Lezione 5 Gli Studi sull'Isteria - 3

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L’altro caso è quello di Emmy Von N. Già con il caso di Anna O, Freud aveva trovato prove per questi aspetti della sua teoria:

  1. nella sintomatologia isterica c’è “sotto” qualcosa

  2. questo qualcosa era evidenziabile tramite ipnosi

  3. questo qualcosa aveva una valenza narrativa: si poteva raccontare; e se qualcosa che sta sotto i sintomi si può raccontare, ciò significa che la cura con le parole ha un senso. Non ha senso fare la psicoterapia per una frattura ossea, non c’è niente di narrabile che la risolva; si può raccontare che è caduto un peso addosso, ma il fatto in sé del sintomo non ha narrativa che c’entri con la terapia.

 

Il riconoscimento del ruolo della sessualità è ancora lontano. Come ho detto, il motivo per cui Breuer abbandonò il caso di Anna O., fu perché si vide coinvolto in un tentativo di seduzione e ne fu spaventato. Il sesso era molto difficile da avvicinare; occorre contestualizzare la cosa rispetto alla cultura di allora.

Un altro punto che conviene illustrare è l’abbandono dell’ipnosi. L’ipnosi comporta un passaggio, ad un altro stato di coscienza, che non è completamente sotto il controllo dell’Io. Freud sostiene questo principio: dove c’era l’Es, là deve esserci l’Io. La psicoanalisi comincia là dove viene abbandonata l’ipnosi. Ma in che modo allora si può far emergere l’inconscio? L’innovazione tecnica è fondata sull’interpretazione dei sogni e sull’associazione libera. L’interpretazione dei sogni consente d’entrare in contatto con frammenti d’inconscio altrimenti percepibili e non conoscibile.

 



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Emma von N è la prima paziente di Freud.

Signora Emmy Von N., quarantenne, della Livonia

1° Maggio 1899. Trovo una donna di aspetto ancora giovanile, sdraiata sul divano, la testa appoggiata su un cuscino di cuoio. Il suo volto ha un’espressione tesa, dolorosa, le palpebre socchiuse, lo sguardo rivolto al basso, la fronte fortemente corrugata, i solchi nasolabiali scavati. Parla come a fatica, a voce bassa, interrotta ogni tanto da inceppamenti spastici dell’eloquio fino al balbettio. Tiene incrociate le dita, che mostrano una continua irrequietudine di tipo atetosico. Frequenti movimenti improvvisi, convulsi, come dei tic, nel volto e nei muscoli del collo; alcuni muscoli, specialmente lo sternocleidomastoideo destro, hanno un particolare rilievo. Inoltre, s’interrompe spesso nel parlare per emettere uno strano schiocco che non riesco da imitare.

Ciò che dice è del tutto coerente e dimostra chiaramente cultura e intelligenza non comuni. Tanto più sorprende il fatto che ogni pochi minuti, essa tronchi repentinamente il discorso, contraendo il volto in un’espressione di orrore e ripugnanza, e tenda verso di me la mano, stendendo e contraendo le dita, mentre con voce cambiata e angosciata esclama: “Stia zitto! non parli! non mi tocchi!” Essa verosimilmente si trova sotto l’impressione di una allucinazione terrificante ricorrente e si difende con questa formula contro l’intromettersi di materiale estraneo. Questo intercalare termina poi repentinamente come era cominciato e l’ammalata prosegue nel suo discorso senza manifestare l’eccitazione di poco prima, senza spiegare il proprio comportamento e senza scusarlo, quindi probabilmente senza essersi affatto accorta dell’interruzione.

Della sua situazione vengo a sapere quanto segue: la sua famiglia, oriunda della Germania centrale, risiede da due generazioni nelle province russe del Baltico, dove possiede molte terre. È la tredicesima di quattordici figli, di cui però soltanto quattro sono ancora in vita. Era stata educata da una madre severa, ultraenergica, con molta cura ma anche con molte costrizioni. A ventitré anni aveva sposato un uomo molto dotato e abile, che come grande industriale si era conquistata una posizione eminente, ma che era molto più anziano di lei.

In questi passaggi si ritrovano elementi descrittivi quali la fronte corrugata, le palpebre socchiuse, ecc. Si tratta di una modalità descrittiva di stampo francese sul modello, principalmente, di Balzac e di Stendhal. Nella letteratura russa questo non esisteva: in Dostoevskij, l’attenzione era rivolta non tanto alla fronte corrugata quanto a ciò che ci stava dietro. Freud cita poco i filosofi, ma sono da lui molto citati tutti i narratori.

Tornando al caso di Emma Von N, occorre precisare che si tratta, come Anna O, di una persona di alto livello sociale.

