare chi ci ha frustrato ristabilendo quindi l’equilibrio di un sistema di potere in cui il border-line percepiva se stesso come soverchiato. Ma dal momento che egli non esiste senza l’altro, distruggere l’altro significa in qualche modo togliere a se stessi la possibilita' di esistere. Infatti a questo proposito alcuni autori hanno parlato della rabbia agita del border-line come il tentativo di "essere o non essere qualcosa".

Aggredire pero', puo' anche essere un modo per mettere alla prova l’altro, saggiando in certo qual senso quanto l’altro e' resistente (Se l’altro non mi soddisfa o mi fa del male vuol dire che sono cattivo e quindi mi merito di essere abbandonato. Non mi rimane che attaccarlo, spaventarlo, distruggerlo. Ma se lui non si spaventa non si "rompe", forse non sono cosi' cattivo e distruttivo da meritarmi l’abbandon o). Analogamente se l’attacco e' rivolto a se stesso, significa che il paziente cerca in qualche modo di preservare l’altro distruggendo se stesso indegno ,ma e' anche un modo per mostrare all’altro quanto male gli ha provocato la sua delusione o il suo abbandono(instillandogli tra l’altro sensi di colpa). E’ infine la resa totale (a volte definitiva con il suicidio) al potere riconosciuto dell’altro.

A questo proposito accenniamo brevemente all’abuso di sostanze tossiche (alcool, droghe, farmaci ecc.),cosi' ricorrenti nei border-line, perche' hanno lo stesso significato di autolesionismo. Cambia soltanto la modalita'. Bere e drogarsi e' un lento suicidarsi. E’ l’unico modo di esistere che contiene in sé contemporaneamente l’autodistruggersi.

In definitiva quindi il comportamento AUTO od ETERO-DISTRUTTIVO (rivolto a se' o agli altri), con tutti i significati di sfida e le funzioni manipolatorie nei confronti dell’ambiente e delle figure terapeutiche e' ESPRESSIONE DI RABBIA e la RABBIA e' la risposta ad un comportamento percepito FRUSTRANTE in un contesto di relazione in cui gli altri esistono unicamente per soddisfare i bisogni del paziente e dove gli altri sono percepiti o come tutti buoni o tutti cattivi. Senza dimenticare che questa "spaccatura" (SCISSIONE) puo' essere percepita anche nella stessa persona (il medico una volta e' tutto buono, l’altra volta e' tutto cattivo).

Noi qui ci occupiamo prevalentemente dell’aggressivita' perché e' quella che da' maggiori problemi di gestione, ma dobbiamo tenere presente che la promiscuita' sessuale e' l’altra faccia della medaglia. Ottenere l’attenzione sessuale da parte di un altro significa risultare gradevole, accettabile , AMABILE (ottenere l’amore della mamma "buona") per cui il sesso diventa una merce di scambio per garantirsi l’APPOGGIO e la CURA di un’altra persona.

Questo spiega le facili e molteplici relazioni che i border-line instaurano anche all’interno della clinica. Relazioni che sono brevi nella stessa misura in cui sono intense. Per mantenere con costanza un rapporto occorre RECIPROCITA’, occorre capire e venire incontro alle esigenze dell’altro, spesso bisogna giungere a dei compromessi. Tutto cio' per il border-line, cosi' egocentrico (cioe' incentrato sui propri bisogni) e' praticamente impossibile.

Il quadro fin qui delineato fa emergere quindi la figura del border-line come quella di una persona che ha bisogno dell’altro affinché lo riempia e gli restituisca un senso di identita', che soddisfi i suoi bisogni di cura e protezione in maniera infantile e irrealistica. Una persona che non ha gli strumenti adeguati per tollerare la separazione, la solitudine, per tollerare le frustrazioni (limiti, regole ecc.) che si dibatte fra autonomia e dipendenza, che risponde alle frustrazioni con la rabbia e la cui rabbia spesso diventa un agito (auto od etero diretto). Persona che ha un tipo di pensiero dicotomico (tutto bianco -tutto nero) base dei vissuti paranoidei.

BORDER-LINE OSPEDALIZZATO.

