CHE TIPO DI PERSONA ERA SIGMUND FREUD?

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2 agosto, 2017 - 08:22
(Pubblicato col titolo “What sort of person was Freud?” sulla rivista New Analysis, autunno 1999, pp. 30-40. Traduzione di Fabiano Bassi)

Introduzione
Chi voglia chiedersi se Freud era una brava persona deve essere pronto a ricevere parecchi tipi differenti di risposte. Volendo cominciare con una risposta espressa nella forma di un'altra domanda, ci si potrebbe chiedere: perché mai dovremmo aspettarci, o dovremmo pensare, che una qualsiasi persona nata nel lontano 1856 debba rivelarsi capace di commisurarsi a una serie di criteri del tutto caratteristici della nostra epoca? Uno dei compiti essenziali dello storico dovrebbe essere quello di permettere alle persone di retrocedere nel tempo e di confrontarsi con epoche completamente diverse da quella in cui viviamo noi oggi. Dovremo allora cercare di procedere sulla base della premessa secondo cui il passato è comunque necessariamente rilevante per la comprensione della vita contemporanea, senza però al contempo gettare benzina sul fuoco per esasperare tutte le differenze evidenti tra allora e adesso. Sarebbe del tutto anacronistico attendersi che qualunque personaggio storico possa dimostrarsi capace di esaudire tutte le nostre aspettative riguardo a ciò che potremmo approvare di lui se egli stesse vivendo nella nostra stessa epoca. Ma nonostante tutte queste considerazioni, sembra che esista la tendenza abbastanza tipica negli atteggiamenti storici più recenti a preferire un atteggiamento molto legato al presente e dunque fondamentalmente antistorico, spogliando così il passato di tutto ciò che lo rende più caratteristico, irresistibile, interessante e istruttivo. 
Se da un lato è vero che il passato è necessariamente diverso dalla nostra era presente, dall'altro è anche vero che i grandi pensatori in un certo senso sono tutti nostri contemporanei. Essi riescono a giungere fino a noi passando attraverso i secoli, ciò che essi hanno pensato e detto continua nel tempo a imporsi alla nostra attenzione: sono le loro idee a farli sopravvivere al passaggio del tempo. Ma l'attualità di un dato autore storico non comporta che si debba accettare tutto ciò che quella persona aveva da dire: conserviamo comunque il diritto di considerare in modo critico e di scegliere tra ciascuna delle sue affermazioni quelle che pensiamo di poter accettare per noi stessi. E tutta via, se non riusciamo a sospendere quanto meno una certa quota della nostra diffidenza, sforzandoci di allargare la nostra immaginazione nel modo più generoso possibile nel tentativo di comprendere l'altro, non saremo in grado di ascoltare veramente le domande fondamentali che vengono poste dai grandi pensatori che sono stati attivi nei secoli precedenti al nostro. 
Se, per cominciare, cerchiamo di inserire il teorico di cui ci occupiamo in un determinato contesto culturale, diminuiamo subito il rischio di incappare in alcuni errori grossolani in cui c'è il forte pericolo di cadere se si lascia prevalere la tentazione di dare spazio al nostro presunto senso di superiorità nei confronti delle epoche passate: alcuni storici, infatti, procedono basandosi semplicemente su una sorta di gioco di prestigio che consente loro di dare per scontato che i nostri attuali criteri di valutazione siano intrinsecamente superiori a quelli dei nostri predecessori. Il presente ha lo straordinario vantaggio di poter contare su una visione retrospettiva delle cose: quando si studia un personaggio del passato, non si è ingabbiati dalla impossibilità di sapere quale sarebbe stato il corso che gli eventi avrebbero preso man mano che si sviluppavano nel futuro, perché il futuro di quel personaggio è comunque a sua volta già presente nel nostro passato. Le epoche precedenti la nostra si sono confrontate con complesse condizioni sociali e si sono fondate su valori che, ai nostri occhi, possono anche apparire insoliti: chi abbia interesse per lo studio della storia dovrebbe cercare di ampliare i propri orizzonti e di estendere al massimo il proprio senso del possibile. 
Esistono alcuni profeti sociali che sono stati capaci di prevedere il futuro. Ci sono stati alcuni eroi che sono stati in grado di predire lo sviluppo delle potenzialità dell'uguaglianza razziale e sessuale. Le capacità di intuizione morale hanno permesso ad alcuni autori di intuire anticipatamente i cambiamenti progressivi che hanno avuto luogo in alcune nazioni nel corso dell'ultimo secolo e mezzo. Edmund Burke, ad esempio, un grande pensatore conservatore, aveva previsto con estrema precisione l'esplosione e lo sviluppo della Rivoluzione francese. Il suo principale antagonista, Tom Paine, difendeva una serie di ideali democratici sulle masse che suonano come molto più attraenti alle orecchie dei commentatori contemporanei, ma è impossibile per chiunque negare la profondità del tutto insolita e la lungimiranza del pensiero di Burke. Un autore di opuscoli come Paine mancava totalmente della complessità di pensiero di un autore come Burke, anche se le argomentazioni di Burke possono sembrare, a prima vista, molto meno accattivanti. Resta comunque il fatto che Burke ha previsto in modo incontestabile tutta la violenza che si sarebbe accompagnata allo sviluppo della Rivoluzione francese. Non si può certo affermare che la storia dell'ultimo secolo si sia mossa soltanto nella direzione di quell'illuminismo e di quel consolidamento dei valori etici che Paine aveva cercato di promuovere. Il ventesimo secolo è stato uno dei secoli più sanguinosi di tutta la storia, contrappuntato dalle sue guerre e dai crimini dei vari Hitler, Stalin, Pol-Pot, Mao Zedong e altra compagnia di tiranni. Freud poté toccare con mano l'inizio del peggio di tutto quello che sarebbe poi successo. Nel pieno della prima guerra mondiale, Freud si rese conto che gli ideali di auto-governo del diciannovesimo secolo erano destinati a venire sommersi dalla realtà del brutale sistema bellico moderno, che avrebbe finito per estendersi alle popolazioni civili e per decretare il successo di chi si fosse mostrato più abile a gestire la propaganda di massa. E nella primavera del 1933, quando i nazisti cominciarono a bruciare anche i suoi libri sulle pubbliche piazze, Freud espresse il seguente commento ironico: “A quale grande progresso stiamo assistendo: nel Medio Evo avrebbero bruciato me, oggi si accontentano di bruciare i miei libri” (Jones, 1953, p. 182). 
 
