Rileggendo LIMITE E’ SPERANZA L’analista ferito e i suoi orizzonti di Rita Corsa e Lucia Monterosa (Alpes, Roma, 2015)

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2 novembre, 2015 - 12:50
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Mi  è stata offerta l’opportunità di commentare un libro molto particolare.
Ho riletto il libro di Corsa e Monterosa mentre mi trovavo a seguire alcune conferenze di “TORINO SPIRITUALITA”, il cui tema quest’anno era: L’IMPASTO UMANO.
Mi sono chiesta le ragioni di questa associazione su cui mi sono trovata a riflettere mentre filosofi, letterati, scienziati, teologi di varie confessioni religiose parlavano dell’uomo nella sua molteplice natura, nel suo bisogno di interrogarsi sul senso di sé e sulle proprie rappresentazioni nel mondo. La risposta penso risieda nel fatto che questo libro si può dire che parli  di un impasto molto speciale: dell’impasto corpo mente, come si presenta nel lavoro analitico non solo nel paziente, ma quando il corpo si impone con tutta la sua realtà pesante della malattia che colpisce l’analista e mette a rischio la sua capacità di pensare e di contenere.
Tema assai arduo da trattare, come dicono le autrici, per questo forse poco presente nei lavori delle società di psicoanalisi.
Ma chi mai vorrebbe sentirsi definire un impasto?
Chi ha voglia di mettere in discussione l’immagine compatta e levigata che ha o che ha costruito di sé stesso?
Parlare di impasto risponde al desiderio di intaccare una presunzione di compiutezza e di sconvolgere un po’ il rapporto narcisistico che abbiamo con noi stessi.
Spesso il vertice della neutralità permea i discorsi intorno al lavorare con i pazienti, come se l’immagine levigata di sé affascinasse l’analista, che in questa posizione si vive esente da ogni possibile “corporeità”: l’essere corpo che vive, invecchia, si ammala e… muore.
Questo libro non è neutrale è un libro colto e appassionato.
COLTO perché non parla solo di teorie e modelli della psicoanalisi, nel qual caso lo avrei definito erudito, parla di arte, musica, poesia, di parole che risuonano nella parte più intima del nostro essere e richiamano immagini esteticamente armoniche e creative, che sono uno specchio che riflette l’armonia e la creatività del libro stesso. 
La dimensione estetica della mente dell’analista è quella che più predispone all’ascolto profondo ci ricorda Adamo Vergine nella postfazione.
APPASSIONATO perché le autrici ci presentano vignette cliniche nelle quali emerge non solo la loro grande capacità e competenza analitica, ma si svela la loro umanità che, come dice la Vallino, permea ed è fonte della potenzialità trasformativa del lavoro analitico.
Sinteticamente possiamo affermare che uno dei principali problemi della psicoanalisi sia quello di trovare articolazioni tra la realtà interna-psichica e la realtà esterna: ovvero trovare connessioni tra il livello del pensiero e quello della realtà. L’uso di modelli può facilitare la soluzione. In senso metaforico l’operazione è la stessa che si propone, nel campo della cartografia, quando si cerca una corrispondenza tra mappa e territorio (Corrao, 1992). Spesso il territorio è accidentato e la mappa deve rilevarne e testimoniare ogni asperità: ai traumi dei nostri pazienti, alle disconnessioni, alle difese rigide che sembrano impenetrabili a questo territorio siamo abituati.
Ma cosa accade, quali modelli possiamo applicare quando il territorio è quello dell’analista stesso: terremotato dalla malattia eppure vivo nella consapevolezza della responsabilità nei confronti di chi si è a lui affidato?
In analisi si costruisce un contesto costituito da una relazione bipersonale e interattiva, in cui si collocano simultaneamente un soggetto che cerca la conoscenza ed un oggetto che si presta ad essere conosciuto e/o riconosciuto infinite volte.