A seconda del punto piu' o meno vicino ai meccanismi psicotici, il border-line puo' avere un grado diverso di maturita' dell’Io e quindi un differente grado di adattamento all’ambiente ospedaliero: per esempio ci sono border con maggiore tendenza all’autolesionismo e al suicidio, altri in cui prevale un atteggiamento diffusamente ostile ecc. per cui di volta in volta occorre modulare il tipo di contenimento e controllo.

Tuttavia esistono dei fattori in comune pressoché costanti. Il piu' importante e' la SCISSIONE (figure buone-figure cattive) che il border, se riesce a sostenere il ricovero, operera' inevitabilmente sulle figure terapeutiche. Il meccanismo gli serve per tenere lontano la distruttivita', ma il risultato per gli infermieri sara' che esistera' l’infermiere BUONO a cui il pz rivolgera' richieste pressanti, e l’infermiere CATTIVO a cui rivolgera' proteste e ostilita' (oppure gli infermieri sono buoni e i medici cattivi, o viceversa). I rischi sono che l’infermiere "buono" sara' lusingato e cadra' nell’eccessiva indulgenza con la conseguenza di non riuscire a far rispettare sufficientemente le regole, oppure che ad un certo punto si senta asfissiato e manipolato e non riesca piu' a sottrarsi allo irretimento del pz. perdendo il controllo della situazione.

D’altro lato l’infermiere "cattivo" potrebbe rispondere a sua volta con ostilita' al pz, usando regole e strumenti terapeutici non come contenimento ma come punizione. Non infrequente che il pz,grazie a questo meccanismo, crei dei conflitti fra gli operatori stessi.

Dal momento che l’obiettivo terapeutico ultimo per questo tipo di pz e' l’INTEGRAZIONE (mettere insieme le parti buone e le parti cattive in modo che coesistano in lui e negli altri) l’ideale sarebbe che tutti e due gli operatori discutessero insieme al pz il problema della richiesta. Se si tratta di due infermieri e' pressoche' impossibile, coprendo generalmente due turni diversi. Piu' fattibile, invece, se si tratta di un medico e di un infermiere.

Rimane comunque l’alternativa che i due infermieri parlino fra di loro rivedendo l’UNIDIREZIONALITA’ del progetto. Ovvero concordare insieme una linea di condotta comune circa limiti e regole.In tal modo il pz ricevera' un MESSAGGIO COERENTE ED UNIVOCO. Solo cosi' riuscira' a realizzare che LE PERSONE CHE LO LIMITANO SONO LE STESSE CHE LO PROTEGGONO. Bisogna infatti ricordare che i border piu' che mai hanno bisogno di essere protetti e sono affamati di cura. Essere consapevoli di questo significa riuscire ad essere accoglienti superando il naturale fastidio e irritazione che il loro atteggiamento ostile provoca. Siamo sempre di fronte, come per qualsiasi altro paziente, al bambino nel corpo di un adulto.

Tutte le figure terapeutiche (quindi anche gli infermieri) devono rappresentare l’Io del pz.

L ’Io e' quella funzione psichica che permette ad un individuo di tollerare la frustrazione, di rimandare nel tempo la soddisfazione di un bisogno, di valutare adeguatamente la realta', comprese le conseguenze di un proprio comportamento o azione. Il border ha un Io molto debole. Proprio come un bambino piccolo il border non sa aspettare.Se per es.deve dire una cosa al medico, non sa aspettare la visita.Se ha molta ansia non sa contenerla e vuole subito un farmaco o vuole subito qualcuno con cui parlare. NON SA METTERE IL TEMPO FRA IL PENSARE E L’AGIRE. NON SA USARE LA PAROLA INVECE DELL’AZIONE . NON RIESCE A "VEDERE" LE CONSEGUENZE DI UN’AZIONE.

Tutti gli operatori quindi sono tenuti a funzionare come IO AUSILIARIO del border-line. Quindi:

  1. comunicare in maniera chiara ,decisa ma NON IMPOSITIVA le regole partendo dal presupposto che le regole servono a contenere ed educare non a punire.
  2. Rimandare la scarica dell’impulso-azione cercando delle alternative. Questo a sua volta presuppone
  1. sostituire l’azione con le parole
  2. anticipare le conseguenze dell’azione.