Dopo pochi anni di matrimonio egli era morto repentinamente di attacco cardiaco. A questo evento, oltre che alla educazione delle sue due figlie, attualmente di sedici e quattordici anni, spesso malate e affette da disturbi nervosi, essa attribuisce l’origine della propria malattia. Dopo la morte del marito, avvenuta quattordici anni prima, essa era sempre stata ammalata più o meno gravemente. Quattro anni prima una cura di massaggi unitamente a bagni elettrici le aveva portato temporaneo sollievo; per il resto, tutti i suoi sforzi di recuperare la salute erano rimasti senza successo. Ha viaggiato molto, e ha molti vivi interessi. Attualmente abita in una sua proprietà sul Baltico nelle vicinanze di una grande città. Nuovamente molto sofferente da mesi, turbata e insonne, tormentata da dolori, ha cercato invano miglioramento ad Abbazia; da sei mesi è a Vienna, finora in cura presso un medico esimio. [O.S.F., Vol. 1, pag. 213, 214]

Emma va a Vienna per farsi curare una malattia, contatta un illustre medico, non sappiamo chi sia, che la manda da Freud.

Il quadro è quello di una grande isteria. Oggi simili quadri sintomatologici sono di rara osservazione, in quanto tranciati dalla terminologia “eccitamento psicomotorio”. In Freud esiste una grande capacità descrittiva: non dimentichiamo che Freud vinse il premio letterario intitolato a Goethe, lo stesso che fu assegnato anche a Thomas Mann. Se ci fermassimo alla definizione “eccitamento psicomotorio”, la terapia si ridurrebbe alla somministrazione di un antipsicotico, ad esempio un butirrofenone, e si perderebbe tutto. Oggi il termine di isteria viene riservato a qualche disturbo di conversione e ad alcune personalità istrioniche, ma un quadro di questo genere sarebbe attribuito ad una psicosi.

Essa si presta in modo eccellente all’ipnosi.

Siamo ancora nel mondo arcaico dell’ipnosi.

Alzo un dito davanti a lei, le ordino: “Dorma!”, e si accascia con un’espressione d’intontimento e confusione. Suggerisco sonno, miglioramento di tutti i sintomi ecc., ed essa ascolta a occhi chiusi ma con evidente attenzione tesa, mentre l’espressione del suo volto gradualmente si distende assumendo un aspetto pacato.

C’è l’ipnosi, però compare l’importanza della parola: la paziente ha piacere che Freud parli. Egli si accorge che, pur nello stato ipnotico, si evidenzia l’attenzione a quel che viene detto; non il contenuto, in verità, ma il tono della voce.

Dopo questa prima ipnosi rimane un oscuro ricordo delle mie parole; già dopo la seconda, si verifica un perfetto sonnambulismo (amnesia). Le avevo annunciato che l’avrei ipnotizzata, e aveva acconsentito senza opposizione. Non era mai stata ipnotizzata prima, ma mi è lecito supporre che abbia letto qualcosa sull’ipnosi, benché non sappia quale idea abbia dello stato ipnotico. [Ibidem, pag. 215]

Ancora siamo dentro l’ipnosi; il passo successivo sarà con il caso di Caterina con cui Freud esce dall’ipnosi ed entra nella cura narrativa, ossia nella narrazione fatta a due mani tra la paziente e il terapeuta.

Nell’ipnosi chiedo di altre sue esperienze di spavento duraturo. Ella ne narra una seconda serie analoga alla prima, riguardante la sua giovinezza più avanzata, con altrettanta prontezza della volta precedente, assicurandomi di nuovo di vedere spesso davanti a sé quelle scene vivacemente e a colori. Narra di quando (a quindici anni) aveva visto condurre sua cugina in manicomio; aveva voluto gridare aiuto, ma non poté e perdette la parola fino alla sera di quel giorno.

Qui la narrativa prende campo, è la prima volta che la scienza medica diventa più scorrevole, si direbbe, scusate il termine, più “democratica”: un racconto delle cose in cui il paziente trova ampio spazio. Il lasciare raccontare le cose nasce così. Ricordiamo la pazzia di re Giorgio: il sovrano fu affetto da porfiria acuta intermittente: entrava in fase di eccitamento e poi in stato confusionale. Un re che entra in fase di eccitamento e poi confusionale, nell’epoca dei sovrani assoluti, è un evento difficilmente tollerabile. Il suo servo riferì al medico una sua osservazione (il suo medico per inciso era un grande medico, Willis, che scoprì la circolazione cerebrale e diede il nome al “circolo di Willis” alla base della scatola cranica); il servo, dunque, disse “guardate che ho visto che le urine erano azzurre, e quando sono diventate gialle lui è stato meglio”. Il medico lo zittì: la scienza medica che egli possedeva non poteva confrontarsi con l’esperienza di un servo. Finì, così, per perdere l’occasione di cogliere l’elemento fondamentale della malattia, ossia che le porfirine, ossidandosi nelle urine, diventano azzurre quando l’organismo le emette; quando cessa di emetterle, le urine ridiventano gialle, e il paziente sta meglio. La teoria si fonda sull’osservazione, e non viceversa; e così fa Freud nella psichiatria, dove fino allora la teoria aveva sempre subordinato l’osservazione: egli rovescia il modo di procedere, e fa raccontare le cose.