Parte I (La concezione di Freud sull'umanità)
Freud aveva una concezione prevalentemente pessimista e stoica del genere umano. In almeno un passaggio delle sue opere (Freud, 1929), egli cita la famosa massima antica Homo homini lupus. Aveva la convinzione scettica che l'umanità fosse capace di fare una serie di cose terribili. Tutta la sua concettualizzazione dell'inconscio, resa da lui così centrale nel corpo della sua psicologia, faceva riferimento alla presenza, in ciascuno di noi, di una sorta di diabolicità. Freud, dunque, può essere considerato come un grande smascheratore, una persona che non cadeva certo facilmente nella tentazione di sposare in modo acritico i principi permeati di qualche elevato valore. Come è noto, infatti, spesso anche le intenzioni più caritatevoli conducono comunque verso le peggiori crudeltà sociali. 
Se dunque ammettiamo che sia corretto affermare che Freud non era uno dei tanti ammiratori ingenui del genere umano, possiamo allora considerare questa affermazione come qualcosa di conclusivo ai fini della nostra valutazione della sua figura? Se la domanda da cui vogliamo partire è quella che cerca di capire se Freud fosse o non fosse “una brava persona”, credo che diventi allora più facile rendersi conto di quanto sia fuorviante giudicarlo sulla base dei criteri convenzionali attuali che ci consentono generalmente di definire le questioni in termini di giusto o sbagliato. Potrebbe comunque rimanere difficile per alcuni, e anche contrario al loro interesse personale, assorbire in pieno la forza che promana dalla considerazione del modo in cui Freud cercò di demolire il sistema di convinzioni etiche che vigeva nel suo tempo. Potrebbero infatti risultarne minacciate alcune delle nostre ambizioni più perfezionistiche. Anche in questo caso, non è necessario essere d'accordo con Freud. Credo invece che sia necessario rendersi conto fino in fondo dello spirito coraggioso con cui egli si mosse per occuparsi delle cose che lo interessa vano. 
Partiamo dal presupposto che Freud fosse un cosiddetto realista, cioè una persona non disposta a fingere di possedere un grado di devozione tradizionale nei confronti di qualche presunto elevato sistema di valori. Ma anche con questa affermazione, non penso certo che siamo arrivati alla fine della questione. Credo che Freud sia stato un pensatore profondamente sovversivo e che la sua capacità di demolire i luoghi comuni debba essere catalogata tra i principali contributi da lui apportati alla storia del pensiero. Freud lanciò il guanto di sfida, tra le altre cose, anche contro la Cristianità, non soltanto in quanto sistema istituzionalizzato nella forma di una religione organizzata, ma proprio anche in quanto insieme di precetti fondamentali. E ben più di una volta, egli sfidò apertamente, anche per iscritto, la validità della massima “Ama il prossimo tuo come te stesso” (ad esempio, Freud, 1929, p. 597; Freud, 1932, p. 301). (Anche le sue lettere, che quando, finalmente, potranno essere pubblicate nella loro totale estensione supereranno per dimensioni tutta l'opera freudiana pubblicata durante la sua vita, rivelano in modo sottile l'ampiezza delle intenzioni morali di Freud). La critica da lui avanzata contro un passaggio fondamentale del “Discorso della montagna” del Vangelo può anche essere stata mal diretta e rimane un punto facile, per i più, da rifiutare; credo comunque che si rischi di perdere di vista il ruolo che Freud ha ricoperto nel pensiero occidentale (e che spiega in buona parte perché egli è diventato così famoso) se si ignora il modo in cui egli si è impegnato con tutte le sue forze per attaccare uno dei più popolari ideali etici del pensiero umano. Anche il suo concetto di omosessualità inconscia costituisce un altro esempio della sua capacità fin quasi fastidiosa di mettere alla berlina gli obiettivi etici. Di fatto, Freud stava dando per inteso che la psicoanalisi sarebbe stata in grado di far venire alla luce un nuovo sistema di valori morali. 
    Accetto senz'altro di considerare Freud uno smantellatore, e di certo non uno di quelli più banali. Freud è stato capace di puntare il dito su alcuni degli aspetti più disturbanti della natura umana. Tra le tante cose, egli ci ha detto che gli esseri umani sono in grado di compiere le cose più sorprendenti e deludenti. Amava citare il famoso passaggio dell'Amleto, “Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio, di quante ne può sognare la tua filosofia” (ad es., Freud, 1910, p. 275). Freud stava cercando di ampliare la nostra concettualizzazione su ciò che le persone sono potenzialmente in grado di fare, e inevitabilmente questo comportava che egli dovesse sottolineare certi lati della natura umana che la maggior parte di noi preferirebbe non dover riconoscere. Manteneva un atteggiamento di fondamentale pessimismo circa le possibilità che tra gli esseri umani vigessero condizioni di uguaglianza, e vedeva invece con grande chiarezza tutto il potenziale di violenza, di gelosia e di tutti gli altri peccati che gli esseri umani sono capaci di esibire. Freud ha secolarizzato la colpevolezza, trasformandola in sintomatologia: la sua non era una visione delle cose che potesse conquistarsi particolare popolarità tra le file di coloro che si sentono a loro agio mentre ascoltano l'omelia domenicale del parroco. 
Per considerare le cose da una prospettiva leggermente diversa, possiamo dire che non è affatto scontato che i pensatori apparentemente più umanitari siano davvero, a gioco lungo, i migliori amici del genere umano. Nel diciassettesimo secolo, Thomas Hobbes aveva alcune cose piuttosto sgradevoli da dire a proposito della natura umana ma questo non ha di certo diminuito la sua statura nella storia delle idee; e non dimentichiamo che Hobbes dava implicitamente per inteso che fosse necessario procedere a un'estensione della base razionale e dell'autodirezionalità consapevole di ciascuno di noi, il che può apparire notevole anche quando viene esaminato alla luce dei nostri criteri contemporanei. Ancora, continuiamo a leggere Machiavelli nonostante il contenuto a tratti disgustoso delle sue affermazioni, anzi lo leggiamo proprio perché ha attaccato in modo diretto i criteri fondamentali dei nostri ragionamenti morali e ha anticipato quasi tutti i conflitti tra moralità pubblica e privata in un modo di cui talvolta preferiremmo non dovere renderci conto. Hobbes aveva percepito l'esistenza di forze fresche che spingevano nella direzione della disunione sociale, Machiavelli aveva costruito il suo pensiero puntando l'attenzione su una serie di necessità che riteneva eterne. Muovendoci ancora oltre nella storia della filosofia sociale, anche Jean-Jacques Rousseau, quando propose di “costringere” gli esseri umani a essere “liberi”, si metteva sulla stessa linea di altri rinomati emancipatori che possono anche, inavvertitamente, aver preparato il terreno allo sviluppo di qualche forma di tirannia. I Giacobini scelsero di citare, come loro autore di riferimento, le massime dal suono umano di Rousseau piuttosto che non quelle del “pessimista” Hobbes. E quando Lenin si appoggiò sul pensiero di Karl Marx, sicuramente i Bolscevichi trovavano qualcosa di reale nel pensiero marxiano che poteva essere utilizzato per sostenere una forma terribile di schiavitù. Il concetto di dittatura del proletariato acquistava un valore estremamente reale e concreto quando veniva invocato da alcuni dei leader della ex Unione Sovietica. Marx era un altro autore altrettanto duro quanto Freud rispetto alla valutazione delle motivazioni umane e nessuno di questi due uomini è stato facile da digerire per i suoi contemporanei, o persino per i suoi colleghi. Ma il fatto che Marx appoggiasse comunque alcuni ideali umanitari non è sufficiente per rimettere in discussione la valutazione dell'impatto da lui avuto sulla storia. 
Credo si possa affermare che coloro che si mettono in movimento sotto la spinta degli obiettivi più idealistici finalizzati e che sono mossi dall'idea di dar vita a un progetto di modificazione del genere umano sono quelli che finiscono per incatenarlo maggiormente. (Anche il freudismo, nato sull'onda di uno dei più nobili tra gli obiettivi, ha avuto ben più di un tragico ritorno di fiamma). Non penso che il contributo principale alla sofferenza e agli sviluppi più negativi per il genere umano sia stato apportato soltanto da chi ha punti di vista scettici sulle sue motivazioni. I pensatori che hanno mosso i loro primi passi avendo in testa obiettivi limitati sono forse stati quelli che con minore frequenza hanno finito per nuocere al genere umano. Chi invece parte con l'idea di voler trasformare completamente la natura umana corre il rischio di dotarsi di qualche licenza nascosta che giustifichi il ricorso ad atti i quali, a gioco lungo, conducono alle più crudeli conclusioni sociali. Tra i padri fondatori degli Stati Uniti d'America ricordiamo James Madison e il suo pensiero che “gli esseri umani non sono angeli”: molte delle decisioni politiche e sociali finalizzate al funzionamento del sistema federale americano sono state da lui siglate sulla base di queste premessa di partenza. 
Non voglio apparirvi come un sostenitore della misantropia, e neppure credo che sarebbe giusto confinare Freud al ruolo dell'assertore di queste pessime aspettative su tutto ciò che la natura umana può rivelarsi capace di esprimere. Rimane senz'altro vero che non è difficile trovare alcuni passaggi in cui Freud afferma delle cose davvero molto pesanti a proposito della condizione umana: quando parlava del genere umano in termini di “spazzatura”, di “canaglia” o di “buoni a nulla”, Freud stava esprimendo un punto di vista comune tra le persone della sua classe sociale oltre che qualcosa che in un certo senso emergeva dalla sua professione di psicoanalista. E le sue osservazioni amare a proposito di certi individui, soprattutto quelli da cui si era sentito fortemente disilluso, possono essere lette come un esempio di ferocia letteraria. Eppure, allo stesso tempo, Freud era un medico capace di profondere un impegno durissimo nel suo lavoro, era una persona che trascorreva la maggior parte delle sue ore lavorative, per sei giorni alla settimana, nel tentativo di aiutare gli altri da un punto di vista terapeutico. Faceva appello alla capacità di ciascuno dei suoi pazienti nel tentativo di far loro superare i propri limiti tramite l'uso della ragione e della conoscenza di sé. Le sue attività in quanto analista praticante si fondavano in ampia misura sulla sua considerazione dei limiti pratici riguardanti ciò che il paziente era in grado di diventare. E Freud doveva ben riuscire a rispettare la dignità delle persone con cui lavorava se voleva sperare di riuscire a ottenere qualche successo pratico.
 