Soprattutto per quanto riguarda la scarica della rabbia e' utile IDENTIFICARE L’EVENTO PRECIPITANTE (cioe' capire quale e' stata la richiesta non soddisfatta che ha fatto scatenare la rabbia o l’evento che il pz. ha percepito come ingiusto).

Nei limiti di un moderato attacco di rabbia, che escluda cioe' l’incolumita' fisica dell’operatore, e' utile per il pz. ma anche per l’infermiere al fine di gestire la paura o l’irritazione, spostare l’attenzione del pz sul motivo che gli ha fatto scattare la rabbia.

Questa strategia ha molti vantaggi: SOSTITUISCE L’AZIONE CON LA PAROLA, perché il pz., di fronte ad una persona interessata e preoccupata di capire perché stia cosi' male, e' costretto a "raccontare", a "spiegare". Mentre parla si sente capito, ascoltato e contenuto ( e la rabbia ha tempo intanto di stemperarsi) e nel contempo" raccontando" si mette il tempo tra l’impulso e l’azione.

Un’altra utile indicazione e' quella di evitare , con questo tipo di paziente, un atteggiamento TERAPEUTICO PASSIVO ( Cioe' non dire nulla, opporre un sottolineato silenzio, simulare indifferenza o volgere le spalle…) perché dobbiamo sempre ricordare che la rabbia e' l’unica possibilita' esistenziale e come tale va accolta.

 

 

IL PAZIENTE DEPRESSO

Tutti conosciamo i sintomi della depressione (astenia, insonnia, ipersonnia, disappetenza, rallentamento psico-motorio ecc.) ed anche se a volte prevale un sintomo e a volte prevale un altro, ci appaiono tutti alquanto simili. In realta' sono simili solo nel modo di MANIFESTARSI perché esistono invece diversi tipi di depressione.

Innanzi tutto ricordiamo che la depressione in sé e' una reazione naturale, fisiologica ad una PERDITA (perdita di qualunque genere: perdita di una persona, perdita del lavoro, perdita di un sogno ecc. ecc.) Se però questa condizione persiste a lungo o se si manifesta senza particolari eventi esterni che apparentemente la motivino, si parla di disturbo depressivo maggiore.

Riprendendo il discorso dell’immagine della madre buona interna, vediamo che in questo caso il depresso vive come se la sua aggressivita' avesse distrutto tale immagine e non fosse piu' in grado di ripararla. A questo proposito abbiamo usato l’immagine del vaso rotto che non si aggiusta piu', o parzialmente, o solo per breve tempo( e con il border abbiamo gia' visto che l’immagine materna interna e' importante per costruire la fiducia in sé e per usufruire di tutti gli strumenti psichici che servono per affrontare la realta', come tollerare la frustrazione ecc.)

Quindi quando abbiamo a che fare con il depresso abbiamo a che fare con una persona in cronico stato di LUTTO.

Lutto, ma anche senso di COLPA, INCAPACITA’ E INDEGNITA’. Come se l’immagine interna della madre a pezzi "dicesse" loro continuamente "Non vali niente, non sei capace di fare niente, non ti meriti niente, distruggi tutto ecc.) trasformandosi cosi' in un GIUDICE INTERNO molto severo. Questo e' molto importante perché questo e' il principale vissuto da cui partono tutte le dinamiche che coinvolgono le figure terapeutiche e quindi anche gli infermieri. Anche qui abbiamo a che fare con l’aggressivita' che però si manifesta in modo diverso dal border perché e' sotterranea e apparentemente silenziosa ma e' altrettanto corposa. Il border la esprime con l’urlo e il gesto. Il depresso con il silenzio e l’annullamento dell’azione.

Oltre alla depressione come REAZIONE NATURALE (reattiva) e al DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE esiste la depressione situata all’interno della ciclicita' MANIACO-DEPRESSIVA. La depressione in questo caso e' un vero e proprio episodio depressivo maggiore con il significato appena visto, mentre la MANIA e' l’altra faccia della medaglia: il pz si sente ONNIPOTENTE, perde il senso della misura e della regola perché, attraverso la mania, NEGA DI AVER DISTRUTTO l’immagine materna buona, NEGA DI AVER BISOGNO di lei (nega la dipendenza).

