Il “Campo Psy” e la Francia

Share this
25 ottobre, 2012 - 17:37

Nel weekend del 9 e 10 febbraio 2008, a Parigi, il Palais de la Mutualité ha ospitato un meeting dal titolo “Vivre sous Sarkozy”, e la cui locandina recitava “Quelle Politique de Civilisation? 'Réhumaniser' la Société: comment? Cognitivisme ou Psychanalyse”. Il meeting era organizzato dal movimento del Forum des Psys, che è a sua volta promosso e animato dall'Ecole de la Cause Freudienne (ECF), la società psicanalitica fondatrice della Associazione Mondiale di Psicanalisi (AMP), e diretta da Jacques-Alain Miller, genero di Jacques Lacan e avente-diritto sull'opera di quest'ultimo; l'annuncio campeggiava sull'ultimo numero de Le Nouvel ne, periodico culturale militante del Forum Psy, diretto dallo stesso Miller e divenuto ormai un bimestrale edito a breve anche in italiano e spagnolo a cura delle ramificazioni locali dell'ECF. 
Questo intreccio così stretto tra un ambiente psicanalitico, la vita politica e l'opinione pubblica, per quanto non del tutto imprevedibile nella situazione culturale francese, è comunque sintomo di una congiuntura inedita, che, a partire almeno dal 2003, ha visto la riorganizzazione di ciò che è stato definito “Campo Psy” (psicanalisi, psichiatria, psicoterapie, psicologia), una ridefinizione dei rapporti tra i suoi componenti (alcuni dei quali - ad esempio gli psicanalisti - negavano perfino l'esistenza di un campo comune), e di quelli del “Campo” in questione con le restanti istanze sociali, culturali e politiche. Come si suol dire, “tutto cominciò” (almeno in apparenza) l'8 ottobre 2003, quando l'Assemblée Nationale ha votato all'unanimità un emendamento al Codice sanitario (Code de la Santé - ricordiamo che santé vale tanto “salute” come stato opposto alla malattia, che “sanità” come oggetto di strategie politiche) proposto da Bernard Accoyer, medico e deputato UMP (il partito di destra attualmente al potere) dell'Alta Savoia. Questo emendamento, non preceduto da dibattito pubblico né da previo ascolto delle figure professionali coinvolte, toccava tuttavia una materia di grande delicatezza: esso infatti intendeva regolamentare l'esercizio delle psicoterapie, riservandolo ai soli medici e titolari di un diploma universitario in psicologia. Questa condizione - già posta da Accoyer in un disegno di legge dell'aprile 2000 in cui medici psichiatri e psicologi clinici con titolo universitario risultavano i soli “professionisti qualificati” all'esercizio delle psicoterapie - non è più sufficiente per il decreto del 2003, che vi aggiunge il ruolo istituzionalmente cruciale del Ministero della Salute: è a quest'ultimo infatti che spetta stabilire per decreto quali siano le differenti categorie riconosciute di psicoterapie, e di fissare le qualificazioni professionali richieste al loro esercizio, fermo restando che questo spetta apriori a medici e psicologi. Inoltre, un peso altrettanto grande è attribuito all'Agenzia nazionale di accreditamento e valutazione in materia sanitaria (ANAES, fondata nel 1997 dal ministro socialista Bernard Kouchner, con l'intenzione esplicita di includere le psicoterapie nella sua giurisdizione), cui spetta di contribuire ad elaborare le condizioni d'esercizio delle psicoterapie; infine, dal 2000 al 2003 permane il principio che i “né-né”, né medici né psicologi, dovranno essere sottoposti alla valutazione di commissioni formate sempre per decreto. Questo emendamento conclude - secondo la storica della psicanalisi Elisabeth Roudinesco, nel modo peggiore - una serie di richieste avanzate dal 1995 dalle associazioni di psicoterapeuti francesi all'indirizzo dei pubblici poteri al fine di ottenere l'istituzione di un Ufficio delle professioni sanitarie non-mediche in grado di proteggere gli psicoterapeuti stessi ed i loro pazienti dal rischio delle sette e dei ciarlatani. Invocando dal canto suo la sicurizzazione dell'utente contro i rischi di plagi, abusi e truffe, Accoyer risolse a modo suo la questione assegnando la totalità delle pratiche psicoterapeutiche al controllo del potere medico, dello Stato, e delle istanze di expertise e “valutazione” (termine che rende male il francese évaluation, dal senso molto più globale come del resto gli anglosassoni assessment e benchmarking). Questo controllo è stato esplicitamente preferito ad un modo di autoregolazione che, senza inscriversi nell'ambito della santé publique, fosse in grado di dissipare i sospetti di ciarlataneria o vero e proprio plagio che da sempre gravano sulle psicoterapie. 

