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Il tappeto e la polvere. Brevi osservazioni sull’Esame di Stato
La polvere è tutto ciò che bisogna nascondere affinché non si veda e non se ne parli, affinché l’apparenza e la forma siano salvaguardate. Il tappeto è il luogo sotto il quale tutto ciò che non si deve dire e non si deve sapere, trova posto.
Nadia Vidale solleva il tappeto e ci racconta ciò che gli addetti ai lavori sanno, ma che, per ragioni di opportunità, è bene non dire.
Dal pamphlet emerge con nitidezza la distanza tra l’apparato normativo, che impone procedure rigide e regole ferree, e la disapplicazione sistematica dello stesso da parte della Commissione d’esame.
In attesa di una annunciata e non ancora attuata riforma dell’esame di maturità, il quadro che emerge dal racconto di Nadia Vidale è disarmante: studenti che ottengono il diploma senza aver raggiunto le conoscenze e le competenze previste, docenti messi in discussione perché, va da sé, non hanno saputo insegnare ai loro studenti come si apprende, come si argomenta, come si fa ricerca, presidenti delle commissioni che, va da sé, non svolgono alla fine il loro ruolo di garanti perché fanno finta di non vedere e accettano di nascondere la polvere sotto il tappeto.
L’intero sistema scuola è messo in discussione, perché al di là dei tecnicismi per addetti ai lavori spiegati con molta chiarezza nel testo di Nadia Vidale, resta la verità: il diploma non certifica competenze effettivamente raggiunte, le università non si fidano degli esiti dei tabelloni e sottopongono i loro futuri iscritti a test di ingresso, le aziende selezionano il loro personale senza basarsi sul voto della maturità.
Sotto il tappeto si nasconde anche l’incompetenza o la non volontà o la mancanza di strumenti da parte dei dirigenti scolastici per fare in modo che le cose vadano diversamente: se lo studente in cinque anni di scuola esce impreparato, una parte di responsabilità ricade anche sul “preside” della sua scuola.
Vien da chiedersi se vicino al tappeto sollevato da Nadia Vidale ce ne sia un altro di simile che nasconde le verità sull’esame di stato in uscita dal primo ciclo, un altro che cela le verità sulla certificazione delle competenze in uscita dal biennio delle superiori, un altro ancora che occulta quel che succede nelle commissioni di laurea o in quelle dei dottorati di ricerca. E così via.
Più volte l’autrice ritorna sulla questione dell’oggettività della valutazione: la commissione d’esame si dota di griglie di valutazione delle prove scritte e del colloquio orale che poi spesso piega alle necessità del caso: si lascia da parte la griglia che dovrebbe garantire equità e oggettività di giudizio e irrompe la valutazione soggettiva, la storia dell’alunno, criteri altri tacitamente riconosciuti come altrettanto validi. E tutto va sotto il tappeto.
Il pamphlet mostra il coraggio di chi l’ha scritto e merita di essere letto perché ci aiuta a riflettere criticamente sul sistema scuola.
Alla fine dell’ultima pagina, con il lembo del tappeto ancora sollevato e la polvere che tornava sul pavimento, ho riletto la dedica del libro:
A Giada, che disse: “Se lei pensa che per non prendere 4 io cambierò il mio modo di studiare, le dico subito che prenderò sempre 4!” ma, poi, non mantenne la parola.
In questa dedica immagino quello che l’autrice non ha scritto: la storia di una studentessa che, ad un certo punto, ha stretto un patto formativo con la sua insegnante; la storia di un’insegnante che è riuscita a far capire capire ad una sua allieva come studiare, come argomentare, come far ricerca, la storia di una commissione d’esame che non ha dovuto nascondere nulla sotto il tappeto in fase di valutazione e la storia di un dirigente, quello della scuola in cui Giada era iscritta, che in qualche modo deve essere riuscito a garantire formazione, spazi, mezzi, momenti di verifica collegiale e di autoformazione ai suoi docenti. Immagino…
Ma la storia di Giada è un’eccezione?