La mania e' l’espressione massima dell’AUTOSUFFICIENZA. E’ il TRIONFO: per cui quando nascono problemi di gestione con i pz maniacali e' perché non accettano i limiti che gli operatori danno. Si ribellano agli esami di realta' perché noi rappresentiamo coloro che li vogliono ridurre nuovamente alla dipendenza e all’impotenza e quindi alla depressione. Come per il border-line non esisteva alternativa esistenziale alla rabbia, per chi e' affetto da bipolarismo non esiste alternativa ai due poli estremi, la mania oppure la depressione appunto.

Come abbiamo visto in precedenza la DEPRESSIONE del BORDER-LINE e' legata al senso di VUOTO che la mancanza dell’altro provoca. Ma esiste anche la DEPRESSIONE nello psicotico legata al momento successivo alla remissione della sintomatologia delirante. Al momento cioe', in cui, prova una specie di smarrimento di fronte al fatto che la realta' aliena (delirio) che si era costruito per fronteggiare le proprie angosce non c’e' piu'. Non può tornare indietro, ma non può neppure andare avanti perché non conosce un modo diverso di vivere.

La diversita' fondamentale riguarda quindi la presenza del giudice interno molto severo, che per quello che ci riguarda e' la cosa piu' importante.

Ricordiamo infatti che il paziente ospedalizzato gioca un ruolo quando entra in relazione con figure terapeutiche. Il paziente con depressione maggiore sostanzialmente propone due ruoli:

  1. ci fa interpretare se stesso. Ovvero e' come se ci mettesse dentro tutti i suoi vissuti di indegnita', impotenza colpa e morte. La nostra reazione sara' allora di IMPOTENZA a nostra volta (non saper che cosa fare o dire) che e' esattamente quello che prova lui. Ma anche di tutta una serie di sentimenti quali INSOFFERENZA, FASTIDIO, PAURA MAGICA DI ESSERE CONTAGIATI DALLA MORTE . Sentimenti che contribuiscono nell’insieme a prendere le distanze da un paziente simile, riducendo al minimo il nostro intervento
  2. oppure ci assegna il ruolo di giudice interno, per cui noi, con la nostra efficienza, con la nostra presenza apparentemente scevra da sofferenza e malattia, gli comunichiamo continuamente quanto lui valga poco, quanto sia incapace ecc.

Bisogna quindi stare molto attenti a STIMOLARE un depresso. Usare un modo troppo direttivo o ricorrere al concetto di volonta' e' deleterio perché significa cadere nel ruolo di giudice interno. Al proposito ricordiamo l’esempio di Paola aggredita verbalmente da una paziente depressa ,(da lei precedentemente stimolata )e costretta poi a scusarsi di fronte ai medici. Il risultato e' stato doppiamente negativo: l’infermiere si e' sentito rimproverato quando in realta' voleva semplicemente aiutare una persona, il paziente si e' sentito ancora una volta confermato nella sua incapacita'. Come muoversi allora?

La base del comportamento da tenere e' comunque quello di una generale cordialita' e tolleranza. L’incoraggiamento va fatto nel senso piu' generale che le cose possono cambiare, nel senso cioe' di infondere speranza (disperato etimologicamente significa senza speranza!) in un cambiamento ( il depresso vive in una condizione di immobilismo).

Farcela sara' la conseguenza di QUALCOSA CHE CAMBIA DENTRO DI LUI ("Vedra' che la voglia tornera'" piuttosto che"Vedra' che ce la fara'". La vita , i desideri, i sentimenti sono addormentati non morti come lui invece pensa). La stimolazione va intensificata quando il movimento, seppur minimo, e' gia' iniziato.

Ed e' sempre un’azione necessariamente molto semplice. Sappiamo bene che quando la depressione e' forte, lavarsi, per es., e' come scalare una montagna. Se non c’e' traccia di movimento, la stimolazione va fatta sotto forma di proposta, di domanda ("Se la sente oggi di alzarsi 5 minuti?") Proporre, chiedere non suona come un ordine e presuppone che il paziente possa dire di no e sentirsi comunque rispettato nel suo malessere. L’operatore ha assolto il suo compito ed e' piu' facile che il paziente si senta capito e accettato nella sua impotenza.