Su questa medicalizzazione-statalizzazione delle psicoterapie si è aperta la prima controversia relativa al “Campo Psy”. Secondo Elisabeth Roudinesco (Le patient, le thérapeute, l'Etat, Fayard, Paris, 2004, p. 74 sgg.), la maggior parte delle scuole di psicanalisi francesi (affiliate all'IPA, come la SPP e l'APF, o le lacaniane ALI, SPF, EA e IFCL) ha esercitato un attivo lobbying presso l'Assemblée, il Ministero ed il Senato per impedire l'approvazione di misure di autoregolazione delle professioni non-mediche che - dato lo statuto esplicitamente “profano”, cioè esterno alla medicina, voluto da Freud per l'analisi - avrebbero assimilato la psicanalisi alle odiate psicoterapie. Perciò, queste scuole hanno accettato, il 12 dicembre 2003, una proposta del ministro della sanità Jean-François Mattei che le esentava dal controllo statale diretto a condizione di consegnare allo Stato la “lista” dei propri membri registrati sugli annuari delle associazioni (ovviamente già disponibili e consultabili pubblicamente), sempre allo scopo di impedire che dei “ciarlatani” si infiltrino nelle professioni “psy”. Solo l'ECF, sostenuta da numerose personalità pubbliche, quali appunto E. Roudinesco, ha rifiutato questo patto con i poteri statali, coerente in ciò con la vicenda di Lacan, “scomunicato” dall'IPA a causa del carattere non-standard della sua pratica clinica; ed ha ufficialmente riconosciuto (o forse sarebbe meglio dire inaugurato) l'esistenza di un “campo psy” eterogeneo ma unitario, globalmente minacciato da certe politiche di “sanità mentale”, e dal tipo di rapporto che esse implicano tra la soggettività umana, da un lato, e, dall'altro, le scienze, la medicina, la società, la politica. In quest'ottica è stato redatto il “Manifesto psy” a nome dei «professionisti dell'insieme dei modi d'esercizio della psicanalisi, della psicologia clinica, delle psicoterapie e della psichiatria pubblica e privata, riuniti in forum a Parigi il 15 novembre 2003» (si veda il testo completo in Ornicar? 51, 2004, Navarin-Seuil, Paris, pp. 379-380), che ha dato appunto avvio alla proliferazione di iniziative dei forum “psy”; e nello stesso senso va intesa la boutade di Jacques-Alain Miller, secondo cui gli psy devono la propria unità al rischio di assorbimento nel potere statale e medico che l'emendamento Accoyer ha fatto pesare su di loro (ibid., p. 385). L'importanza di questa unità è tanto più grande quanto più si ricordi che essa, fino a poco prima, era stata aspramente contestata, ritenendo gli psicanalisti di ogni fazione che la rottura di Freud con la tecnica della suggestione fosse sufficiente a recidere ogni legame con le psicoterapie, rigettate nell'inferno del pensiero magico o della pura e semplice manipolazione. Una posizione differente ha sempre tenuto, invece, Elisabeth Roudinesco (non senza contestazioni), la quale, pur non cedendo sull'irriducibile singolarità della psicanalisi, ha aperto ad una sua ricomprensione nell'ambito della “psichiatria dinamica” o “psicodinamica”, inteso come insieme delle correnti la cui pratica descrittiva e terapeutica fa intervenire «un trattamento psichico nel corso del quale si instaura una relazione transferenziale tra il terapeuta e il malato» (op. cit. p. 44), un trattamento operante attraverso lo scambio della parola come via d'accesso alla singolarità del paziente, e che accomuna, oltre che psicanalisi e psicoterapie, la psicologia clinica di ascendenza janettiana insegnata nelle università, e il versante “umanista” della psichiatria classica inaugurata dal trattamento morale pineliano. Questa ricomprensione della psicanalisi in un campo più vasto può sicuramente lasciar adito a dubbi, tenuto conto di una certa irriducibilità della psicanalisi ad una semplice tecnica di presa in carico della “sofferenza mentale”. La stessa Roudinesco ricorda come, per Freud lo psicanalista assomigli ad un “pastore d'anime secolare”, che «non potrebbe in nessun modo essere assimilato ad un terapeuta, e meno che mai ad un professionista della sanità-salute (santé)» (op. cit., p. 138). A questa posizione fa eco quella, più esplicita ma in fondo analoga, di Jacques-Alain Miller: ricordando che il termine di “esperienza” analitica, introdotto da Lacan in opposizione a “cura”, ha ormai preso piede ben aldilà degli ambienti lacaniani, Miller sostiene che «la psicanalisi non potrebbe più presentarsi come un mezzo terapeutico, essa tende in effetti a offrirsi come esperienza soggettiva, che va aldilà della terapeutica, che vi fa vivere in una dimensione singolare, provare sensazioni inedite, conoscere pensieri nuovi, scoprire o ritrovare verità che vi erano nascoste» (J.-A. Miller, L'avenir de la psychanalyse. Débat entre Daniel Widlöcher et Jacques-Alain Miller, animé par Bernard Granger le 1 juin 2002, Le Cavalier Bleu, Paris, 2004, p. 32). Infine, la singolarità della psicanalisi come esperienza singolare di trasformazione soggettiva è sostenuta da un critico della psicanalisi come erede genealogico della tecnica “confessionale” di costituzione-controllo della soggettività quale Michel Foucault: «Mi sembra che l'interesse e la forza delle analisi di Lacan stia precisamente in questo: Lacan è stato il solo dopo Freud a voler riorientare la questione della psicanalisi su questo problema dei rapporti tra soggetto e verità (...) Lacan ha cercato di porre una questione che è propriamente “spirituale”: quella del prezzo che il soggetto deve pagare per dire il vero, e quella dell'effetto che ha sul soggetto la possibilità di dire il vero su se stesso» (M. Foucault, citato in J. Lagrange, “Versions de la psychanalyse dans le texte de Foucault”, Psychanalyse à l'université, avril 1987, p. 279, e ripreso da Jean Allouch, La psychanalyse: une érotologie de passage, E.P.E.L, Paris, 1998, p. 170). Tuttavia, è da rilevare che Roudinesco non cerca di unificare il “Campo Psy” a partire dalla questione terapeutica (e a fortiori da quella “iatrica”), ma piuttosto a partire dall'accesso verbale e trasferenziale alla soggettività. Nulla dunque impedirebbe di ammettere finalità differenti per le pratiche interne ad un campo così definito, perché questi diversi scopi sarebbero tutti raggiungibili a partire dalla presa in carico del ruolo costitutivo di un rapporto strutturale ed ineliminabile tra la parola del “paziente” o “analizzante” e la costituzione soggettiva che si tratta di indagare, o su cui si tratta di intervenire. La soggettivazione come percorso singolare che imbrica strettamente l'espressione dotata di significato e gli affetti alla base della costituzione soggettiva sarebbe dunque ciò che, in modo più o meno radicale, si delineerebbe in tutte le pratiche interne al “campo psy” - il quale risulterebbe così caratterizzato da un criterio sufficiente ad opporlo a tutte le tendenze riduzioniste, comportamentali, neuronali, cognitive, farmacologiche, per le quali l'implicazione del soggetto nei suoi atti è negletta a profitto di una manipolazione diretta di nessi fenomenici “materiali”. Bisogna comunque sottolineare che Roudinesco, partigiana della natura in principio non-terapeutica dell'analisi, rileva tuttavia una contraddizione interna allo statuto dell'analista, poiché se, da un lato, la sua pratica d'esplorazione delle singolarità soggettive trascende ogni intenzionalità medica o terapeutica, dall'altro, nel momento in cui egli «tratta i suoi pazienti in una prospettiva psicopatologica, agisce come un terapeuta e la sua pratica rientra nell'ambito, almeno negli Stati democratici moderni, di una politica di sanità-salute (santé) pubblica» (ibid., pp. 138-139). La psicanalisi si troverebbe quindi un una posizione di extraterritorialità, o di atopia - esterna ed interna al tempo stesso, e ciò sia in rapporto alle politiche sanitarie di Stato, sia allo stesso “Campo Psy”. Essendo infatti orientata da un “ascolto” della parola soggettivata rispetto a cui ogni finalità terapeutica diviene contingente ed in un certo senso esteriore, l'analisi detiene in un certo senso le chiavi del Campo Psy nella sua totalità - non già perché ne deterrebbe la verità normativa, ma perché in essa, nella sua pratica della parola e del sintomo, tutte le altre pratiche “psy” potrebbero riflettere e problematizzare la presenza della soggettivazione al loro stesso interno, aldilà (e forse contro) delle finalità imposte a psichiatria, psicoterapia e psicologia clinica dal loro rapporto con istituzioni, discorsi, saperi, ideologie. E questa riproblematizzazione, la cui possibilità si è appunto aperta in seguito al movimento anti-emendamento Accoyer, potrebbe a sua volta contribuire a far sì che la psicanalisi stessa affronti le sue stesse “rimozioni” relative alla propria esistenza nella storia, e in seno alle relazioni di potere e sapere. Per Roudinesco, ad ogni modo, l'unità del “Campo psy”, è fondata nelle cose stesse, e non è solo l'effetto di un nemico comune. È tuttavia divenuto sempre più chiaro, nel corso di questo movimento di riproblematizzazione del campo, che tale “nemico” esiste, ed è a lui che si deve la riapertura del problema dell'unità - di diritto o di fatto, strutturale o congiunturale - del “campo” in questione. Ed è qui il secondo punto cruciale che emerge dalle vicende successive all'emendamento Accoyer: per individuare e comprendere le minacce cui erano sottoposti, i protagonisti di questo movimento “psy” hanno dovuto riaprire il problema dei rapporti, ben lungi dall'essere unicamente corporativi, tra il loro “campo” plurale e sfaccettato, e l'insieme di una realtà sociale e culturale che sembra essere vieppiù ostile ai presupposti stessi alla base della “psichiatria dinamica”. 