Il concetto di essere riconosciuto rimanda al concetto di archetipi di Jung: il legame di conoscenza  può essere tale da esplorare l’ignoto e favorire la scoperta, come ritorno alle origini dell’affettività primaria.
Ma la scoperta, nel transfert, passa in primis attraverso la persona dell’analista, nella sua funzione di contenitore di pensieri ed emozioni che da im-pensabili diventano pensabili nel lavoro di tessitura  di ogni seduta.
E la persona dell’analista è “parte del setting” non solo nella sua funzione di mente al lavoro, ma anche nella sua presenza fisica stabile costante supposta/immutabile.        
Ma cosa accade quando questa stabilità viene intaccata dalla malattia?
Nella malattia il corpo non si presenta più come apertura al mondo, ma come barriera/ostacolo.
Il corpo sano sente il mondo è aperto alla relazione            etero>>>>>relazione
Il corpo malato sente se stesso è chiuso alla relazione          auto>>>>>relazione
E il corpo malato dell’analista come intacca la sua mente, come l’analista può ed eticamente deve preoccuparsi della relazione con l’altro, mentre viene fortemente richiamato a ripiegarsi su di sé?
Rita Corsa e Lucia Monterosa, attraverso la presentazione di alcuni intensi casi di pazienti il cui percorso analitico incontra la malattia dell’analista, cercano di rispondere a queste domande difficili con sincerità e pudore, svelando e proteggendo il delicato intreccio su come dire, cosa dire, come rispettare il paziente nella sua sensibilità.
In questo libro, come in molti libri che trattano di temi limite quali la malattia e la morte, i contenuti vengono espressi per metafore e talora per ossimori: congiunzioni di parole opposte che si negano reciprocamente e che pure proprio nell’essere unite ci comunicano tutta la complessità di ciò di cui si sta parlando.
Primo ossimoro: il titolo  stesso è un ossimoro come può il limite essere speranza?
In matematica il concetto di limite serve a descrivere l’andamento di una funzione all’avvicinarsi del suo argomento (elemento assegnato) ad un dato valore.
Metaforizzando questa definizione e applicandola al campo di cui ci stiamo occupando: quale può essere l’andamento della funzione analitica quando l’analista stesso si avvicina al valore limite della malattia grave e del rischio per la propria vita?
Come può svolgere la sua funzione l’analista ferito nel corpo?
Come noi esperti della mente possiamo mettere in connessione il lavoro per la vita, la vita psichica del paziente con ciò che è im-pensabile quando il significato profondo del dover morire non va trattato solo per il paziente, ma si estende allo stesso analista? Come ci ricorda De Masi tale faccenda è assai disturbante e spesso incoraggia condotte di negazione  (Corsa, 2011).
Come il corpo malato che si fa linguaggio è in grado di continuare a servire e a celebrare la mente?
Se è indubitabilmente vero che l’esperienza della malattia tocca il corpo dell’analista, come ne sono toccati i pazienti e come può l’analista rendere lieve questo tocco, sostenibile, proprio nel momento in cui la sua stessa identità viene “terremotata”?
Rita Corsa ci conduce con ricchezza di citazioni nel percorso lungo ed accidentato, anche se poco esplorato, che la psicoanalisi ha fatto in questo campo.
Da Freud, che solo negli ultimi anni della vita ha trattato il tema della morte, nonostante molti lutti personali ed una grave malattia invalidante.
Attraverso i suoi diretti allievi Ferenczi e Jung.
Per arrivare ai lavori recenti di Artoni Schlessinger, Algini, De Masi  che trattano ciascuno con un linguaggio specifico il drammatico schiacciamento sul reale che l’affezione somatica porta per l’irrompere di un fatto concreto nella stanza di analisi.
Come ricorda Winnicott l’idea di trauma implica la considerazione di fattori esterni: in altre parole qui abbiamo a che fare con una dipendenza: la dipendenza dal corpo.
Il trauma lascia un’impronta che può essere superficiale come un’impronta sulla sabbia o indelebile come una cicatrice.