Quando nel depresso la sintomatologia dell’ansia e' marcata e soprattutto vi e' la tendenza alla SOMATIZZAZIONE, il paziente mostra un atteggiamento particolarmente LAMENTOSO E VISCHIOSO, tendendo a instaurare relazioni di DIPENDENZA. Generalmente questo comportamento provoca una reazione di INSOFFERENZA e FASTIDIO. Per rendere piu' sopportabile tutto ciò e' utile capire il significato della somatizzazione. La somatizzazione e' una specie di depressione dell’organo colpito.

La depressione e la sottostante distruttivita', invece di essere vissuta nella sua interezza come affetto, viene convogliata verso un organo o parte del corpo. Il giudice interno, in certo qual modo, si scaglia contro quell’organo o parte del corpo che viene cosi' a "parlare". L’organo comunica il sentimento che il paziente non può vivere ed esprimere emotivamente. Cosi' per esempio il male di schiena dice che quella persona non "regge" piu' il peso della vita o di un particolare evento, il mal di stomaco che non riesce a "digerire" un certo fatto, il mal di pancia che non riesce ad assimilare le cose nutrienti della vita a causa di un dolore profondo, "viscerale".

E’ perciò che e' cosi' difficile tollerare la lamentosita' di chi somatizza: perché e' un continuo e invariato dire quanto si soffre. E’ una richiesta di ATTENZIONE, NON di RASSICURAZIONE.

 

 

IL PAZIENTE PSICOTICO

La forma piu' grave di psicosi e' la SCHIZOFRENIA.

La schizofrenia e' una malattia che ha manifestazioni molto diverse fra di loro. Per chiarezza, i sintomi vengono suddivisi in 2 gruppi:

1) sintomi POSITIVI :

disturbi del pensiero (DELIRIO)

disturbi della percezione (ALLUCINAZIONE)

disturbi del comportamento (AGITAZIONE-CATATONIA)

 

 

  1. sintomi NEGATIVI :

ritiro sociale, affettivita’ appiattita. Impoverimento, apatia...

Sia nell’un caso che nell’altro i pazienti presentano RELAZIONI DISTURBATE (distacco, espressione inadeguata di aggressivita' e sessualita', mancanza di consapevolezza dei bisogni altrui …)

Le categorie possono sovrapporsi e lo stesso paziente, nel corso della malattia, può spostarsi da un gruppo all’altro. Alcuni studi dicono che se prevale il secondo gruppo di sintomi, la malattia e' piu' probabilmente legata a fattori ereditari-genetici. Se prevale il primo, a fattori familiari-ambientali .In realta', le teorie che spiegano le cause della schizofrenia sono varie. C’e' chi sostiene che dipende dall’ambiente, chi da fattori bio-chimici. La piu' plausibile sembra comunque la CAUSALITA’ MULTIFATTORIALE, come del resto anche per le altre malattie considerate le volte precedenti.

In termini di relazioni precoci dell’infanzia con la madre, lo schizofrenico rivive quella fase in cui il neonato e' un tutt’uno con la madre (SIMBIOSI).Chiunque di voi sia stato in contatto con un neonato sa che nei primi mesi di vita il bambino reagisce con fastidio alle carezze, come se un corpo estraneo lo toccasse. Questo perché egli non percepisce la madre come una persona staccata da sé. Lui e la madre sono un tutt’uno. Egli vuole essere tenuto in braccio, contenuto, avviluppato, ma non toccato con le dita. E’ in questo primissimo periodo di vita che il bambino percepisce dentro di sé vissuti molto angosciosi. Ogni tipo di stimolazione interna ed esterna e' abnorme e lo mette in pericolo di vita. La funzione della madre e' quella di contenere queste angosce e rinviarle al bambino in un certo senso "modificate", cioe' rese piu' "innocue". Solo in questo modo il bambino può costruire i confini tra sé e la madre, tra sé e il mondo, costituendosi individuo singolo e separato, autocontenitore delle proprie angosce. E questo avviene primariamente attraverso la pelle. Se la madre non riesce ad assolvere a questa funzione, il bambino cade nel panico cosmico, in un’angoscia mortale dove il vissuto di andare in pezzi (ANGOSCIA DI FRAMMENTAZIONE). Una specie di esplosione interna (IMPLOSIONE).Lo schizofrenico rivive esattamente questa situazione, un’angoscia totale in cui il suo sé va in frantumi, dove non ci sono piu' confini fra sé e il mondo esterno e dove anche il pensiero si frantuma.