Il Manifesto psy mette infatti in luce come l'emendamento Accoyer non nasca dal nulla, o dal lobbying di psicanalisti ostili alle psicoterapie - semmai questo è un adattamento poco onorevole di alcuni analisti ad una situazione generale, che ci riporta di nuovo alle contraddizioni dello statuto della psicanalisi. Elisabeth Roudinesco si è infatti interrogata sulla virulenza dell'opposizione tra analisti e terapeuti, sfociata nell'accettazione del patto con il Ministro Mattei, e ne ha rintracciato le radici nelle ambiguità della definizione dello statuto istituzionale della psicanalisi già a partire da Freud. Come si sa, prendendo le difese dell'analista-non medico Theodor Reik, Freud ha stabilito il principio del carattere “laico” o “profano” della psicanalisi. Questa analisi “laica”, o “profana” (il termine originale è Laienanalyse, cioè letteralmente “analisi praticata da non-medici”) riguarda innanzitutto l'autorità medica, da cui Freud vuole salvaguardare la propria invenzione, e poi tutti i poteri e le istituzioni tradizionali. Come ricorda Roudinesco, «la psicanalisi può essere detta profana se praticata da amatori-dilettanti (amateurs) non appartenenti ad una corporazione professionale» (op. cit. p. 140). La stessa autrice ricorda che questa rivendicazione di extraterritorialità rispetto a professioni e discipline non va senza sollevare problemi: «Come può uno psicanalista restare un “dilettante” se ciascun terapeuta è assimilato, negli Stati democratici, ad un professionista della sanità-salute (santé)?» (ibidem). Sembra quindi che nella società contemporanea - e già in quella, abbastanza differente, in cui operava Freud - lo psicanalista fatichi a trovare una collocazione per difetto di specializzazione e professionalizzazione, ciò che ci riconduce alle posizioni citate di Miller, Foucault (e Lacan) - come infatti professionalizzare un'investigazione della soggettività umana che, in quanto tale, non ha altro fine all'infuori delle proprie libere esplorazioni? Da cui la volontà freudiana di mettere l'analisi al riparo dal potere medico, affinché essa potesse seguire unicamente i propri fini e le proprie leggi. In ciò, Freud si oppose esplicitamente ad Ernest Jones, il grande “istituzionalizzatore” della psicanalisi, il quale «penava che, sotto l'egida della medicina - disciplina regina - la psicanalisi avrebbe potuto assorbire tutte le altre terapie psichiche (psicologia, psicoterapia, psichiatria) (...) Freud, al contrario, temeva che questo infeudamento uccidesse l'essenza stessa della psicanalisi in quanto sistema di pensiero» (op. cit., p. 148) - considerando che negli Stati Uniti, ove le posizioni di Jones ebbero facilmente la meglio e la psicanalisi si installò come disciplina medico-psichiatrica, essa non tardò a divenire uno strumento di riadattamento alle condizioni sociali, per poi declinare soppiantata da tecniche di condizionamento più efficaci, non è difficile comprendere l'importanza delle resistenze di Freud alla medicalizzazione. Ma, secondo Roudinesco, la scelta freudiana non è esente da ambiguità. Infatti, pur ammettendo che, in quanto sistema teorico indipendente dalla cura (ricordiamo che per Freud l'analisi ha tre componenti relativamente indipendenti: il metodo di decifrazione dei sintomi, la dottrina dello psichismo, e la pratica terapeutica), essa potesse benissimo venir insegnata all'università affinché i suoi concetti potessero essere confrontati alle altre scienze e con ciò modificati per via puramente concettuale, «di contro, Freud riafferma che solo l'attraversamento della cura può assicurare la formazione clinica e didattica di uno psicanalista» (op. cit, p. 141). In altri termini, solo «gli psicanalisti formati in seno all'IPA, cioè secondo dei criteri definiti da un'istituzione privata autoreferenziata, sono abilitati ad insegnare la psicanalisi all'università. In altri termini, la laicità della psicanalisi, cioè la sua indipendenza nei confronti di qualsiasi potere - religioso, statale, medico, universitario - deriva, secondo lui, dal fatto che essa sia “esclusa dall'università”, poiché, dice Freud, ciò che ne ha prodotto l'organizzazione laica è questa stessa esclusione» (ibidem). Secondo Elisabeth Roudinesco, «se Freud aveva ragione nel preservare la formazione clinica degli psicanalisti da ogni forma di influenza religiosa, medica o statale, si è invece del tutto ingannato su ciò che sarebbe stato delle relazioni della psicanalisi (...) con l'università, da una parte, con le politiche sanitarie, dall'altra. Ciò dipende dal suo misconoscimento (...) dell'essenza stessa dell'università. Sorta dal grande modello europeo medievale, l'università, quale è stata ereditata dalla quasi totalità delle società democratiche moderne, si fonda su di un'esigenza unica secondo cui ciascun Stato deve riconoscerne incondizionatamente la libertà» (op. cit. p. 142). Sono pertanto le scuole di psicanalisi, organismi privati che si arrogano il diritto di disciplinare ed amministrare in modo esclusivo e per definizione non “pubblico” la scoperta freudiana, ad essere manchevoli rispetto a questo modello universitario-“europeo”: «Questo principio d'incondizionatezza è in contraddizione flagrante, non già con la disciplina freudiana in quanto sapere insegnabile secondo criteri “obiettivi”, ma con la concezione della laicità rivendicata dalle associazioni psicanalitiche. Queste ultime si sono in effetti sempre considerate come “proprietarie” del sapere freudiano e come uniche istanze abilitate a dirne la verità (...) Una tale concezione della laicità non ha, in effetti, nulla di “laico”. Poiché, se è certo legittimo che le associazioni psicanalitiche siano abilitate a formare liberamente dei terapeuti, secondo criteri definiti da esse stesse e esterni ad ogni influenza statale, è invece impensabile che possano proclamarsi detentrici esclusive di una disciplina che appartiene oramai all'umanità intera. Se la psicanalisi non è un sapere occulto il cui insegnamento dovrebbe essere riservato ad associazioni private, chiese, parrocchie o sette, essa diventa necessariamente una disciplina a tutti gli effetti. Di conseguenza, nulla si oppone a ciò, che essa venga insegnata all'università, in modo realmente laico, da insegnanti diplomati e non psicanalisti che vorrebbero farne un oggetto di studio e di ricerca (...). Ma in quanto sapere occulto, trasmesso da delle parrocchie, essa non potrebbe in alcun modo istituirsi in disciplina laica (nel senso della laicità universitaria)» (op. cit., pp. 142-143). In altri termini, secondo Roudinesco, la psicanalisi sarebbe divenuta «clericale, in virtù del suo infeudamento ad associazioni private», per eccesso di rivendicazione di “profanità”, ciò che l'avrebbe alienata dal “luogo” laico per eccellenza che è il sapere universitario: «Ed ecco perché esiste oggi un vero e proprio antagonismo tra l'università e le società psicanalitiche (...) I dipartimenti di psicologia clinica sono senza dubbio più “laici” delle parrocchie psicanalitiche» (op. cit., p. 143). Questa ricostruzione, di per sé di grande interesse, contiene anche diversi punti da cui è difficile sentirsi soddisfatti, in particolar modo per ciò che concerne l'esaltazione unilaterale ed iperbolica della “libertà” universitaria opposta in modo tanto tranchant alle “parrocchie”. Innanzitutto, la “libera” università è pur sempre tale finché esistono dei contropoteri tali da garantirle une certa extraterritorialità rispetto allo Stato, alle chiese, e agli interessi economici: questa indipendenza, in altri termini, non è un dato, ma una posta in gioco, e quindi un problema, o, se si vuole, l'esito di un rapporto di forze. Invocare la territorializzazione universitaria dell'analisi non risolve nulla se non si è specificato quali chance vi siano che, nelle società contemporanee, l'istituzione universitaria possa continuare a paragonarsi al “grande modello medievale europeo”. Purtroppo, il medioevo di modelli ne ha forniti parecchi, e reciprocamente contraddittori: in particolare in Italia sappiamo benissimo che l'università non è affatto al riparo dai reticolari privilegi “feudali” - “privati” quanti altri mai, per non dire strettamente familiari - ed è recente lo spettacolo di pubbliche autorità che non hanno esitato ad umiliare la libertà universitaria, accettando di buon grado di sottometterla ad un magistero religioso, per rafforzare la propria autorevolezza irrimediabilmente claudicante. In effetti, la realtà odierna dell'università in tutto il mondo offre ben poco spazio agli ideali che, secondo Freud, sono consustanziali alla psicanalisi; da un punto di vista affatto “francofrancese” quale è quello di Roudinesco, certe posizioni si comprendono forse meglio: in Francia, l'Università è di fatto un potere autonomo dotato di grande impatto culturale e politico in virtù dei mille canali che la legano al proprio esterno. E tuttavia, questa autonomia è pur sempre quella di un'istituzione di Stato, il cui compito è da più secoli la formazione di elite politiche ed intellettuali, e addirittura la surrogazione della religione tramite un magistero etico-pedagogico.

L'autonomia dell'università francese (di cui non si vorranno negare i benefici, specie oggi che sono in rapida fase di liquidazione) è quindi attraversata da una certa schizofrenia - che ha segnato e segna numerosi strati intellettuali nella storia nazionale - tra anticonformismo e disciplinamento, spirito istituzionale e libero pensiero, il tutto essendo un riflesso di una posizione quanto mai disagevole (e in fin dei conti tanto ossimorica dal risultare alla lunga insostenibile): quella del monopolio professionalizzato della funzione critica. Un modello scomodo, contraddittorio, difficilmente generalizzabile e largamente in crisi, che finora è stato incapace di rilanciare il proprio potenziale critico in modo non puramente reattivo (il che vale poi per molti ambitri in cui si darebbe un “modello francese”): difficile quindi vedervi un'alternativa senz'altro preferibile alla territorializzazione della psicanalisi nelle sue società e scuole “private”. Infine, c'è da dire che - anche astraendo dalla natura congiunturale del modello francese sotteso alle tesi di Roudinesco, e dai modelli molto meno nobili incarnati dalle università esistenti - il problema della compatibilità dell'analisi (intesa come indagine del rapporto tra soggetto e verità, o veridizione) con il modello disciplinare, specialistico e professionalizzato del sapere scientifico quale è proprio anche della più nobile tradizione universitaria, resta del tutto problematico. Un “pastore d'anime secolare” può diventare un professore - anche (o forse soprattutto) qualora il professore si voglia anche “educatore” e “guida”, cioè pastore d'anime “laico” nel senso della grande laicità pedagogica modello Terza Repubblica? È forse possibile ritenere che certe posizioni indulgano un po' troppo ad una lettura “radical-repubblicana” della psicanalisi, una lettura per cui l'“esperienza” di cui parlano Miller e Foucault viene inserita in una continuità un po' troppo facile con la liberazione illuministica dai pregiudizi, e quindi con tutta l'antropologia (e la forma di rapporti sociali) che sorreggeva tale nozione nei due secoli precedenti la scoperta di Freud. Insomma, se il rapporto tra soggetto e verità di cui è portatrice la psicanalisi è davvero così radicale, non si rischia di misconoscerlo ponendolo in una solidarietà così stretta con l'ideale pedagogico di un razionalismo “borghese” oggi del resto particolarmente inattuale? Un caposaldo dell'insegnamento di Lacan è che il “discorso dell'università” (intendendo “discorso” come “legame sociale”) è diverso da quello dell'analista. L'esistenza e il carattere benefico di un rapporto tra l'analisi e l'università non possono far dimenticare che il tipo di rapporto alla verità istituito dal sapere universitario non è - e si parli del migliore dei casi - identico a quello aperto da Freud. La capacità di trattare adeguatamente quest'ultimo non può quindi essere assegnata di diritto e senza riserve al primo, salvo rimettere nelle mani dei mandarins quello che si è tolto a toubibs e patrons. Tuttavia, non va misconosciuta l'importanza della diagnosi di Roudinesco sugli esiti dell'appropriazione privata dell'analisi ad opera delle scuole e delle società: «Man mano che sono scomparsi i grandi maestri, soli capaci di effettuare un rinnovamento della dottrina, le società psicanalitiche (...) si sono trasformate in corporazioni di practiciens. Di conseguenza, esse hanno smesso di essere quelle scuole socratiche di tipo “profano” in cui si trasmetteva, ad un'elite rinnovata, un sapere scientifico, filosofico e letterario di alto livello, per diventare progressivamente, e senza nemmeno rendersene conto, delle associazioni di professionisti della sanità. E tuttavia, come sottolinea Jacques Derida, la “situazione analitica nelle sue premesse minime”, dovrebbe restare “indifferente ad ogni preoccupazione di sanità-salute pubblica, o addirittura (...) ad ogni intenzione strettamente terapeutica, alla questione di una certa normalità soprannominata 'salute' (santé) in generale, prima di specificarsi in 'salute (santé) pubblica'”» (op. cit., p. 145; la citazione è tratta da J. Derrida, “Substitutions”, Toxicomanie et devenir de l'humanité, Odile Jacob, Paris, 2001). Dunque, gli psicanalisti “territorializzati” nelle scuole e società abbandonano l'intento freudiano e seguono piuttosto la via di Jones, consacrandosi «al regolamento delle condizioni sociali d'esercizio della psicanalisi» (p. 146), ma soprattutto accettando di entrare nella sfera delle professioni sanitarie, iatriche o terapeutiche. Ciò che, ricorda Roudinesco, gli psicoterapeuti avevano già accettato da tempo, e ne testimonia la loro richiesta di essere riconosciuti (e regolamentati) a livello statale.