Le emozioni in analisi sono sovente di per sé traumatiche non solo per il paziente ma anche per l’analista. E’ l’analista per altro che deve dar prova di poterne essere disturbato e quindi di saperle ospitare, reggere ed elaborare affinché in un secondo tempo lo possa fare il paziente. L’analisi è da questo punto di vista un lungo processo di contenimento e di trasformazione dell’inevitabile impatto che l’incontro con l’altro provoca.
L’analista è attrezzato a ospitare le emozioni e a dare loro parola, mentre più difficile pensarsi come un soggetto che incontra la propria malattia fisica.
Chi riveste il ruolo di curare gli altri pare ritenga di acquisire una sorta di visto per soggiornare nella sofferenza altrui, rimanendo sempre e comunque immune dal morbo.
Ma quando ciò non accade e l’inevitabile intrusione di elementi di realtà inonda il campo relazionale, come maneggiare le fantasie e le emozioni del paziente e dell’analista ora che emergono potenti elementi di vulnerabilità?
Rita Corsa  ci enumera le molteplici possibilità che l’analista può adottare per con-dividere  con il paziente la propria esperienza traumatica, la propria malattia e ci motiva con profondità la scelta di adottare un delicato disvelamento di sé, in cui le informazioni vengono modulate in base ai bisogni ed alla sensibilità del paziente, tenendo conto della propria vulnerabilità, ma cercando di rispettare quella disciplina emotiva che istruisce ogni esperienza di esplorazione della sofferenza e dell’ignoto (Vallino, 1992).
Nel capitolo Malattia e onnipotenza dell’analista, Lucia Monterosa a partire da una esperienza  personale condivisa con una giovane paziente ci introduce al racconto di come gli eventi del/sul corpo abbiano connotato parte dei pensieri teorici di Freud, così come le sue relazioni con alcuni colleghi/allievi. Il rapporto con Fliess ad esempio, cui arriva a chiedere consigli per la propria salute. Max Schur suo medico personale ci descrive nel suo lavoro “Il caso Freud” le fasi della scoperta del cancro, negli stessi anni in cui Freud pubblicava un lavoro fondamentale: L’Io e l’Es. Le svolte teoriche, ci ricorda l’autrice, avvenivano in anni in cui corpo e anima affrontavano, in Freud, prove terribili.
Secondo ossimoro: è un libro leggero che tratta di un argomento pesante: come è possibile?
E’ un libro scritto da due psicoanaliste che tratta argomenti fondamentali: la vita ben oltre la semplice, se cosi si può dire, cura del paziente.
Mi viene in aiuto per spiegare questo ossimoro, che mi si è imposto con forza alla mente, un brano  di Vauvenargues, filosofo illuminista, amico di Voltaire che nel suo testo Introduzione alla conoscenza dello spirito umano  scrive:
«Noi deriviamo dall’esperienza del nostro essere un’idea di grandezza, di piacere, di potenza che vorremmo sempre aumentare; e attingiamo nell’imperfezione del nostro essere un’idea di piccolezza, di soggezione, di miseria che cerchiamo di reprimere: ecco tutte le nostre passioni. Da questi due sentimenti uniti nascono le più grandi passioni, giacché il sentimento delle nostre miserie ci spinge ad uscire da noi stessi e il sentimento delle nostre risorse ci incoraggia a ciò e ci trasporta con la speranza. Ma quelli che sentono solo la loro miseria senza la loro forza non si appassionano mai abbastanza perché non osano sperare nulla; né si appassionano coloro che sentono la loro forza senza la loro impotenza giacché hanno troppo poco da desiderare: occorre così una speranza di coraggio, di debolezza, di tristezza, di pre-sunzione».
Come avrete capito da questa citazione l’idea di leggerezza mi è venuta dall’apertura che il libro ha sulla speranza: non nel senso di fiducia cieca e illusione difensiva, negazione del limite e del dolore, ma speranza di coraggio, di debolezza, di tristezza, di pre-sunzione.