Voglio immaginare la scuola vera, quella che garantisce il diritto allo studio ai suoi iscritti e che va loro incontro per aiutarli a visualizzare un progetto di vita che li appassioni ai temi proposti in classe.
E’ una scuola che esiste e che forma gli alunni ad orientarsi e a progettare il proprio futuro, che li motiva e li accompagna e che può alla fine certificare le competenze raggiunte.
Immaginare, tuttavia, non vuol dire, in questo caso, assolvere e tornare a cacciare la polvere sotto il tappeto. Vuol dire focalizzare il punto da cui ripartire per continuare la riflessione.
In questo senso, può essere una soluzione l’abolizione dell’esame di Stato? Abolire l’esame di Stato garantirebbe comunque percorsi formativi agli alunni? Garantirebbe equità nelle valutazioni? Garantirebbe la costruzione per ognuno di loro di un progetto di vita? Darebbe ai nostri iscritti la voglia di progettare il proprio futuro? Di essere capaci di fare delle scelte consapevoli?
Se mai ci sarà una riforma dell’esame di Stato, dovrà partire dalla polvere perché una delle evidenze che emergono con più chiarezza è la distanza, a volte abissale, tra le norme, le procedure rigide, la liturgia uguale da decenni, il ciò che si deve scrivere sulla carta, e la realtà, il ciò che non si può dire né tantomeno scrivere in sede di Commissione di esami.
La distanza tra la norma e la realtà costringe il personale della scuola ad un dispendio di energie sottratte ogni giorno a ciò che invece dovrebbe essere l’unico impegno importante: per i docenti il lavoro in aula, per i dirigenti scolastici il creare condizioni affinché i docenti possano attuare una didattica efficace.
Prima ancora della riforma dell’esame di Stato, siamo in attesa, proprio in questi giorni, dell’esito del primo dei tavoli di lavoro aperti presso il Ministero dell’istruzione sulla semplificazione burocratica. Se verrà data la possibilità ai dirigenti scolastici di uscire ogni tanto dalle Segreterie in cui sono attualmente rinchiusi per far fronte alla compilazione delle carte e per sostituire il personale amministrativo che manca, potranno, forse, avere il tempo necessario per valutare i docenti in anno di prova, per mostrare loro, attraverso un lavoro di squadra, cosa migliorare, per dare seguito concreto alla formazione e all’aggiornamento del personale con ricadute effettive sulla didattica in aula, per garantire ai docenti dei propri istituti spazi, strumenti, momenti di condivisione per confrontarsi e affinare la loro professionalità, per occuparsi della scuola e non solo dei tappeti sotto cui nascondere la polvere.
Consiglio il pamphlet di Nadia perché è importante riuscire a trovare un po’ di tempo per fermarsi a riflettere, fosse solo per dimostrare, e non è la posizione di chi scrive, che la polvere non c’è e che va tutto per il meglio.
Avere il tempo per fermarsi a riflettere sarebbe in ogni caso un passo avanti per riaprire un dialogo tra le persone che ogni giorno sono impegnate nella scuola. E ci sono, come dimostra Giada.
Ringrazio Nadia perché con il suo libro mi ha dato l’occasione per trovare il tempo di leggere e per decidere poi di scrivere questo breve testo.
La scrittura è un esercizio terapeutico, aiuta a fissare i pensieri, aiuta a condividere riflessioni, a non sentirsi soli, a continuare un dialogo con se stessi e con gli altri, a trasformare il negativo in argomentazione e ad attenuare quel senso di inadeguatezza che, nel lavoro di dirigenti scolastici, spesso si prova per la distanza tra le richieste che ci vengono fatte e gli strumenti che abbiamo a disposizione per ottemperare.
Si veda al proposito l’immagine di copertina del libro: la ceralacca è ancora prevista come modalità di chiusura dei pacchi che contengono la documentazione degli esami. Non sembra vero.
Nadia Vidale è nata a Bassano de Grappa e vive a Padova. Ha seguito gli studi classici fino al dottorato di ricerca in Filologia. Dal 2007 è dirigente scolastico.
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