La professionalizzazione-terapeutizzazione dell'analisi conduce quindi l'analista ad uno statuto di parità rispetto alle psicoterapie, ciò che molti psicanalisti manifestamente non tollerano - così come gli psicoterapeuti mal sopportano il presunto primato di una psicanalisi che sempre meno riesce a dar ragione del perché essa eccederebbe l'ambito delle psicoterapie. Questa è sicuramente una delle radici che hanno condotto gli analisti francesi al patto con il ministro della sanità a scapito degli psicoterapeuti - si tratta di un tentativo (secondo Roudinesco meschino e suicida) di lasciar stabilire dal potere statale una differenza, o un primato, dell'analisi che i suoi esponenti sono sempre meno in grado di far valere: tentativo suicida, appunto, perché il suo risultato è appunto una negazione dell'eccesso dell'analisi rispetto alle pratiche interne al controllo statale della salute pubblica, dunque una ri-medicalizzazione surrettizia dell'analisi stessa. È appunto questo il punto centrale dell'analisi di Roudinesco a proposito dell'evoluzione delle società psicanalitiche. Ansiose di legittimazione statale, esse finiscono per rientrare nelle strategie sanitarie di cui lo Stato moderno si vuole garante e titolare, in Francia, in America, e altrove; in tal modo, esse «hanno dichiarato fedeltà ai differenti sistemi statali o amministrativi che tentavano di ridurle a null'altro che corporazioni sanitarie in nome della “sicurizzazione” delle popolazioni» (op. cit., p. 147), finendo così per rinunciare ad ogni «tentativo politico di contestazione del bio-potere» (op. cit. p. 146). Qui è chiaro che il discorso di Roudinesco cambia registro. Dallo studio storico dello statuto della psicanalisi e del Campo Psy, al fine di spiegarne i rapporti conflittuali, si passa all'individuazione della nuova incarnazione del “nemico” - la medicalizzazione-statalizzazione - contro cui Freud aveva già cercato (in parte invano, come si è visto) di proteggere la sua invenzione. È infatti l'offensiva del potere medico e di quello statale a determinare la situazione cui, presi nelle proprie contraddizioni endogene, i differenti componenti del Campo Psy hanno risposto, dividendosi, o, al contrario, riconoscendo in qualche modo un'unità. E il tentativo di comprendere le implicazioni di questa offensiva ha dato luogo a percorsi di analisi sociale e politica di grande interesse. Cercheremo di ripercorrerne i punti salienti. 

Come ricorda il Manifesto psy, il 2 ottobre 2003, dunque prima dell'approvazione dell'emendamento Accoyer, un comunicato ufficiale del Ministero della Salute annunciava un “piano globale a riguardo della Sanità Mentale”, sulla base del rapporto del Dr. Philippe Cléry-Melin (sollecitato nel febbraio 2003 dal Ministro Mattei al fine di riorganizzare “l'offerta terapeutica” in psichiatria e sanità mentale e consegnato il 15 settembre), e che prevedeva una concertazione con i professionisti della psichiatria e le associazioni di malati e loro famigliari, ma non con i rappresentanti di psicanalisi, psicologia clinica, e psicoterapie. Il “piano d'azione” Cléry-Melin prevede che lo Stato intervenga, tramite valutazioni di esperti, ad impedire a terapeuti non diplomati di “nuocere” ai pazienti, di fatto interponendosi d'autorità tra il caso singolare del paziente ed il trattamento ad esso adeguato, tra la richiesta del paziente e la sua presa in carico terapeutica: è prevista l'istituzione di uno “psichiatra coordinatore” il cui compito è di sorveglianza ed expertise; spetta all'expertise di psichiatri o psicologi decidere quali terapie siano “scientifiche” (in prospettiva, solo queste ultime saranno coperte dall'assurance-maladie - ricordiamo che negli Stati Uniti, il crollo verticale del numero di analizzanti è seguito alla decisione delle compagine di assicurazione, all'inizio degli anni ottanta, di non coprire più le sedute psicanalitiche). Nel luglio 2003, l'Académie de médecine approva all'unanimità un Rapporto sulla pratica della psicoterapia, firmato da Pierre Pichot e Jean-François Allilaire (psichiatra farmacologo, coordinatore del Libro bianco della psichiatria apparso sempre nel 2003), che insiste sulla necessità di riservare in via di principio la psicoterapia ai medici, e di consentirla ai non-medici sotto la riserva di una rigorosa valutazione dei criteri di qualificazione. Infine, bisogna citare l'expertise collettiva, pubblicata nel febbraio 2004, ma richiesta già da Bernard Kouchner e da William Dab, direttore generale alla sanità dal 2003, che dichiara la superiorità, oggettivamente évaluée, delle terapie cognitivo-comportamentali (TCC) su tutte le pratiche psicodinamiche (in particolare, la psicanalisi). 