Nella relazione con lo schizofrenico questo e' il problema piu' importante: quello del CONTATTO e della VICINANZA. Non avendo differenziazione fra sé e l’altro egli tende a fondersi, ad assorbirsi con le persone intorno, nel tentativo di ristabilire l’unione simbiotica con la madre. Solo che ciò produce paure catastrofiche di annichilimento , che fanno si' che egli si senta intrappolato tra il desiderio di fusione e terrore di disintegrazione. E’ allora che può scattare la VIOLENZA.

Per farvi meglio comprendere questo vi volevo portare il caso di un mio paziente schizofrenico che e' giunto nel mio studio completamente disorganizzato e affetto da allucinazione uditive. In una prima fase della terapia egli tentava di mettersi in contatto con me ma era continuamente disturbato dalle voci che lo mettevano in guardia da me, per cui per molte sedute i dialoghi si svolgevano a tre, del tipo che io gli facevo una domanda, lui raffazzonava una risposta e poi si rivolgeva ad un interlocutore invisibile alla sua destra dicendo "no, va bene, questo non glielo dico".

Il pensiero era completamente frammentato e costruire un frase era estremamente difficoltoso. In una seconda fase, le voci erano molto diminuite e il ragazzo esprimeva un profondo desiderio di entrare in relazione con me mista da altrettanto profondo terrore. Cominciava a costruire piccole frasi alternate a silenzi in cui egli viveva con occhi sbarrati tutto il terrore sotto forma di immagini interne di smembramento, sangue, carne tagliata ecc che poi, calmatosi, mi riferiva unita alla dichiarazione di aver provato forti impulsi ad uccidermi.

Nella fase successiva il terrore si era stemperato e le voci pressoche' scomparse.

Il linguaggio e il pensiero divenivano via via piu' ordinati e lineari. In questa nuova fase la comunicazione prevalente riguardava la sensazione di non avere un chiaro confine fra lui e me, per cui sentiva che c’erano delle parti di lui in me e delle parti di me in lui. Non arrivava a capire dove iniziavo io e dove finiva lui. Era chiaro comunque che si stava sforzando di costruire la pelle come linea di demarcazione fra di noi e questo fu ancora piu' evidente in un ulteriore successivo periodo, quando cominciò a dire che i nostri colloqui gli provocavano dei sentimenti che gli "bruciavano" la pelle.

Spesso la sensazione di calore era cosi' forte da farlo star male tanto da dover interrompere il colloquio. Si trattava quasi sempre di sentimenti legati all’amore e alla paura e comunque io ero sempre fuori da lui e lui era una persona singola e separata da me. Si arrivò infine a una relazione nitidamente composta da due persone, in cui lui chiedeva aiuto a me per cercare di capire e di analizzare i suoi vissuti.. Relazione in cui i sentimenti venivano espressi ma sempre ben contenuti.

La forma piu' comune di schizofrenia e' quella in cui appare un quadro generale di DISORGANIZZAZIONE (del pensiero, del comportamento, del modo di parlare) con presenza, piu' o meno frequente e massiccia di allucinazioni a carattere PERSECUTORIO (anch’esse sconnesse e scarsamente strutturate).

A volte si presenta con carattere di fatuita'. Il paziente appare sguaiato, stolido, burlone, impertinente (forma EBEFRENICA): la disperazione sceglie la via "buffonesca".

Piu' raramente si presenta sotto forma CATATONICA in cui si manifestano un certo immobilismo statuario,rigidezza, obbedienza automatica interrotte da improvvise crisi motorie che possono essere violente.