Parte II (I precursori di Freud)
E a questo proposito, ci imbattiamo in una differenza inevitabile tra il modo in cui Freud si esprimeva come teorico e quello in cui si comportava da un punto di vista clinico. In alcune sue affermazioni scritte, secche al punto da togliere quasi il respiro, Freud sembrava avere come unico desiderio quello di mandare al diavolo il genere umano nel suo insieme, o almeno alcune componenti di esso. Ma dall'altro lato, egli sapeva anche mostrare quote eccezionali di atteggiamento caritatevole, seppure in un modo che è forse meno facile da riconoscere. Sto pensando, per esempio, a un paziente psicotico che Freud, negli anni '20, continuò a trattare analiticamente per anni e anni pur avendolo già diagnosticato (al pari di altri prima di lui) come schizofrenico. Freud era in grado di relazionarsi con questo paziente meglio di quanto non era stato capace di fare nessun altro medico suo contemporaneo che lo aveva preceduto, e questo a prescindere dalle teorie che egli professava sull'argomento. Anche se, in linea di principio e volendo basarsi sui concetti da lui stesso espressi altrove, Freud non avrebbe dovuto impegnarsi per analizzare un paziente di questo tipo, si era reso conto di riuscire a mantenere con questo paziente un contatto umano migliore di quello che tutti gli altri suoi colleghi avevano saputo dimostrare; scrisse anche una lettera rassicurante alla madre del paziente, che stava in America, dicendole che non avrebbe dovuto preoccuparsi troppo per la salute di suo figlio: quando si muoveva sul piano pratico, dunque, Freud rientrava molto di più in una tipologia alla Jean-Jacques Rousseau. Si può presumere che la madre di questo paziente fosse una persona di buon livello culturale e che sapesse altrettanto bene quanto Freud come fosse stato difficile, per i contemporanei di Rousseau, confrontarsi con la sua personalità. (Penso, ad esempio, a Denis Diderot, che una volta espresse il seguente commento a suggello di una serata trascorsa in compagnia dello svizzero: “Mi mette a disagio, ho sempre la sensazione di trovarmi di fianco a un'anima dannata (..) Non voglio incontrare mai più quest'uomo: sarebbe capace di convincermi dell'esistenza del demonio e dell'inferno” [citato da Sabine, 1950, p. 575]. Rousseau riusciva a sconvolgere le persone con le sue idee. Ad esempio, si era rifiutato di sostenere che “la libertà dell'uomo consiste nel fare ciò che vuole, affermando al contrario che essa consiste nel riuscire a non fare mai ciò che non si vuole fare” [Rousseau, 1979, p. 104]. Un punto di vista di questo genere sulla libertà, basato sulla concettualizzazione di un Sé diviso, capace di autotormentarsi, può senz'altro essere spaventosa, e nella fase finale della sua vita Rousseau ammise che questa sua concezione della verità aveva scandalizzato i suoi contemporanei. Gli amici della libertà nel ventesimo secolo avrebbero poi continuato a sentirsi allarmati dalle implicazioni autoritarie intrinsecamente presenti nel paradosso secondo cui si dovrebbero “costringere” le persone a essere libere). 
In tutto questo, o almeno in parte, uno dei problemi principali era rappresentato dalla litigiosità che contraddistingueva Rousseau, ma egli era senz'altro nel giusto quando affermava che il suo approccio teorico generale aveva il potere di far inorridire tutti i suoi amici. Alla notizia della morte di Rousseau, nel 1776, il grande Voltaire scrisse laconicamente: “Morendo, Jean-Jacques ha fatto davvero la cosa migliore” (citato in Ritter e Conaway, 1988, p. 194). Edmund Burke riteneva che Rousseau fosse affetto da una sensibilità patologica e che fosse sprovvisto, metaforicamente, di una pelle di tipo umano. E Friedrich Grimm scrisse personalmente a Rousseau, attaccandolo sia per la sua “apologia personale” che per “il Vostro sistema mostruoso (..) Non vorrò mai più vederVi in tutta la mia vita e mi considererò fortunato se riuscirò a bandire dalla mia mente anche il più piccolo ricordo del Vostro comportamento...” (citato in Wilson, 1957, p. 298). 
Rousseau, le cui Confessioni sono sicuramente una delle più grandi autobiografie mai scritte (come, per altro, anche L'interpretazione dei sogni di Freud), era evidentemente troppo grande per essere preso per intero; e dalla nostra prospettiva, cioè a una grande distanza di tempo da lui, possiamo riconoscere tutto il suo genio. Ma la sua pedante ricerca della purezza e la sua bramosia per la comunicazione umana autentica fecero di lui non soltanto una persona con cui era difficilissimo stare in contatto, ma anche un teorico che finì per essere accusato di scrivere in difesa delle moderne inquisizioni. (La Chiesa aveva tormentato le persone non sulla base di un atteggiamento sadico ma in difesa del concetto della salvezza ultima, posta al di là dell'esistenza fisica corporale). Quando Rousseau legittimò la scissione dell'animo umano, separando i falsi sentimenti dalle intenzioni genuine, finì dunque per fornire una base intellettuale su cui potevano appoggiarsi coloro che cercavano di individuare qualche intenzione umana che andasse oltre quelle consapevolmente riconoscibili. Per difendere Rousseau basta pensare che, in ultima istanza, egli si batteva per l'autocontrollo dell'individuo, non per dare vita a una nuova forma di schiavitù: ma i suoi critici hanno sempre continuato a rimarcare il fatto che egli avesse messo in mano ai nemici dell'umanità uno strumento perfetto che consentiva loro di diventare tirannici. E anche Freud tende a essere comunemente visto come un liberatore dichiarato che ha finito per inventare un nuovo tipo di catene.
 