Tutto questo costituisce lo sfondo da cui nasce l'emendamento Accoyer: quello di una congiuntura in cui le pratiche “psicodinamiche” - fondate sulla parola del paziente e la singolarità, clinica ed esistenziale, del suo “caso” - sono considerate superflue o nocive all'edificazione di strategie “moderne” di Sanità mentale. La “sanità mentale”, secondo alcune analisi emerse in occasione e dall' interno del movimento “psy”, non sarebbe in effetti che l'incorporazione della sofferenza psichica ad un ideale medico propriamente igienista sorto nel XVIII secolo con la medicina di Stato (E. Roudinesco, op. cit., p. 25), guidata dall'imperativo di proteggere la salute collettiva della popolazione secondo criteri anonimi, statistici e predittivi. È questo imperativo di sicurezza collettiva che impone, da un lato, di standardizzare tramite decisioni statali sorrette da expertise i criteri di qualificazione terapeutica (sottraendo di fatto al paziente la titolarità della richiesta soggettiva al terapeuta, divenuta funzione anonima di competenza delle autorità); dall'altro, l'instaurazione di modelli terapeutici in cui la riduzione della deviazione in rapporto alla norma collettiva primeggia sulla singolarità vissuta del sintomo, e il criterio principale attraverso cui valutare l'efficacia terapeutica diventa la normalizzazione (o il vero e proprio riadattamento alle condizioni sociali), da realizzare in tempi brevi e a costi decrescenti. La medicalizzazione è quindi in effetti incorporazione ad una medicina misurata sui “grandi numeri” su cui valutare una popolazione in quanto forza produttiva e oggetto di controllo, cosicché la stessa “sanità mentale” diventa una tecnica di riadattamento delle condotte alle esigenze economiche e sociali. Ciò spiega la preferenza da parte di autorità ed esperti di gestione delle politiche sanitarie per terapie (comportamentali o farmacologiche) che intendono fare esplicitamente a meno dello “psichismo” o della soggettività (e tanto più dell'inconscio), per dedicarsi direttamente a cancellare gli scarti della condotta nel modo più rapido e redditizio possibile. Secondo il filosofo e analista Pierre-Henri Castel, «Il benessere psichico non è più una responsabilità privata, o, più esattamente, non è più una faccenda che l'individuo era indotto ad affrontare per conto proprio, e possibilmente con discrezione; esso è divenuto una questione sociale, o meglio, una faccenda in cui la collettività interviene ormai per cercare di regolare l'iniziativa individuale, dal lato dell'offerta terapeutica, ma anche, in modo più sottile, dal lato della domanda. Siamo ancora lontani dal prender le misure di un fenomeno che oltrepassa largamente la crescita del ricorso agli psicotropi, ai medicamenti della prestazione sessuale o professionale, e che ingloba progressivamente il trattamento “psy” di situazioni, non solo patologiche (i diversi traumi), ma, a titolo di controllo e di mediazione, sul lavoro, nel campo giudiziario, a scuola, ecc., e in un gran numero d'altre situazioni» (Pierre-Henri Castel, A quoi résiste la psychanalyse? Puf, Paris, 2006, p. 129). L'investimento del benessere psichico da parte di una politica che mira alla gestione diretta delle collettività spiega l'esigenza crescente di normazione, controllo e sicurizzazione di pratiche “psy”, lasciare le quali alla libertà della propria autoregolazione sarebbe in contrasto con l'imperativo della “cura” sistematica della popolazione estesa al livello stesso delle condotte quotidiane. Da qui la tendenza, di fatto obbligatoria e quasi spontanea, degli “psy” francesi a porsi il problema del ruolo e del significato delle loro pratiche nel contesto più ampio delle attività umane, insomma del senso letteralmente politico degli specifici modi di accesso alla soggettività che caratterizzano l'intero campo psy. Da questo punto di vista, l'Ecole de la Cause Freudienne guidata da Jacques-Alain Miller si è spinta più in là di ogni altro protagonista di questo processo di ristrutturazione conflittuale, attraverso un mix inedito di militantismo estremo, mobilitazioni a ripetizione, e interventismo nell'arena pubblica, da parte dei Forum Psy e delle altre iniziative legate all'ECF (Nouvel âne, Agence Lacanienne de Presse, rivista ufficiale La Cause Freudienne, e poi ancora gli opuscoli di Jean-Claude Milner, François Regnault, Elisabeth Roudinesco, Philippe Sollers, oltre che dello stesso Miller, pubblicati dall'editore-satellite Navarin - senza dimenticare la rinnovata vitalità dell'edizione di Lacan, cioè dei Seminari e di molti testi brevi rari o inediti, sapientemente riferiti da Miller all'attualità, l'espansione delle attività dell'AMP, l'“Internazionale” del lacanismo milleriano, e, hélas, l'appoggio di réseaux facenti capo a qualche vecchio arnese intellettual-mediatico della scena parigina, come Bernard-Henri Lévy e Philippe Sollers, in astinenza da buone cause da perorare, e soprattutto di credibilità residua). Tutto ciò - che costituisce un insieme abbastanza sconcertante per forme e contenuti - sembra (la prudenza è d'obbligo...) costituire ben più che una difesa corporativa della psicanalisi esistente, sia pure lacaniana, ed inscriversi invece in un progetto di trasformazione di quest'ultima - una trasformazione che, esplicitamente, ne segnerebbe bensì la morte, ma la morte sua propria, cioè quella incontrata sulla via della fedeltà alla radicalità del gesto freudiano, e non indotta dall'acquiescenza agli imperativi psico-igienisti delle società contemporanee. Anzi, la necessità di una morte dell'analisi deriverebbe appunto dall'esigenza di oltrepassare ciò che in essa vi è ancora di troppo legato ad una “messa in ordine” dell'omeostato sociale. In quale direzione ciò conduca, non è facile capire, e ciò per motivi intrinseci: sicuramente, nel discorso milleriano gioca un certo ruolo una nuova considerazione tattica delle terapie, e, pare, l'installazione di pratiche terapeutiche sul territorio urbano. Ma soprattutto, l'ECF sembra interessata ad una presa in carico del “sintomo sociale”, cioè a produrre un'analisi dei sintomi delle società contemporanee, dello scientismo riduzionista che attraversa i discorsi medici e “psy”, dell'ossessione gestionaria e sicuritaria, dei fantasmi di un'amministrazione e di un'igienizzazione totale. La psicanalisi come Kulturkritik sembra essere un esito quantomeno possibile di un processo di trasformazione che condurrebbe l'analisi a fare i conti con cosa ne è (e può essere) nell'attuale forma della “città degli uomini” della sua peculiare esperienza della soggettività. Bisogna dire che questa linea d'azione è spesso perseguita con un senso delle opportunità tattiche a volte sconvolgente: nel discorso di Miller - ostentatamente carico di riferimenti ad un'ideologia liberal-centrista e di ossequio iperbolico al cattolicesimo e all'ebraismo, il tutto in funzione antiscientista ed antistatalista - la “psicanalisi nella città” sembra a volte ridursi ad un utile instrumentum regni - solo l'analisi sarebbe in grado di evitare le catastrofi che il malessere delle società contemporanee non mancherà di produrre a causa del loro vuoto di senso (refrain diuturnamente ammannito, in Italia, dai portavoce del Vaticano): «No, i “30 000 psicoterapeuti che esercitano in Francia”, come si dice oggi, non sono assolutamente, in quanto tali, una minaccia. Al contrario, essi assicurano una funzione sociale eminente, benché non regolamentata. Rompete per decreto il bozzolo d'ascolto che avviluppa la società, il cuscino compassionevole su cui essa è seduta (...) sradicate la psicanalisi, rendete la vita impossibile agli psicoterapeuti, date il via libera al Padrone moderno che avanza nel frastuono dei suoi protocolli e delle sue accreditazioni (...) e vedrete come per miracolo ricomparire delle patologie scomparse, come le grandi epidemie isteriche, vedrete crescere le sette ed i maghi, che affonderanno le radici nelle profondità della società, e sfuggiranno tanto meglio alla vostra censura» (J.-A. Miller, “De l'utilité sociale de l'écoute”, in Ornicar?, cit., p. 377). In altri casi, il perno di questo divenire-politica dell'analisi sembra essere altrove, e precisamente nella dimensione di eccezione che la pratica psicanalitica permetterebbe di salvaguardare in società impaurite da ogni eccesso e anomalia, e volontariamente sottomesse ad una sicurizzazione livellatrice e paranoica, per cui degno di interesse è solo ciò che è obiettivabile, e quindi prevedibile o manipolabile: «Per quanto ciò possa sembrare sorprendente, in psicanalisi è ciò che dice il soggetto del proprio sintomo a costituire il sintomo stesso. In altri termini, a differenza del sintomo medico o psichiatrico, il sintomo in senso analitico non è obiettivo, e non può essere valutato dall'esterno; la stessa valutazione (évaluation) della guarigione è essa stessa tributaria della testimonianza del paziente. Siamo dunque a mille leghe dalla pratica medica contemporanea che tende sempre più a trascurare l'interrogazione del paziente per estrarre invece dal corpo un insieme di cifre. Fino al sorgere della psicanalisi, l'obiettivismo dei migliori psichiatri li conduceva peraltro a considerare le donne isteriche come simulatrici, e le loro malattie come immaginarie. Se il nome di Freud è restato nella memoria di tutti, è perché egli è stato il primo a superare gli ideali dello scientismo in cui si era formato, e a riconoscere, in termini, se non scientifici, almeno compatibili con la scienza, il reale singolare ed invisibile presente nella sofferenza dell'isterica» (J.-A. Miller, “De l'utilité sociale de l'écoute”, in Ornicar?, cit., p. 375). 

