Vi presento Toni Erdmann, una recensione

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5 marzo, 2017 - 08:48
di: Bruno Pastorino
Anno: 2016
Regista: Maren Ade
Considerato dai Cahiers du Cinema il miglior film della stagione; trionfatore degli ultimi European Film Award con il riconoscimento dei premi alla migliore pellicola, regia, attori e sceneggiatura; scippato dell’Oscar al film straniero più per ragioni geopolitiche e reazione allo stupido ostracismo trumpiano che per propri demeriti; giunge finalmente anche nelle sale italiane “Vi presento Toni Erdmann” di Maren Ade.
Winfried è un insegnante di pianoforte. Frichettone tedesco, incline allo scherzo con chi conosce e con chi gli è estraneo, compagno solo di un vecchio cane che non si rassegna di sopprimere e con una figlia, Ines, quarantenne, manager globettroter di stanza a Bucarest, ma col sogno di ottenere l’agognata promozione nella sede di Shangai.
Per starle vicino, Winfried la raggiunge nella capitale rumena, ma la loro breve convivenza non funziona.
Troppo lontani i suoi stili di vita da quelli della figlia, tanto e tutta votata alla carriera professionale da sacrificare pure l’unica mezza giornata promessa al padre a vantaggio dello shopping tour al seguito della ricca consorte del suo più importante cliente.
Winfried decide quindi di interrompere anzitempo la vacanza dalla figlia che, mentre lo aiuta a preparare la valigia, in una citazione niente affatto velata del mito edipico, si infortuna al piede, restando claudicante.
Il padre ricomparirà ancora nella vita di Ines poco dopo; questa volta camuffato da Toni Erdmann : un parruccone nero calato in testa, sedicente coach o all’occasione socio del più potente e corteggiato magnate di turno, persino –se occorre- ambasciatore di Germania, una ridicola protesi dentale per camuffare il profilo; insomma un improbabile Fregoli teutonico.
Un “angelo di Berlino” in missione straniera Winfried-Erdmann che, affiancando in incognita la figlia, scopre lo squallore e l’alienazione di una quotidianità intrisa di sesso furtivo in una stanza d’albergo, occasionali consumi di droga e sterminati deserti di sentimento.
Nessun moralismo nella pellicola, però; semmai la sottolineatura che la trama ereditaria tra padre e figlia non è facilmente sottraibile.
L’indissolubile  legame tra i due è sottolineato nella sequenza in cui lui, per scherzo, la ammanetta al proprio polso, ma poi perde le chiavi con cui scioglierla. La condivisione degli stessi ricordi quando, in una domestica festa della Pasqua ortodossa, improvvisano un duetto: lui ad una pianola per bambini, lei impegnata a fare il verso alla sciagurata Whitney Houston. L’ancestralità della loro intesa, invece, quando lei, nuda come alla nascita, si abbandona nell’abbraccio del padre interamente nascosto dalla maschera bulgara di una bestia primordiale.
Sarà alla fine, durante il funerale dell’anziana nonna, che Ines abbandonerà definitivamente il suo carattere composto e inappuntabile, raccogliendo l’eredità leggera e un po’ scapestrata della parente appena morta e del padre che se ne va; assumendo magari l’idea che se la risata non seppellisce il potere, aiuta almeno a sopportarlo meglio.
Film originalissimo e intelligente; difficilmente iscrivibile ad un genere o una scuola (magari –forse- certo cinema indipendente americano, oppure le prime opere dei Coen; Burton Fink, senz’altro Lebowsky).
Maren Ade –la regista- è giovane e siamo già impazienti di scoprire cos’altro avrà da regalarci.
La cover di “Greatest love of all” regalataci da Sandra Huller, da riascoltare e rivedere.
Insomma, per una volta, buona visione.
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