Dato che nella sua conversazione da sveglia parla così spesso di manicomi, la interrompo e la interrogo su altre occasioni nelle quali si fosse trattato di pazzi.

L’associazione comincia qua, la prima libera associazione nella terapia, anche se in verità è un’associazione non tanto libera: parla di pazzi, di manicomi, siamo vicini al contesto attuale. Un tale sistema era completamente sconosciuto fino allora. É evidente quanto rivoluzionaria sia una tale modalità di approccio.

Racconta che sua madre stessa fu per qualche tempo in manicomio. Avevano avuto una volta una serva, la cui padrona era stata in manicomio per molto tempo e che soleva raccontarle cose orribili, di come i pazienti là venissero legati alle sedie, picchiati, eccetera. Mentre parla, le mani le si torcono in un crampo per l’orrore, vede tutto davanti ai suoi occhi. Mi sforzo di correggere le sue idee sui manicomi, le assicuro che sarebbe diventata capace di sentirne parlare senza avvertire un riferimento a sé stessa, e con questo il suo volto si distende.

Freud fa qui una operazione pedagogica: “no tranquilla, il manicomio non c’entra con te!”. In realtà, esprime un’interpretazione profonda. “Quando parli di manicomio – intuisce Freud – stai parlando di te”. Apparentemente sembra che esprima una banale rassicurazione; ma la lettura è più strettamente psicoanalitica se diviene “quando parli del manicomio, parli di te, del tuo timore di essere matta, di essere come tua mamma, e, come tua mamma, d’essere condannata all’infelicità”. Se si ritorna alla storia della paziente, di sua mamma, vediamo ha avuto 14 figli cioè per lo meno fino a 40 anni aveva fatto un figlio l’anno; per i 20 anni migliori della sua vita è stata sempre tra parti, figli, problemi. Quindi il manicomio non sarà tanto il manicomio-ospedale, quanto il manicomio in famiglia: Freud questo lo comprende, ma ancora non è ancora entrato nella piena consapevolezza.

Prosegue nella narrazione dei suoi ricordi spaventosi. Come (a quindici anni) trovò distesa per terra, colpita da un attacco apoplettico, sua madre (la quale poi visse ancora quattro anni) e come a diciannove anni, un giorno rincasando trovò la madre morta, col volto contratto. Naturalmente mi riesce più difficile affievolire questi ricordi; dopo una spiegazione alquanto prolungata, le assicuro che anche questa immagine le apparirà solo confusa e sbiadita.

In questi passaggi colpisce la posizione di Freud, il bravo uomo che aiuta i poveri sofferenti, proprio quello che lo studioso che è in lui non vorrebbe.

Mi racconta poi anche che a diciannove anni, sollevando un sasso, vi aveva trovato sotto un rospo e per questo era rimasta privata dell’uso della parola per più ore.

Mi rendo conto in questa ipnosi che ella sa tutto ciò che era occorso nell’ipnosi precedente, mentre da sveglia non ne sa nulla. [Ibidem, pag. 218, 219]

In realtà Emma fa delle associazioni libere. C’è il rospo, la cui interpretazione certo oggi risulta assai più semplice: da dove vengono questi 14 figli? chi li ha fatti? è il rospo che saltava fuori da questi buchi, una visione fallica di questo rospo, tremendo, di questa sessualità mostruosa. Freud questa connessione rospo, pene, gravidanza, sesso, ancora non la fa; probabilmente ritiene ancora questa madre una genitrice esemplare e questo padre un uomo tutto d’un pezzo. Questo ci mostra l’importanza di contestualizzare sempre Freud, ci evidenzia come Freud sia profondamente immerso nella sua epoca, nella quale però lui diviene pioniere, va avanti e fa come dice Dante a Virgilio: “Facesti come quel che va di notte / e porta il lume dietro e sé non giova / ma dietro sé fa le persone dotte” [Purgatorio, canto XXII].

noi consideriamo i sintomi isterici come effetti e residui di eccitamenti che hanno agito sul sistema nervoso come traumi. [Ibidem, pag. 245]

L’ultimo pezzo del caso è chiamato epicrisi; è un termine nuovo: Freud era nato anatomopatologo e si evidenzia un suo certo ancoraggio alla terminologia propria dell’anatomopatologia.



 

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