Parte III (Freud e i suoi allievi)
Ora, è evidente che Rousseau è soltanto uno dei tanti precursori di Freud: un altro è stato Nietzsche (v. Roazen, 1991). Tuttavia, sia Rousseau che Nietzsche rimasero durante la loro vita molto più isolati di quanto non capitò allo stesso Freud. Freud era un uomo di cultura, un gentiluomo di ottima educazione, marito e padre di sei figli; pur essendo un medico appartenente alla classe media e baciato da un successo soltanto parziale, Freud poteva permettersi di vivere aiutando gli altri. Gli capitò, in un'occasione, di rifiutare l'idea di essere un genio, motivando tale rifiuto sulla base del fatto di non essere una persona con cui fosse abbastanza difficile vivere, un punto che gli sembrava necessario possedere per potersi vantare della qualifica di genio. Così come la creazione e la sponsorizzazione della psicoanalisi da parte sua erano destinate a rivelarsi piene di una serie quasi infinita di controversie, anche nella sua vita quotidiana Freud si occupava, giorno dopo giorno, di molte persone diverse: non era certo paragonabile alla figura di uno studioso arroccato dietro la sua scrivania col naso sempre immerso nei libri: era piuttosto un terapeuta che incontrava regolarmente e su base quotidiana almeno una mezza dozzina di pazienti analitici e che continuava a fornire consulenze. Una delle ragioni del successo di Freud aveva a che fare col suo stile caratterizzato da quella che potremmo definire una modalità mitteleuropea che, considerata con la visuale ristretta di una prospettiva americana contemporanea, poteva assomigliare a una forma di ipocrisia. Poteva succedere, ad esempio, che Freud dicesse due cose diverse, esattamente sullo stesso argomento, a due diverse persone. Ci vuole molto fascino per sostenere questo tipo di bugie innocenti: e i membri della società della vecchia Vienna erano tra i più mistificatori e i più fuorvianti tra tutti gli europei. Parlando del lavoro di uno psichiatra italiano, Enrico Morselli, che aveva scritto delle cose sulla psicoanalisi attorno al 1920, Freud scrisse a uno dei suoi allievi affermando che “il lavoro di Morselli è completamente privo di qualsiasi valore, anzi l'unico valore che esso possiede è quello di costituire una prova inequivocabile del fatto che Morselli è un asino”. In quella stessa lettera, Freud chiedeva a questo suo allievo di scrivere una recensione accurata del libro in questione: “Le chiedo espressa mente di non risparmiargli neanche la più piccola critica”. Freud era ben felice di lasciare a qualcun altro il compito di impegnarsi in una polemica ufficiale. Questo gli permetteva infatti di rispondere personalmente a Morselli in tutt'altro tono, lodando il suo libro e definendolo “un'opera importante”; le critiche di Freud venivano invece espresse solo con toni molto prudenti e leggeri. Sentiamolo: 
 
Ho preso atto con dispiacere che Lei accetta la nostra giovane disciplina con moltissime riserve e ho dovuto accontentarmi di registrare la divergenza di opinioni esistente tra noi su alcune questioni molto complesse, rimanendo comunque nella certezza che il Suo libro contribuirà senz'altro in ampia misura a sollecitare l'interesse dei Suoi compatrioti per la psicoanalisi. 
 