Questa politicizzazione è proseguita a livello teorico soprattutto nelle pagine della rivista La Cause freudienne, ogni numero della quale è ormai dal 2003 almeno in parte dedicato allo statuto politico-sociale dell'analisi e ai “sintomi” sociali contemporanei che solo quest'ultima, se rettamente intesa, sarebbe in grado di esplorare adeguatamente. In particolare, il fascicolo n. 57 intitolato “Politique Psy” (Navarin, Paris, 2004) è ricco di analisi e prese di posizione che è importante studiare davvicino. Nel primo articolo del volume, Eric Laurent rivendica, ad un tempo, l'importanza di un collegamento tra le istanze del Campo Psy e il posto eccezionale che vi occupa l'analisi: «È vero che lo psicanalista non è formato per essere psicoterapeuta. Lo è “in sovrappiù”. Non applica alcun protocollo standard mirante alla definizione di un metodo psicoterapeutico. Lo psicanalista, nel campo psy, può essere a buon diritto considerato come fuoricampo, pur essendo interno ad esso. Lacan, alla fine degli anni cinquanta, qualificava come “extraterritorialità” il posto dello psicanalista. È quindi in nome di questa extraterritorialità che certi colleghi duravan fatica all'idea di partecipare ad un Forum degli psy. Questa mi sembra una cattiva interpretazione del termine e del senso di questo attributo. Mi sembra che sia appunto in nome di tale extraterritorialità che lo psicanalista deve interessarsi a tutto il campo psy. L'extraterritorialità impone dei doveri, in particolare quello di interessarsi all'insieme del campo» (E. Laurent, “Nouveau régime du champ psy”, La Cause freudienne n. 57, cit., p. 11). È interessante il modo in cui Laurent legittima questo intervento paradossale della psicanalisi aldifuori delle mura delle sue associazioni e della sua pratica clinica: «L'extraterritorialità dello psicanalista (...) è ciò che gli permette di muoversi su tutta l'estensione del campo (...) La difficoltà di definizione del suo posto gli permette di sentirsi responsabile dei rimaneggiamenti che si producono nell'insieme del campo ogni volta che le norme sono rimesse in gioco. Lo psicanalista si autorizza, quindi, in nome del proprio fuori-luogo, ad un'ingerenza nel campo psy. (...) Questa ingerenza non è operata in nome di un significante-padrone (signifiant-maître). La psicanalisi non è la scienza totale (science toute) che verrebbe ad ordinare il campo. Lo psicanalista è piuttosto nel posto di un facilitatore che permette a ciascuno di situarsi negli effetti del rimaneggiamento delle norme. È anche colui che può aiutare a dire: no» (op. cit., p. 13). L'assenza di un significante-padrone significa, in lacanese, che l'atto, in questo caso di ingerenza, dello psicanalista, non si legittima a partire da alcuna istanza trascendente che ne garantirebbe la fondatezza, il senso, la coerenza o il successo. In ciò, esso si oppone ad un altro atto di ingerenza che, al contrario, si autorizza di credenziali dalla grande pretesa di solidità: «Dobbiamo ricorrere a questo diritto d'ingerenza nel momento in cui coloro che si occupano di noi sono disposti a formattare il campo psy secondo una messa a norma medica (mise aux normes médicales). Il medico psichiatra sarebbe, secondo l'emendamento Accoyer, colui il cui diritto d'ingerenza andrebbe da sé (...) lo psichiatra è definito come in posizione d'esteriorità. È colui che non è necessariamente formato nel campo psy. Sarà dunque tanto più in grado di valutarlo quanto più vi è estraneo (...) L'ingerenza psicanalitica non è di questo tipo superegoico. Essa mira a consentire a ciascuno di definire meglio il proprio posto e le proprie responsabilità, senza sostituirsi a nessuno: né ai poteri pubblici, né agli psicoterapeuti, né agli psichiatri, né agli psicologi clinici o ad altre professioni. L'ingerenza psicanalitica non è una volontà di conquista del campo psy. Essa si guarda bene dall'inventare nuovi imperativi. Lo psicanalista è (...) lo strumento necessario a far apparire le conseguenze funeste dell'évaluation generalizzata e della protocollizzazione del mondo» (op. cit., pp. 13-14). L'évaluation e il controllo medico-statale vorrebbero sottoporre le pratiche del campo psy alla garanzia di un'istanza superegoica tutta contemporanea - quella delle scienze esatte, dell'efficacia tecnica, della redditività rispetto agli imperativi economici, della sicurezza, e della presa in carico amministrativa ed “esperta” di tutti i dettagli del benessere individuale e collettivo. Al contrario, la psicanalisi tematizza, e pratica, un ricentramento di qualsiasi atto sulla sua dimensione scissa, rischiosa, non-garantita. C'è da chiedersi se però in tal modo il rifiuto di “inventare nuovi imperativi” sia ancora sostenibile: dopotutto, l'esigenza di lasciare uno spazio a ciò che sfugge a questi significanti-padroni contemporanei, e quindi di lottare contro “le conseguenze funeste dell'évaluation generalizzata e della protocollizzazione del mondo”, è una posizione valoriale, dunque un imperativo sui generis. È chiaro che questo tipo di imperativo contiene un potenziale di contestazione degli esiti normativi di tutte le posizioni di valore; ma allora di dovrà parlare di tensione tra questa dimensione “decostruttiva” della normatività propria alla posizione psicanalitica, e una dimensione invece valorial-normativa che l'analisi non può non aprire a se stessa nel momento in cui si voglia intervento nella “Città” e critica della civiltà contemporanea. Come giustificare, altrimenti, l'orrore di fronte al fatto che il sistema sanitario voglia «mettere in cifre l'aspetto relazionale, non-tecnico della medicina» (p. 18), che il mercato contribuisca «all'installazione di una clinica neo-igienista in venti sedute ed insegnata dalla psichiatria universitaria» (p. 16), o che, nel sistema sanitario americano, i sistemi di managed care abbiano «messo a punto degli algoritmi decisionali che dettano la lunghezza del soggiorno ospedaliero ed il trattamento (...) sistemi esperti diagnostici che si sostituiscono al medico per accelerare l'identificazione della malattia» (p. 19)? In altri termini, il valore della singolarità e dell'eccezione è un valore critico di tutti gli altri valori, ma un valore comunque: questa dimensione non può essere rimossa qualora si voglia farsene portavoce in un agone politico ossessionato dalla “sicurezza” e dalla “normalizzazione” - né si può, allora, misconoscere i rischi di moralizzazione della posizione psicanalitica nel momento in cui essa diventa denuncia di strategie politiche e norme sociali lesive di questa eccezionalità che costituisce la specifica “cura”, nel senso di Sorge, dell'atto analitico. 