Se lo psicotico riesce in qualche modo a difendersi da questa profonda angoscia scompaginante, lo può fare solo attraverso la costruzione di una realta' alternativa (DELIRIO) che altro non e' che la realta' interna tutta a pezzi gettata fuori (PROIETTATA). Ciò permette in certo qual modo di circoscrivere il dolore e di salvare il piu' possibile il funzionamento cognitivo. Si può dire che il delirio e' piu' conveniente dal punto di vista dell’economia psichica.

In questo caso parliamo del DISTURBO DELIRANTE.

Il piu' diffuso e' sicuramente quello di PERSECUZIONE: tutti gli impulsi di morte e distruzione vengono gettati fuori e depositati nelle persone le quali divengono cosi' i persecutori.( E’ anche quello che crea maggiormente problemi negli operatori perché possiamo venire facilmente chiamati a recitare il ruolo dei persecutori).

Ricordiamo brevemente: delirio EROTOMANICO = convinzione di essere oggetto di attenzioni sessuali da parte di una persona che ha generalmente un ruolo "autorevole"

delirio di GELOSIA= convinzione di infedelta' da parte del partner

delirio di GRANDEZZA= convinzione di avere esagerato potere, valore,

conoscenza o di essere in rapporto diretto con entita’ divina

delirio SOMATICO= idea di avere un qualche difetto o malattia.

A volte i deliri sono misti.

Poi un’importante precisazione e' quella che riguarda gli psicotici che costruiscono un delirio, cioe' "inventano" una nuova realta' e gli psicotici che interpretano in modo delirante un dato di realta' esistente. Vi sono infine i pazienti che pur non delirando francamente si muovono come persone estremamente sospettose, che vedono negli altri sempre significati di minaccia, di offesa e di ingiuria (DISTURBO PARANOIDEO DI PERSONALITA’).

 

 

IL PAZIENTE ANORESSICO

 

L’ANORESSIA e' un disturbo molto legato all’epoca e alla cultura. I mezzi di comunicazione bombardano di immagini di donne magre che "hanno tutto", ma soprattutto "possono tutto" (quindi magrezza= POTENZA o addirittura ONNIPOTENZA) suggerendo che l’apparenza esteriore e' molto piu' importante dell’identita' interna .In secondo luogo, perché si possa sviluppare una tale malattia e' necessario vivere in ambienti in cui vi sia cibo in abbondanza. Le ricerche dimostrano che in ambienti economicamente poco avvantaggiati, l’anoressia non esiste.

 

L’anoressia NON e' la perdita d’appetito, bensi' la ricerca fanatica della magrezza in rapporto ad un’angoscia opprimente di ingrassare (per fare diagnosi si usa il criterio della riduzione del peso sotto l’85% del peso normale minimo per eta' e altezza: Altro criterio significativo la perdita delle mestruazioni-AMENORREA-)

Il 95% delle anoressiche sono donne. Quando si presenta nei maschi l’anoressia presenta comunque le stesse caratteristiche cliniche.

 

L’anoressia viene quindi considerata un DISTURBO DELL’IDENTITA’. Le anoressiche si vivono completamente INCAPACI e IMPOTENTI. Spesso il disturbo si manifesta nelle classiche "brave bambine" che hanno speso tutta la vita a compiacere i genitori, poi, durante l’adolescenza si ribellano. I genitori dell’anoressica, e la madre per lo piu', hanno usato i figli in funzione dei bisogni personali, piuttosto che avere cura dei bisogni dei figli. Spesso si tratta di coppie deluse dal loro matrimonio, per cui madre e padre cercano nei figli gratificazione e appoggio emotivo invece di ricercarlo nel coniuge. Alcuni studiosi della famiglia hanno constatato che generalmente le famiglie delle anoressiche sono cosiddette "invischiate", cioe' famiglie in cui nessuno si vive come individuo a sé rispetto agli altri membri e tutti i membri dipendono l’uno dall’altro.

Ad ogni modo il nucleo fondamentale del disturbo sta nel fatto che l’anoressica, essendo una "appendice" o una sorta di "prolungamento" dei genitori, MANCA DI UN SENSO D’IDENTITA’ e di APPARTENENZA AL PROPRIO CORPO. Controllare le funzioni basilari del corpo (come appunto la fame) diventa un modo per acquisire un’autonomia un po’ speciale, la magrezza un modo alternativo di essere "uniche".