Freud si impegnava qui in una specie di operazione di pubbliche relazioni, lodando apertamente un altro scritto di Morselli “senza alcun sentimento doppio, bensì con approvazione completa”. Al suo allievo italiano Edoardo Weiss, che conosceva già da più di dieci anni, Freud scriveva con una sorta di candore che esemplifica meravigliosamente il punto di vista di Henry James sulla differenza di sensibilità esistente tra europei e americani. Freud si mostrava infatti molto compiaciuto della recensione critica che il suo allievo italiano aveva appena finito di comporre: “Sono molto contento di vedere che Lei ha dimostrato ancora una volta a sé stesso il Suo coraggio e la Sua onestà, come sempre, del resto...”. E in una lettera successiva, Freud si lancia in un'invettiva contro Morselli che rischia di indurre nella sensibilità del lettore di oggi un vero e proprio sobbalzo: “Sarebbe interessante, da un punto di vista antropologico, sapere se quest'uomo è sempre stato un coglione di questa portata o se è divenuto tale soltanto sotto la spinta della senilità” (v. Roazen, 1975, pp. 501-2). Freud usava dunque grosse dosi di sdolcinatezza quando scriveva di persona a Morselli con una scelta che noi, oggi, da un lato rischiamo di equivocare, ma che dall'altro dovremmo anche tenere sempre a mente quando leggiamo le varie corrispondenze di Freud. Non dovremmo mai dimenticare che Freud aveva una causa da promuovere e che per difenderla era pronto a mostrarsi anche molto duro e irremovibile, e se necessario persino scorretto: e dal momento che poteva contare sul fatto che qualcun altro si facesse carico di demolire il libro di Morselli, lui poteva rispondere di persona allo stesso Morselli con la delicatezza che abbiamo visto sopra. Non credo che Freud possa essere semplicisticamente accusato di essere una persona con due facce, a patto però che non ci si dimentichi qual era il suo costante obiettivo a lungo termine che egli non perdeva mai di vista, cioè a dire, la promozione della psicoanalisi. Quando si legge una qualsiasi delle tante lettere di Freud, ma anche una delle sue opere, è necessario non trascurare mai di cogliere le tonalità più sottili che spesso restano nascoste tra le righe, la musica di fondo che spesso rimane mascherata dietro le singole parole. La comunicazione di Freud con Morselli, ad esempio, si inserisce in un progetto molto più allargato che Freud aveva in testa. 
A volte, Freud poteva sembrare così privo di scrupoli da apparire quasi nei panni di un imbroglione. Ad esempio, nel contributo da lui firmato a una raccolta di saggi in onore di Romain Rolland, nel 1926 Freud scrive:
 
Uomo indimenticabile, quanta fatica e sofferenza deve aver patito per potersi innalzare a simili vertici di umanità! Già molti anni prima di incontrarLa, La stimavo come artista e apostolo dell'amore tra gli uomini. Anche io sono sempre stato un assertore dell'amore per il genere umano, non sulla base del sentimentalismo e dell'i-dealismo, ma per ragioni molto più concrete ed economiche: perché davanti alle pulsioni istintuali e al mondo così per come esso è, sono stato spinto a considerare questo amore come uno strumento indispensabile per la conservazione della specie umana, né più né meno, per così dire, di quanto lo sia la tecnologia (Freud, 1961, p. 365).
 
Al di là dello stile brillante di cui Freud era capace quando scriveva qualcosa destinato alla pubblicazione, e ben sapendo che Rolland era stato insignito del Premio Nobel, per anni Freud aveva considerato l'amore per il genere umano come una sublimazione dell'omosessualità. E in questo caso, viene il sospetto che Freud non pensasse che i sentimenti sublimati fossero poi così distanti dalle loro radici pulsionali, radici che egli considerava con atteggiamento del tutto sfavorevole. Nel suo Il disagio della civiltà (Freud, 1930), non aveva esitato minimamente a spiegare perché mai credeva che l'amore per il genere umano fosse al contempo irrealistico e indesiderabile. In un certo senso, Freud aveva lasciato trapelare i suoi sentimenti più veri anche nella lettera a Rolland, quando aveva messo l'amore per il genere umano sullo stesso livello della necessità della tecnologia, un elemento che Freud, al pari di molti suoi contemporanei in Europa, considerava bene che andasse con sentimenti misti. Gli americani hanno sempre avuto molte difficoltà ad accettare i modi continentali di Freud e tendono senz'altro a considerare “doppio” il suo modo di fare ad esempio in un caso come quello di Morselli. Agli occhi degli europei, invece, gli americani appaiono come dei veri e propri selvaggi: per Freud sarebbe stata semplicemente una scelta barbara quella di trattare un estraneo, quale era Morselli, nello stesso modo in cui si poteva invece trattare una persona con la quale si era in rapporto di intimità e di fiducia, come appunto Weiss. Gli americani tendono a non condividere la distinzione, tipica degli europei, tra vita pubblica e vita privata.
 

Parte IV (Il viaggio di Freud in America )
Nel corso dell'unico viaggio che fece in America nel 1909, Freud si fece l'idea, destinata a trasformarsi in una convinzione perenne, che gli americani fossero dei barbari: c'è un elenco pressoché infinito di rimproveri che Freud si sentiva di poter sollevare nei confronti dell'America. I colleghi americani si rivolgevano a lui chiamandolo per nome, lo facevano sedere per terra nel corso di interminabili grigliate all'aperto, e si ostinavano a continuare a chiedergli quali prove aveva a sostegno delle teorie che sosteneva. Nel 1909 Freud aveva già cinquantatré anni e non considerava le persone che incontrava come suoi pari. Dava per scontato che fosse appropriato mantenere un certo tipo di distanza tra se stesso e gli altri, un'idea, questa, che i suoi entusiasti colleghi americani invece non condividevano affatto. Non deve dunque stupire più di tanto che William James fosse giunto alla conclusione che Freud fosse una persona ossessionata da una serie di “idee fisse” (v. Roazen, 1975). Un analista viennese di mia conoscenza mi disse una volta che riusciva benissimo a immaginare che un americano, all'atto di incontrare Freud, potesse rivelarsi così grossolano da chiedergli ad esempio notizie delle sue sorelle (cioè di persone non appartenenti al mondo intellettuale). Per quanto Freud si fosse prefigurato di trovare rinfrescante il candore di cui gli americani sono così tipicamente in possesso, egli poteva però ben anche risentirsi di tutte le forme di intrusività presuntuosa nel suo lavoro, per non dire di quelle nella sua vita privata. 
La reazione degli americani nei confronti di Freud è sempre stata più positivistica e pragmatica di quanto egli non gradisse. Freud pensava di accingersi a una sicura conquista quando scelse come argomento delle sue conferenze americane del 1909 una serie di argomenti pratici come la terapia e l'utilità dello studio della vita onirica. Ai suoi occhi, questi temi potevano essere compresi nel modo migliore se inseriti nel contesto più ampio dell'intero quadro concettuale allargato che egli andava proponendo. Sebbene io dubiti che Freud avrebbe potuto essere più di tanto compiaciuto alla vista di ciò che Jacques Lacan, alcuni decenni più tardi, avrebbe fatto della psicoanalisi a Parigi, tutta la reazione francese post-1968 contro Freud è stata strettamente fondata sull'intento freudiano implicito di mantenere la psicoanalisi legata ai problemi più antichi pertinenti al pensiero morale ed etico. Non è facile seguire fino in fondo quali fossero le intenzioni ultime di Freud dato che più di una volta egli ha esplicitamente rifiutato di pensare che la filosofia potesse costituire una componente legittima della psicoanalisi e ha spesso sconfessato chiunque volesse considerare la sua posizione come quella di un teorico etico. 
Ma se un autore come Lacan, e come molti altri teorici al pari di lui, hanno potuto pensare di stare muovendosi sulle tracce delle intenzioni più genuine di Freud, credo che essi abbiano fatto un'operazione corretta quando hanno inserito nella loro prospettiva anche le preoccupazioni più terra terra che da sempre costituiscono un punto di interesse per i più pragmatici americani. Anche Freud, ovviamente, desiderava che nel trattamento si verificassero dei risultati terapeutici, ma al tempo stesso cercava anche di fare in modo che i suoi insegnamenti non si basassero completamente sulla questione del successo o del fallimento della pratica terapeutica. La reazione americana nei confronti del suo pensiero apparve sempre a Freud come una reazione troppo immediata, mal diretta e non sufficientemente astratta. L'atteggiamento di critica allargata contro il pensiero freudiano che si è andata diffondendo in così ampia misura negli Stati Uniti in questi anni '90 potrebbe non essere altro che una conferma dell'antica diffidenza di Freud davanti all'iniziale ottima accoglienza riservata dagli americani alle sue idee. 
Un aspetto che crea confusione quando si cerca di seguire il corso del pensiero di Freud è costituito dal fatto che moltissime delle persone che sono state attratte dal suo movimento erano motivate da qualche forma di idealismo umanitario che Freud tendeva invece a non possedere affatto. Giovane uomo molto desideroso di sposarsi, spinto dalla “loquacità” indotta da “quel po' di cocaina” che aveva appena assunto, Freud scriveva alla donna che sarebbe presto diventata sua moglie raccontandole di come Josef Breuer, all'epoca suo maestro, avesse scoperto che “sotto una superficie di timidezza esiste in me un essere umano estremamente coraggioso e senza paura”. Freud proseguiva poi: “Ho sempre pensato che le cose stessero così, ma non avevo mai osato confessarlo a nessuno. Ho avuto spesso la sensazione di aver ereditato tutto il coraggio e la passione con cui i nostri antenati difesero il Tempio, e sarei felice di sacrificare la mia stessa vita per un grande momento della storia” (Freud, 1961, p. 215). Freud era un combattente appassionato che sapeva attirare altre persone fatte come lui a partecipare alla costruzione dell'edificio che egli stava creando
 