È quindi molto difficile capire da quale posizione sia tenuto il discorso del potente articolo di Jacques-Alain Miller, “L'ère de l'homme sans qualités” (e questa difficoltà ne costituisce in larga parte il valore). Qui, la critica delle democrazie sicurizzate e amministrate contemporanee è raffinata e radicale: «La registrazione, cui sembra aderire come un sol uomo la maggioranza del Senato della Repubblica (...) s'inscrive chiaramente nello stesso contesto dell'ideologia dell'évaluation. Come quest'ultima, la registrazione ci mette sotto gli occhi il “divenire-unità contabile” del soggetto. Vi è un “divenire unità contabile” che va aldilà di Monsieur Mattei, del gruppo UMP al Senato, e altre eminenti personalità. Divenire unità contabile e comparabile, è la traduzione effettiva del dominio contemporaneo del significante-padrone sotto la sua forma più pura e più stupida: la cifra 1» (J.-A. Miller, “L'ère de l'homme sans qualités”, op. cit., pp. 74-75). Da qui, Miller prende le mosse per tratteggiare una genealogia di questo “divenir-contabile” che colpisce il soggetto contemporaneo, una genealogia debitrice dell'analitica del potere di Michel Foucault (che conta tra i maestri più o meno riconosciuti di Miller), e di una diagnosi “catastrofista” della tecnica, risalente senza dubbio ad un'ispirazione heideggeriana (ma mediata in grana molto più grossa dal filosofo-linguista Jean-Claude Milner, sodale di Miller negli anni Sessanta, all'epoca della comune militanza strutturalista e poi maoista, e oggi apocalittico “ateo devoto” fustigatore delle tendenze livellatrici delle società contemporanee): «Potrà non piacerci, ma il modo attuale, il modo contemporaneo di gestione della società, passa per la quantificazione, facendola regnare in modo esclusivo, poiché il discorso universale non ha altre qualità, altre identificazioni da proporre, che surclassino l'1 della messa-in-fila, l'1 che ci rende contabili e comparabili. Lacan ce l'ha annunciato: il significante-padrone è il significante del padrone, ma il padrone e lo schiavo sono categorie svanite dal discorso giuridico, e non sono ormai che ricordi (...) A tutti è imposto di esser registrati in prefettura. È il divenire-prefettura dello Stato. Allo stesso modo in cui, nel divenire unità contabile, appare l'essenza del significante-padrone che era in precedenza rivestito di splendidi paramenti, lo Stato denudato rivela ciò che era la sua matrice, come diceva Hegel, come è stato ripreso da Lacan: la police [termine che, come il tedesco Polizei, indica, oltre alla “polizia” in senso stretto, tutte le tattiche con cui lo Stato si prende cura di un territorio, di una popolazione che lo abita, e delle loro risorse A.C.]. Come il significante-padrone rivela la propria essenza nella cifra 1, lo Stato, dirigendoci a ranghi serrati verso le prefetture, ci indica ciò che fa, ciò che è, il supporto, il perno della sua struttura. Ne sono eccettuati i medici e gli psicologi, che sono già in un certo modo registrati, e si estenderà volentieri tale eccezione agli psicanalisti i cui nomi figureranno sugli annuari di associazioni analitiche (...) Il significante-padrone come unità contabile è ad un tempo il più stupido dei significanti-padroni mai apparsi sulla scena della Storia, il meno poetico, ma è anche - riconosciamolo - il più elaborato, poiché è appunto ripulito da ogni significato. Esso conduce a ciò che è a quanto pare una necessità delle società contemporanee che è lo stabilire delle liste (...) Servono delle liste, lo Stato deve metterci in lista: viaggiatori d'aereo o cartomanti, psicoterapeuti, è lo stesso principio. È appena cominciato e segnerà - scommettiamolo per ciò che potremo vederne - il XXI secolo, che sarà il secolo delle liste» (op. cit., p. 75). Ma si tratta ora di capire come questo significante-padrone abbia potuto estendere il proprio dominio: «Il processo più profondo, è la riduzione del significante-padrone all'osso dell'uno, a delle finalità che occorre isolare come tali, e che sono delle finalità di controllo (...) Il controllo, è la società a richiederlo (...) La società reclama dei controlli e vi è una dinamica del controllo. Essa reclama di sapere quali siano gli ingredienti degli alimenti che si ingeriscono. Cosa c'è di più legittimo? In questa inquietudine di ciascuno, il desiderio di controllo è là» (op. cit., p. 76). Vi è dunque un desiderio di controllo - trattandosi di un lacaniano che parla, è il termine “desiderio” a costituire la chiave per l'intelligibilità del discorso. Il desiderio di controllo, essendo un desiderio, non può che articolarsi in un défilé di significanti, e in essi trovare la propria mediazione. Infatti, il desiderio lacaniano è ciò che per il soggetto si innesca a partire dalla barratura del godimento (jouissance) eccessivo e “antiomeostatico”. I significanti deviano e differiscono la tensione verso questo godimento che il soggetto persegue aldilà delle proprie esigenze autoconservative; in questo senso, l'ordine significante è omeostatico, e obbedisce al principio di piacere. In altri termini, se vi è desiderio, è perché la jouissance è impossibile, e il principio di piacere ha trionfato di ogni esposizione del soggetto all'eccesso che ne minaccerebbe i limiti vitali. Dunque, una società soggetta al desiderio di controllo (desiderio che appunto si articola sottoforma di significanti-cifre il cui “padrone” è 1) è una società che rifugge dall'eccesso della jouissance, che cerca di impedirsi ogni s-regolamento. Si tratta quindi di una società dominata dalla paura: «Ci siamo (...) Noi entriamo, all'inizio del 2004, nel XXI secolo, nell'epoca della sorveglianza. Non è certo che sia un “sorvegliare e punire”, ma è una società in cui la parola d'ordine è “sorvegliare e prevenire”. Siamo nell'epoca della prevenzione: sanitaria ed anche guerresca. Far la guerra ad un paese prima che lui la muova a voi è nello stesso spirito di cercar di individuare (dépister, che ha significato di “dar la caccia”, “scovare” A.C.) la malattia mentale prima che si sia manifestata. I fatti che si accumulano dall'inizio di questo secolo ci indicano che un grande capitolo delle grandi paure del XXI secolo ha iniziato a scriversi. La paura degli psicoterapeuti è, in confronto, una piccola paura (...) Ciò che l'eminente sociologo tedesco Ulrich Beck chiama gentilmente la società del rischio è la società della paura. Il soggetto, all'inizio del ventunesimo secolo, è in pericolo. Mangiare, respirare, spostarsi, farsi curare, tutto ciò si fa sotto l'egida del pericolo e delle precauzioni da prendere. Si presentano richieste, almeno in Francia, ma più generalmente allo Stato, che non è più lo Stato-provvidenza (Etat-providence, cioè welfare State A.C.) di prima, lo Stato materno, uno Stato cui si richiede di restringersi ai suoi compiti specifici. È l'idea dello Stato stratega. E qual è il compito proprio e fondamentale dello Stato? La polizia. Quindi, si richiede uno Stato poliziotto. La società esperisce se stessa come in pericolo. Udiamo, in forme differenti, un “SOS società” (...) Stiamo per diventare delle società della paura e del panico. Io cerco di costruire su questo affinché noi conserviamo (...) un certo sapere della configurazione in cui siamo entrati, e che tale o talaltra iniziativa possa deviare o ritardare il processo (...) Carl Schmitt (...) aveva ben individuato nella storia la funzione di ciò che chiamava “il ritardatore”, colui che riesce a ritardare dei processi inevitabili. Quando si ritarda, si guadagna del tempo; altri fattori possono entrare in gioco, e la fatalità può essere dunque aggirata» (op. cit., p. 78). Sembrerebbe dunque che alla psicanalisi, in quanto essa si prolunga nel sapere relativo a questi fenomeni sociali (cui essa ha accesso in virtù del loro sorreggersi su dinamiche di desiderio), assuma addirittura un ruolo nella storia sacra: il katechon di cui parla Schmitt non è altro infatti che la funzione di trattenere il trionfo definitivo del male immediatamente precedente la fine dei tempi. Miller è ovviamente attento a non assumere fino in fondo le implicazioni di questa figura schmittiana - per lui, il “ritardo” può servire a far deviare il corso della storia. In ogni caso, è chiaro che la psicanalisi deve qui misurarsi con le tendenze profonde della civiltà alle prese con il proprio persistente Unbehagen. Piaccia o no a quanti vorrebbero una ridefinizione più sobria del ruolo della psicanalisi, questo gesto è in fin dei conti piuttosto freudiano, se pensiamo a testi come Il Disagio della civiltà... Restiamo però alle tesi di Miller relative alla società contemporanea. Si tratta sempre di capire come i significanti destinati ad allontanare il rischio dell'eccesso siano diventati i significanti anonimi delle marche di controllo, le cifre e le liste. Miller abbozza una sua personale dialettica dell'Illuminismo, che inizia dalla scoperta, con Montaigne e poi nel XVIII secolo, della relatività dei costumi e delle credenze umane - ciò che costituisce già una dissoluzione dei significanti-padroni religiosi o metafisici: «Nel XVIII secolo, l'accumulazione di dati comparativi introdusse un atteggiamento ironico, in definitiva molto socratico e, si può dire, molto psicanalitico. Era un modo di distaccarsi da quelle identificazioni [ad usi e credenze] e di apprendere che (...) non c'è solo il nostro modo di fare. Questo approccio aveva un effetto dissolutorio su tutto l'immaginario che circondava i significanti-padroni. Voi siete cristiani, ma altri sono musulmani, altri riveriscono gli animali. La sostanza immaginaria, la carne immaginaria del significare-padrone, nel XVIII secolo (...) cadeva a lembi. Questo momento di sì deliziosa ironia, che io amo ripetere a misura delle mie forze, è anche una tappa nel processo che va verso la semplificazione del significante-padrone. Lo scheletro appare: è la cifra 1. l'ironia dissolvente dei Lumi è un momento del processo storico che conduce al momento attuale in cui regna l'invincibile 1» (op. cit. pp. 79-80). Privato delle sue identificazioni immaginarie, l'uomo si scopre essere solo un atomo, un “ognuno” membro anonimo di una molteplicità omogenea, non più definita da credenze, riti, costumi, ecc., ma solo dai dati ricavabili dalla sua stessa natura di pluralità. È su questi dati che il XIX secolo costruirà dei saperi appositi, e delle strategie di potere conformi: qui il lavoro di Miller è una poderosa ripresa dell'intreccio tra critica dei poteri e storia delle scienze proprio dell'epistemologia storica francese, cui Foucault appartiene in qualche misura, e di cui un “grande nome” è Georges Canguilhem, maestro sia dello stesso Foucault che del giovane strutturalista normalien Jacques-Alain Miller. La posterità di questa corrente francese di filosofia universitaria sta molto meno nei brandelli di filosofie della scienza accademiche (ormai peraltro egemonizzate dal neopositivismo, dalla filosofia del linguaggio o dal cognitivismo ) che in imprese teoriche in eccesso sullo stesso campo dell'epistemologia (i Foucault, Deleuze, Althusser, fino appunto allo stesso Miller). Ed è appunto il nuovo ruolo storico delle scienze nel XIX secolo a trasformare il significato del “denudamento” illuminista delle molteplicità umane: «Non è più l'ironia, ma, se vogliamo, il progresso dello spirito scientifico ad avanzare su questi dati, cercando e costruendo delle regolarità (...) Vi sono delle regolarità che riguardano le nascite, le morti, i matrimoni, i crimini. Vi sono regolarità sociali, dei patterns, delle configurazioni regolari, e queste regolarità hanno invitato a cercare delle leggi nell'universo sociale. È ciò che Montesquieu ha abbozzato con spirito, e che si è iniziato ad affrontare con i mezzi della quantificazione, con la convinzione che vi fosse un sapere inscritto nel sociale, e dunque che il sociale fosse un reale allo stesso titolo del reale fisico» (op. cit., p. 80). Che il sociale sia governato da leggi scientifiche è un'idea la cui genealogia risulta ramificata e complessa: «Bisognerebbe attribuire un ruolo speciale all'economia politica, già nel XVIII secolo, allo spirito scozzese. Vi sono certamente delle cose da trovare in Adam Ferguson e nella scuola scozzese, ma è all'inizio del XIX secolo ed a partire dal momento in cui la rivoluzione industriale opera un sensazionale trasferimento di popolazione dalla campagna verso le città che disporre di informazioni statistiche sulla popolazione diventa un imperativo sociale. Marx ha descritto questo spostamento dalla campagna alla città in modo sensazionale, poetico. Questa descrizione è stata un po' rimaneggiata dagli storici, ma, nelle sue grandi linee, resta molto fondata: il processo delle enclosures o closures. Si accumula nelle città una popolazione nuova, salariata, impoverita, e che costituisce un rischio sociale. Sono immigrati interni. Questi immigrati, che noi vediamo qui con terrore arrivare dagli sbocchi mediterranei dell'Europa, venivano all'epoca dalle campagne. Le invasioni di immigrati erano le invasioni di rurali che si accumulavano nelle città. Ciò ha provocato un movimento epistemico, il desiderio di disporre di informazioni quantitative sulla società e su ciò che si è preso a chiamare “popolazione”» (ibidem). Il ritorno del termine “desiderio” in questa ricostruzione storica (in cui ognuno puo' vedere in filigrana le ossessioni delle società odierne...) non deve essere considerato casuale: questo desiderio di sapere (Foucault avrebbe detto “volontà di sapere”) si articola al desiderio di controllo, cioè alla volontà, o alla pulsione, diretta alla riduzione dei rischi. Un impulso al sapere si costruisce sull'esigenza di controllare una popolazione povera e “straniera” che genera paura ed inquietudine, e questa paura alimenta l'impulso conoscitivo rivolto ai dati che permetterebbero di controllare questa entità minacciosa e proliferante: «Si constata lungo tutta la prima metà del XIX secolo l'accumulazione di dati quantitativi. Vi è una vera passione per questa raccolta, giustappunto perché vi è stata rottura e ricomposizione del legame sociale, e questa rottura e questa ricomposizione si sono tradotte in un pericolo per la stabilità sociale, un pericolo per la sicurezza - e tutta la prima metà del XIX secolo è occupata dal modo in cui è possibile assicurare la sicurezza - e anche un pericolo sanitario (...) questo periodo dell'inizio del XIX secolo è segnato dalla volontà di quantificare tutto, misurare tutto, sapere tutto, sotto lo sprone del pericolo. Siamo allo stesso punto. Riviviamo l'inizio del XIX secolo con i mezzi del XXI» (op. cit., p. 82). Si potrebbe chiedere cosa, oggi, produca la stessa accumulazione di passioni come paura e panico tipica del XIX secolo: una trasformazione nel regime capitalistico d'accumulazione, probabilmente, che scatena ineguaglianze ingovernabili, o l'esigenza di rimuovere un periodo di sovversione sociale (gli anni sessanta e settanta) e di assicurare ossessivamente l'omeostasi di un corpo sociale trasparente e ben governato, o tutte e due le cose insieme. Quello che è certo è l'importanza di questa analogia storica tratteggiata da Miller. I saperi sul “corpo sociale” nati da questo impulso alla sicurizzazione conducono all'inserimento di tutta la vita umana individuale e collettiva nella griglia della cifra 1; in tal modo, le vecchie forme di esercizio e legittimazione del potere tendono ad essere sostituite dalla neutralità di una gestine i cui criteri sono apparentemente fondati sulla spontaneità delle “cose stesse”: «La popolazione non è il popolo. Il popolo, che è stato evocato nella Rivoluzione francese come principio di sovranità, è un significante-padrone. La popolazione, è un'altra cosa. Sono dei corpi, che stanno là, un aggregato di corpi che nascono, vivono, s'accoppiano e muoiono, e eventualmente si aggrediscono gli uni con gli altri (...) Da un lato si ha, nel XIX secolo, una sociologia che ha preso come principio le norme e le istituzioni, le rappresentazioni collettive, quali si impongono (...) ad una popolazione data (...) Ma c'è un'altra sociologia, quella che trionfa nell'epidemiologia nel campo della sanità mentale, che non parte dall'alto, ma dal basso (...) dalle azioni individuali e dalla moltitudine variopinta di queste azioni individuali, e considera che le norme e le istituzioni risultino da questa moltitudine di azioni individuali, e cerca quindi, tramite il calcolo statistico, ad isolare delle regolarità, partendo in effetti dal quantitativo. Il primo approccio parte dal contenuto significativo, mentre il secondo parte dal quantitativo» (op. cit., p. 81). Nel primo caso, la deviazione dalla norma è vista come l'infrazione di una legge, nel secondo come uno scarto per eccesso o difetto da una media. In questo modo, dalla considerazione della società sono evacuati tutti i problemi dell'atto, della decisione, del conflitto di valori, e ciò tanto in direzione del “popolo” che dell'istanza sovrana, per lasciare solo un dispositivo automatico di autoregolazione che genera ordine a partire dalla propria stessa molteplicità omogenea, e su cui lo Stato può intervenire assicurando quelle condizioni di omogeneità e uniformità che permettono agli individui e alle azioni di sommarsi come unità, e all'ordine di sorgere spontaneamente (tutti temi, peraltro, trattati da Foucault nel corso al Collège de France del 1979-80). Questo dispositivo di sicurizzazione realizza quindi una perfetta circolarità: l'omeostasi nasce dai movimenti del corpo sociale, ma a condizione che questi siano stati messi in condizione di produrre omeostasi, cioè siano stati “formattati” in modo da escludere le eccezioni se non come deviazioni statistiche. In tal modo, l'intervento statale può apparire come risposta ad un'esigenza endogena del corpo sociale, che è però stato già messo in condizione di non avere altre esigenze all'infuori di quelle soddisfacibili da provvedimenti di ulteriore sicurizzazione. La sicurizzazione genera desiderio di sicurezza, e quest'ultimo richiede sempre più interventi sicurizzanti. 