 

Un modo che permette allo stesso tempo di ribellarsi al padre e alla madre, rifiutando contemporaneamente il modello di femminilita' proposto dalla madre.

 

Alcuni autori hanno definito il corpo dell’anoressica un "corpo-tubo".

Dimagrendo si perdono le curve, il seno ( e, ricordiamo, anche le mestruazioni), per cui l’anoressica acquisisce sempre piu' la piattezza di un maschio. E dove la definizione di "tubo" evoca esattamente la forma di un organo genitale maschile.

Cosi', piu' dimagriscono, piu' le anoressiche sperimentano un’autosufficienza ai limiti dell’onnipotenza (e l’organo genitale maschile e' simbolo di potenza!) che almeno all’inizio vivono come una sorta di euforia ed esaltazione’ infatti nota l’iperattivita', sia fisica che mentale delle anoressiche, almeno fino a quando non insorge la debilitazione. Questi fattori psicodinamici sono accompagnati da tratti cognitivi tipici: dispercezione dello schema corporeo (non riescono cioe' a "vedere" la propria magrezza) che puo' arrivare alla dismorfofobia (vedere nel proprio corpo delle vere e proprie deformazioni), pensiero magico e rituali ossessivo-compulsivi (generalmente collegati alla quantita' di cibo assunta, alle calorie ad esse connesse e relativi esercizi per bruciare le calorie, oppure collegati alla modalita' di assumere ed espellere cibo ecc.)

Anche in questo caso gli operatori devono stare all’erta per quanto riguarda i tentativi inconsci dell’anoressica di rimettere in atto nell’ambiente ospedaliero le battaglie familiari. Occorre trasmettere il proprio interesse ad aiutare la paziente ad acquistare peso senza pero' mostrare una preoccupazione eccessiva se questo non avviene o mostrare un controllo troppo rigido del peso. Se avvengono, gli aumenti di peso dovrebbero essere riferiti alla paziente comunque accompagnati da rinforzi positivi. Le anoressiche devono in ogni caso essere rassicurate che non permetteranno un eccessivo aumento di peso, aiutandole cosi' a sviluppare un senso di fiducia negli operatori.

 

Le pazienti affette da BULIMIA, al contrario delle anoressiche, hanno un peso relativamente normale e presentano le classiche "abbuffate", generalmente seguite da uso di purganti, diuretici ecc. Ma la sostanziale differenza e' che la anoressia e' una patologia a se stante, mentre la bulimia e' un SINTOMO che puo' quindi presentarsi all’interno di patologie diverse.

E’ un sintomo infatti legato alla sfera del discontrollo degli impulsi e quindi si puo' presentare su una persona con struttura border-line ma anche nevrotica o psicotica. Dopo un lungo periodo di tempo l’anoressia puo' lasciare il passo alla bulimia, ma molto raramente il contrario. Anche caratterialmente appaiono alquanto diverse: l’anoressica e' rigida, con una autodisciplina portata al parossismo, la bulimica ha un comportamento dominato dagli impulsi(il problema del mangiare "impulsivo" puo' accompagnarsi a problemi di rapporti impulsivi, autodistruttivi" con l’abuso di sostanze molteplici), e' irresponsabile e indisciplinata.

Le bulimiche usano le relazioni interpersonali per ricevere danno o punizione da fonti esterne, mentre le anoressiche si ritirano letteralmente dalle relazioni.

Questo bisogno della bulimica di essere punita trova origine da una enorme riserva di aggressivita' inconscia diretta alle figure genitoriali. La rabbia viene spostata sul cibo che viene poi cannibalescamente distrutto. La paziente anoressica mantiene il controllo sui suoi sentimenti aggressivi verso le persone rifiutandosi di mangiare, mentre la paziente bulimica distrugge e incorpora le persone ingozzandosi. Alcuni autori hanno visto in questo modo di mangiare e successivo uso di lassativi la rappresentazione del dramma della separazione: l’ingestione del cibo rappresenta il desiderio di fusione simbiotica con la madre e l’espulsione di cibo un tentativo di separarsi da lei.

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