Parte V (Freud e Victor Tausk)
Vorrei considerare per un momento Victor Tausk e l'episodio della sua morte come l'esempio di una persona, entrata nella vita di Freud, sulla quale mi è capitato di ragionare diffusamente. In quanto leader del movimento psicoanalitico, Freud tendeva a sollecitare nei suoi allievi un'ampia gamma di emozioni molto intense, spesso in persone che venivano attratte nel suo campo di indagine a causa delle loro difficoltà personali irrisolte. Tausk era stato appunto un uomo che aveva cercato, e ricevuto, l'assistenza di Freud: aveva poi finito per decidere di entrare nella facoltà di Medicina sull'onda della decisione di divenire a sua volta analista; e di fatto, Tausk fu uno dei primi analisti a mostrare interesse nel progetto che mirava a estendere le intuizioni di Freud al campo della psichiatria e all'area delle psicosi. Nonostante la dimensione notevole che Tausk era riuscito a raggiungere, alla fine del 1918 Freud, dopo aver rifiutato diverse volte le ripetute richieste di Tausk di entrare in analisi personale con lui, decise infine di inviarlo a una sorta di ultima arrivata nel mondo della psicoanalisi, Helene Deutsch, che Freud aveva da pochissimo tempo iniziato ad analizzare di persona.
Tutta questa triangolazione tra Freud, Tausk e Helene Deutsch deve aver finito probabilmente per esacerbare i problemi di Tausk anche se è possibile concedere a Freud il beneficio del dubbio e pensare che egli abbia comunque cercato di fare del suo meglio, pur mantenendosi a distanza di sicurezza, per cercare di aiutare questo suo allievo sicuramente molto disturbato. Oggi sappiamo che lungo tutto il corso della sua carriera di analista Freud si era ritrovato spesso in situazioni in cui raggiungeva un livello di intimità e di immedesimazione di una tale intensità che si ha ragione di chiedersi come mai egli potesse continuare a essere così ambizioso da pensare di potersi comunque mantenere nella possibilità di capire in qualche modo cosa diavolo stava succedendo alle persone da lui analizzate. Esistono anche altri gruppi di intellettuali moderni che hanno manifestato la tendenza a scambiare livelli molto elevati di intimità in un modo che, ai nostri occhi, sembra quasi non umano (per non dire osceno). Sto pensando, ad esempio, al circolo di persone che si riunivano attorno a Jean-Paul Sartre e a Simone de Beauvoir, una vicenda che la de Beauvoir finì anche per raccontare in forma romanzata nel suo L'invitata del 1943 (ma anche il gruppo inglese di Bloomsbury aveva manifestato una serie di comportamenti simili). L'abitudine di certi intellettuali di dormire insieme e di scambiare con gli amici e le amiche più intimi i dettagli delle proprie situazioni non differisce più di tanto dalla condizione di Freud, che aveva in analisi Helene Deutsch mentre questa aveva in analisi Tausk.
Vengono in mente subito tantissime altre situazioni della storia della psicoanalisi in cui questa vischiosità di atteggiamenti si è andata verificando: 1) Freud che analizza sua figlia Anna; 2) Freud che analizza contemporaneamente Sandor Ferenczi e la sua figliastra, con la quale Ferenczi stava avendo una storia; 3) Freud che analizza contemporaneamente Ruth Brunswick, suo marito Mark e suo cognato David; 4) Anna Freud che analizza i figli della sua più cara amica, Dorothy Burlingham. La lista potrebbe essere prolungata quasi all'infinito, potendo ad esempio arrivare a comprendere Erich Fromm che analizza la figlia della sua amante Karen Horney. La storia dei primi anni della psicoanalisi trabocca di esempi di questo genere, cioè di veri e propri casi di violazione dei “normali” confini terapeutici. Al di là di quali fossero le regole di distacco e di neutralità che Freud poteva cercare di stabilire per gli altri, per quanto riguardava invece se stesso e la cerchia dei suoi favoriti egli sembra aver pensato di trovarsi in un certo qual modo al di là dei limiti convenzionali del bene e del male. La situazione messa in piedi tra Freud, Helene Deutsch e Tausk non aveva funzionato e Freud diede quindi a Helene la consegna di interrompere o la sua analisi con Freud o il suo trattamento di Tausk, il quale era travolto dalla rabbia verso la sua analista per la competizione che era stata messa in atto nei confronti di Freud (Helene, dopo aver riempito ogni sua singola seduta di analisi con Freud di notizie sul suo lavoro con Tausk, aveva finito per considerare un ordine quello di portare a termine la sua analisi con Tausk). Alcuni mesi più tardi, subito prima di uccidersi, Tausk spedì a Freud un lettera di commiato dalla vita, in cui gli segnalava di sentirsi in pace verso di lui: 
 
La ringrazio per tutto il bene che mi ha fatto. Lei ha fatto davvero tantissimo per me e ha dato un significato agli ultimi dieci anni della mia vita. Il Suo lavoro è sincero e immenso. Me ne vado da questa vita forte della consapevolezza di essere stato uno di coloro che hanno potuto assistere al trionfo di una delle più grandi idee prodotte dal genere umano.
 