Veniamo ora a come le autrici coniugano questa speranza, che occupa tutta la seconda parte del libro.
Lucia Monterosa nel capitolo Speranza, illusione, nostalgia, che apre la seconda parte, ci parla del carteggio tra Freud ed il pastore protestante Pfister, un dialogo intenso e rispettoso tra un ateo dichiarato ed un uomo di fede, rintraccia orme di speranza nei lavori di Ferenczi e della Klein, ma è particolarmente nel  Winnicott che si interroga sulla eziogenesi dei comportamenti antisociali che troviamo l’intuizione della correlazione tra deprivazione e speranza: l’atto antisociale essendo richiesta di aiuto, speranza di essere ascoltato dall’ambiente.
A Lucia Monterosa sono particolarmente grata per il capitolo Orizzonti, in cui a partire  da una sua personale curiosità seguita ad un concerto di musica barocca (il supremo Vivaldi), ci conduce nella Venezia dell’epoca, alla storia delle figlie del coro, le povere orfanelle ospitate alla Pietà, cui Vivaldi insegnò la musica, le seguì fino a farle divenire valenti musiciste, ammirate per la loro bravura. Cosa univa il maestro e le allieve? Un terreno traumatico originario che in modi differenti aveva caratterizzato la nascita di Vivaldi e delle orfane… da cui erano emersi e sopravvissuti attraverso il ritorno alla sonorità, al bagno sonoro originario del ventre materno, che pur perduto nell’impatto violento con il mondo esterno rimaneva un luogo a cui ritornare.  
In questo capitolo l’autrice ci ricorda la sordità alla musica di Freud, se pure egli attribuisca grande importanza al suono della voce, per superare l’angoscia del buio (Tre saggi sulla teoria sessuale).  La voce dell’analista nella stanza di analisi, di cui Ogden ha molto scritto, come contenitore che fa fare al paziente l’esperienza del ritmo, non per niente tutto parte dalla musica vivaldiana, che lungi dall’essere superficiale, come talora è detta, possiede una potente ricerca timbrica: il timbro della voce che accompagna e traduce al paziente il suo e l’altrui stato d’animo.
 
Concludo scusandomi per essere andata random e tangente: queste emozioni mi ha suscitato, emozioni che ho cercato di tradurre in pensieri da condividere con le autrici e con il lettore.
Questo libro tratta di cose difficili, impegnative e concludo con un pensiero di Wittgenstein che a mio parere esprime, con la sua sintesi ciò di cui le autrici, a mio parere, hanno scritto e ciò di cui io qui ho cercato di comunicarvi.
«Siamo finiti su una lastra di ghiaccio, dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci.
Vogliamo camminare: dunque abbiamo bisogno dell’attrito: torniamo sul terreno scabro».
Ed io aggiungerei: il terreno scabro della vita nella sua interezza.
 

 
CORRAO F. (1992). Modelli psicoanalitici: mito, passione, memoria. Roma-Bari, Laterza.
CORSA R. (2011). Se la cura si ammala. La caducità dell’analista. Bergamo, Kolbe.
FREUD S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. O.S.F., 4.
FREUD S. (1922).  L’Io e l’Es.  O.S.F., 9.
SCHUR M. (1972). Freud  living and dying. New York, International Universities Press. [Il caso di Freud - Biografia scritta dal suo medico. Torino, Boringhieri, 1976. Freud  in  vita e in  morte. Biografia scritta dal suo medico. Torino, Boringhieri, 2006].
VALLINO D. (1992). Sopravvivere, esistere,vivere. Riflessioni sull’angoscia dello psicoanalista.                            In: A.A.V.V.,  L’esperienza condivisa. Milano, Cortina.
WINNICOTT D.W. (1965). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970.
WINNICOTT D.W.(1989).  Esplorazioni psicoanalitiche. Milano, Cortina, 1995.
WITTGENSTEIN L. (1953). Ricerche filosofiche. Torino, Einaudi, 1967.
 
 

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