Questa ricostruzione genealogica delle attuali politiche sanitarie, e quindi anche dei provvedimenti che colpiscono (e strutturano) la condizione del campo psy, serve a Miller per situare ancora una volta la singolarità, l'eccezione, della psicanalisi: «La psicanalisi è apparsa all'epoca dell'uomo senza qualità, e noi non siamo usciti da quell'epoca. Noi vi entriamo più che mai, decisamente (...) è senza dubbio perché la pressione dei grandi numeri, l'emergenza dell'uomo senza qualità, è risultata insopportabile che la psicanalisi ha preso in carico la clinica, l'arte dell'uno per uno. Essa ha preso in carico non già l'uno per uno dell'enumerabile, ma la restituzione dell'unico nella sua singolarità, nell'incomparabile. È il valore profetico, poetico, della raccomandazione tecnica di Freud, secondo cui occorre ascoltare ogni paziente come se fosse la prima volta, dimenticando l'esperienza acquisita, cioè senza compararlo e senza pensare che alcuna parola uscita dalla sua bocca abbia lo stesso uso di quella di un altro, e nemmeno della sua propria, e quindi installarsi nell'esperienza analitica nell'estraneità dell'unico» (op. cit., p. 88). La psicanalisi sembra quindi essere, per la stessa natura della sua pratica - fondata sull'“uno per uno” clinico, e su una clinica di sole eccezioni - in contrasto irriducibile con le pratiche di sicurizzazione che governano il modo di considerazione degli esseri umani proprio del mondo contemporaneo. 

Occorre decifrare attentamente questo passo di Miller: egli aggiunge esplicitamente (ed oppone implicitamente) questo legame conflittuale tra psicanalisi, da un lato, e riduzione del singolo a “cifra 1”, o dell'essere umano a oggetto di gestione e calcolo, dall'altro, ad una frase di Lacan che asseriva la psicanalisi essere nata grazie alla regina Vittoria, cioè come ascolto del rifiuto soggettivo (da parte delle isteriche) di norme sessuali oppressive. Secondo Miller, l'analisi non nasce dall'insopportabilità della Legge repressiva e punitiva, ma dall'insensatezza soggettiva delle pratiche di controllo della popolazione, che ci fanno tutti oggetto di una gestione normalizzante ed apparentemente endogena, spontaneamente generata dai nostri stessi atti, una volta che si siano coerentemente standardizzati, quindi senza esteriorità né contestazione possibile. In un mondo in cui tutto tende a prevenire gli scarti, le anomalie, le deviazioni, l'analisi ricorda invece che l'uomo si inganna radicalmente su cio' che é bene per lui, e quindi sul contenuto del suo desiderio; che il dispositivo più accurato e capillare di sicurizzazione non puo' evitare l'erranza impostagli dalla sua stessa divisione; che il sintomo é, non solo singolare e refrattario all'1, ma soprattutto radicalmente irriducibile ai fantasmi di padronanza e prevenzione che dominano il discorso sociale. La psicanalisi svolge un ruolo pubblico come testimonianza dell'ineliminabilità di un certo non-sapere, come luogo in cui trovi voce l'inquietante circostanza per cui le nostre strategie, i nostri desideri, le nostre idee di benessere, non possono mai comporsi in una totalità pacificata, regolata, sicurizzata, cioé non possono mai coincidere con se stessi nella trasparenza dell'azione a se stessa. L'analisi ritrova dunque un senso, e una sorta di territorializzazione, nell'aprire uno spazio di accoglienza all'eccezione permanente costituita dal sintomo, cioè in ultima istanza da ciò che i lacaniani chiamano, con grande ambiguità, il “soggetto”. Non è difficile, stando a quanto detto prima, comprendere che questo ruolo di opposizione all'universale controllo sicurizzante è un destino che, grazie alla psicanalisi opportunamente fatta conscia del suo statuto, può toccare in sorte all'intero campo psy: esso sarebbe il luogo della protesta implicita o esplicita contro l'universale estensione delle pratiche di controllo. Ma anche questa strategia presenta dei lati oscuri, come quella, in verità meno ambiziosa, di Roudinesco. Aldilà dell'indubbia forza e pertinenza delle operazioni critiche, ci si può chiedere se, in fondo, questa psicanalisi trasformatasi in “ritardatore” del controllo universale, in pietra d'inciampo sulla strada del destino totalitario dell'“uomo senza qualità”, non finisca, com'era il caso per la sua mutazione in disciplina universitaria sostenuta da Roudinesco, per chiudere troppo in fretta il problema aperto dall'affermazione della sua singolarità. Cosa impedisce infatti al discorso milleriano di ricadere nella predica morale, nel filosofeggiare apocalittico quasi-spengleriano, nella lamentatio reazionaria contro tecnica, Illuminismo e democrazia, o, peggio di tutto il resto, in una variante del più trito umanesimo personalistico? Naturalmente, qui svolgiamo un ruolo di avvocato del diavolo, non potendo peraltro parlare dei destini del campo psy in altro modo che dall'esterno: ovviamente, siamo convinti che, tanto il discorso esplicito di Miller e dei suoi seguaci, quanto, e più, le risorse della concettualità lacaniana, contengano buoni anticorpi alle derive cui si espone una psicanalisi in qualsivoglia modo engagée sul piano delle diagnosi storiche e della critica delle ideologie e dei sistemi di potere. Su questo però sarà opportuno tornare più dettagliatamente in un'altra, eventuale, occasione: poiché la questione non può nemmeno essere affrontata senza un'analisi delle nozioni di soggetto e singolarità che la psicanalisi (o tutta la psichiatria dinamica, cioè il campo psy) dovrebbe opporre all'“uomo senza qualità” formattato e assoggettato dalle politiche di igiene pubblica, specialmente mentale, e dall'azione dello Stato-sicurezza. Qui sarà sufficiente limitarsi all'aver esposto una situazione critica, ma estremamente feconda, che non può non coinvolgere tutti coloro che lavorano in una prospettiva critica nell'ambito sorto dalla lunga e complessa storia della psichiatria dinamica. 

Parigi, maggio 2008

> Lascia un commento


Totale visualizzazioni: 3207