La devozione di Tausk verso Freud e il sacrificio della sua stessa vita costituiscono una testimonianza tragica del pedaggio che doveva essere pagato per il successo degli insegnamenti di Freud. Paul Federn, a sua volta un analista e un caro amico di Tausk, un uomo dotato di una visione pressoché illimitata di ciò che la psicoanalisi avrebbe potuto dimostrarsi in grado di compiere, convinto com'era che essa sarebbe stata presto estesa al trattamento degli psicotici, finì comunque, all'epoca del suicidio di Tausk, per addebitare in privato a Freud la morte di Tausk. 
Ecco cosa scrive Federn alla moglie di Tausk: 
 
La motivazione della sua morte è stata il voltafaccia al quale Freud lo ha sottoposto. Mi è dispiaciuto così tanto per lui (..) Se Freud gli avesse dimostrato almeno un minimo interesse umano, e non un generico riconoscimento e sostegno, forse suo marito avrebbe potuto continuare a sopportare ancora per un po' la sua esistenza da martire (..) Ma Freud non ha mostrato per lui nemmeno un centesimo della gentilezza che è in grado di mostrare: voglio dire che Freud possiede così tanto amore per le persone che è certamente capace di mostrarsi molto gentile, ma invecchiando è diventato sempre più duro. Sarà per sempre la nostra vergogna non aver saputo tenere Tausk ancora con noi. (N.d.A.: In una traduzione più letterale, al posto dell'aggettivo “gentile” che compare nella lettera di Federn si potrebbe inserire “buono”).
 
La reazione di Freud alla morte di Tausk ci dimostra come egli si sentisse nel pieno di una tragedia umana, il che dovrebbe spingerci ad astenerci dall'imporre alla valutazione di questo episodio un atteggiamento censorio. L'autodistruzione di Tausk costituiva l'atto centrale di un racconto che si era andato costruendo per anni: la presa di distanze da parte di Helene Deutsch rispetto alle sue responsabilità terapeutiche, così come l'incapacità di Freud di reagire alla morte di Tausk se non con una sensazione di sollievo collegata al fatto che egli si fosse infine levato di torno, sono soltanto aspetti marginali di tutta questa storia. Continua comunque a colpirci la lettura di ciò che Freud scriveva sulla morte di Tausk a Lou Andreas-Salomé, che in passato era stata intima amica di Tausk (e prima che di lui, anche di Nietsche e di Rilke): “Devo confessarLe che non ne sento affatto la mancanza: già da tempo lo consideravo una persona del tutto inutile, anzi una minaccia per il futuro della disciplina” (v. Roazen, 1969). Queste righe erano state espunte dalla prima pubblicazione della corrispondenza tra Freud e Lou Andreas-Salomé e sono state reintrodotte nel carteggio soltanto dopo che io, per primo, le ho pubblicate per iscritto nel mio volume del 1969. 
Nella sua commemorazione ufficiale di Tausk, Freud si mostra invece quasi adulatorio: “Nella storia della psicoanalisi e delle sue prime lotte la figura di Tausk sarà certamente ricordata con onore” (Freud, 1919, p. 135). Che cosa stava facendo Freud, che da un lato dava alle stampe un elogio pubblico della figura di Tausk (pur esprimendo alcune riserve a proposito di qualche suo lavoro) e contemporaneamente scriveva di lui con una tale freddezza a Lou Andreas-Salomé? Le persone con cui Freud corrispondeva hanno conservato per anni tutte le sue lettere, un'ipotesi su cui Freud amava scherzare, considerandola un'ottima idea, durante gli anni della sua adolescenza, e nel caso di Lou, troviamo una persona che ha conservato anche una copia delle lettere da lei inviate a Freud. Ma Freud aveva anche pubblicato uno scritto in onore del cinquantesimo compleanno di Ernest Jones pur continuando, in privato, a esprimere tutto il suo disappunto nei confronti di Jones; e anche il suo scritto commemorativo nell'occasione della morte di Ferenczi suonava una musica del tutto diversa da quella che Freud esprimeva nelle sue annotazioni private indirizzate a Jones quando Ferenczi era ormai nei suoi ultimi giorni di vita. Freud faceva parte di un mondo in cui queste diverse sovrapposizioni di significati potevano essere considerate del tutto norma li, anche se quando le riconsideriamo noi, dalla nostra prospettiva attuale, possiamo fare molta fatica a tollerarne tutte le discrepanze. 
Nel caso di Tausk, così come in quello di altre calamità verificatesi nel corso della carriera di Freud, veniva perduta una vita umana nel percorso di Freud verso il suo storico “trionfo”. Credo sia una componente ineliminabile della tragedia il fatto che ciascuna delle figure che vi sono coinvolte non possano fare a meno di agire così come agiscono e non possano fare altro che rimanere cieche davanti alle conseguenze delle loro stesse azioni. La tragedia può anche non essere “bella”, e di certo non rientra in quella che William Dean Howells chiama la parte “sorridente” della vita, ma rimane pur sempre una componente intrinseca dell'esistenza umana. Shakespeare è il maestro universale che meglio di ogni altro è stato capace di descrivere queste esperienze dolorose dell'essere umano. Non è stato certo facile per il principe Hal sbarazzarsi di Falstaff nella sua scalata verso il trono. Lear ci commuove per la natura così chiaramente drammatica della sua condizione. E lo stesso vale per Otello, per Macbeth e per tanti altri personaggi di tante altre tragedie. 
A Freud non è capitato soltanto di prendere parte attiva a queste tragedie che si verificavano all'interno dello stesso movimento da lui fondato, ma ha anche teorizzato l'inevitabilità di questi conflitti tragici nella vita delle persone. Una delle reazioni più comuni dell'opinione pubblica davanti alla descrizione del dilemma conflittuale di cui ci parla Freud è quella di respingerla: Freud infatti ci dice che dobbiamo pagare un prezzo per ciascuna delle nostre conquiste e che ogni nostro successo fonda le sue basi su qualche perdita. Gli americani, tutt'al contrario, hanno sempre mostrato la peculiarità di credere che tutte le cose buone abbiano la tendenza a raggrupparsi insieme e che possano avvenire in assenza del minimo costo morale. La Dichiarazione di Indipendenza ha definito in termini inequivocabili il diritto di ciascun cittadino alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, e i nostri ideali nazionali sembra no intrinsecamente coerenti con questi dettami. 
E dunque, quando un'autrice freudiana come Helene Deutsch descriveva l'esistenza di un conflitto tra maternità e sessualità, la cosa suonava offensiva alle orecchie di coloro che si battevano in difesa della possibilità di giungere al pieno compimento dell'emancipazione femminile. Per un europeo è molto più facile rendersi conto del modo in cui i valori tendono a stare in conflitto l'uno con l'altro. In questi ultimi anni, i sostenitori entusiasti delle sorti magnifiche e progressive della psicofarmacologia hanno mostrato la forte tendenza a sottostimare i costi umani presenti nell'atto di assumere una pillola. Freud continua sempre a ripeterci che, da un punto di vista morale, non esiste nulla di paragonabile a un'azione libera
 
Parte VI (Osservazioni sul carattere di Freud)
Coloro che mostrano maggiore predisposizione a sottolineare soltanto gli aspetti di continuità col passato e tendono invece a trascurare le cesure, riescono forse con maggiore facilità a liquidare Freud con un tratto di penna. Freud ha sempre favorito le visioni più complicate delle cose in un modo che può essere difficile da digerire. Ad esempio, quando ci parla di certi pazienti “speciali”, segnalando il bisogno particolare di prestare attenzione al loro trattamento, ne deriva, per deduzione logica, che egli intenda dire che esistono anche altri pazienti da lui considerati come dei buoni a nulla, privi di valore. Il principio cristiano che mette l'accento sulla preziosità di ogni singola anima individuale non sembrava attirare in modo particolare Freud, che amava invece dimostrare spiccate preferenze nei confronti delle persone con le quali decideva poi di lavorare insieme. Egli non ha mai pensato di affermare che la psicoanalisi potesse funzionare bene per tutti, specificando viceversa che essa si adattava bene soltanto alle poche persone superiori che egli riteneva potessero essere prese come modelli del genere umano. 
Il sistema che Freud desiderava presentare era una costruzione messa insieme in modo molto elaborato che dava vita a un'interessantissima struttura intellettuale: tocca a noi, oggi, rispondere ad essa, selezionando ciò che ci sembra possa rimanere valido ed eliminando il resto. Freud si poneva nei confronti del futuro con un atteggiamento fortemente individualistico, pur riuscendo a rimanere più modesto rispetto ai risultati da lui raggiunti di quanto non avrebbero poi fatto alcuni dei suoi seguaci più fanatici. Melanie Klein, per esempio, arrivò a un certo punto a raccomandare che tutti i bambini venissero psicoanalizzati e a suggerire che fosse auspicabile che ciascun paziente giungesse a risperimentare una condizione psicotica nel corso della sua analisi. Freud mantenne invece sempre un atteggiamento piuttosto riservato a proposito dell'analisi infantile e si dimostrò sempre più scettico dei suoi allievi sui risultati terapeutici o profilattici che si poteva pensare di raggiungere con la psicoanalisi. Ma quando si trattava di ragionare in termini di comprensione, Freud era convinto di avere creato una scienza dell'inconscio, una disciplina che poteva anche non essere intuibile di primo acchito ma che a gioco lungo avrebbe comunque sicuramente finito per imporsi. 
Se riconsideriamo questa sua sicurezza con lo sguardo spassionato che è necessario in chiunque si accinga allo studio della storia delle idee, rischiamo di farci accusare dai suoi fedeli più accaniti di voler intraprendere una liquidazione silenziosa dell'impresa freudiana. Ma agli storici delle idee spetta il compito del tutto particolare di ricreare un mondo oramai del tutto diverso da quello in cui viviamo noi ora, nel tentativo di allargare i nostri orizzonti e di arricchire la nostra concezione di ciò che potrebbe essere umanamente plausibile. Riconsiderare Freud senza inserirlo in un determinato contesto, come avviene ad esempio in quasi tutte le riviste psicoanalitiche contemporanee, significa inevitabilmente distorcerne la figura. Citarlo come un punto di riferimento per la risoluzione delle nostre attuali preoccupazioni, senza essere consapevoli di tutte le complessità che entrano in gioco quando lo si legge, contribuisce a coltivare un falso modello di idealizzazione. 
È fuor di dubbio che Freud potesse anche arrivare a mostrarsi persino spietato quando doveva difendere la causa che aveva cercato di promuovere per tutto il corso della sua vita. La lettura del Solzhenitsyn di Lenin a Zurigo mi sembra un ottimo esempio del modo in cui può arrivare a muoversi un rivoluzionario spirituale. Il mondo, di fatto, tende a premiare queste visioni monofocalizzate. Le anime più prudenti e di vasta apertura mentale, almeno nella storia della psicoanalisi, sono state quelle di cui ci si è dimenticati più in fretta. In perfetta sintonia con un popolare adagio americano, attribuito a Leo Durocher, le brave persone arrivano ultime. 
La fondamentale intolleranza di Freud non confliggeva però con la sua capacità, ad esempio nel suo rapporto quotidiano con i pazienti, di mostrare un grado insolito di tolleranza, di tatto e di comprensione. Nel suo rapporto con la storia, però, la sua tendenza era chiaramente quella di arrivare a stabilire in modo definitivo il primato del suo sistema. Altri grandi uomini, ad esempio certi personaggi del mondo della politica come Churchill o de Gaulle, erano a loro volta mossi dalla determinazione di trasformare il mondo e di farlo muovere in una certa direzione. Freud aveva concentrato tutta la sua visione delle cose sul mondo delle idee: e al tempo stesso coordinava gli sviluppi di un movimento fortemente organizzato di suoi allievi, al quale aveva assegnato il compito di rendere stabili le sue acquisizioni. 
Se lo consideriamo al di fuori del contesto della società in cui visse, Freud non emerge con la stessa pregnanza con cui spicca al nostro sguardo se invece lo consideriamo in prospettiva. Credo che la figura di Freud continui a rimanere a tutt'oggi di estremo interesse, un risultato che egli aveva deliberatamente cercato di raggiungere, ad esempio, quando si nascondeva dietro ad affermazioni dalle tonalità quasi diaboliche: ogni singolo volume delle sue lettere, man mano che arriva alla nostra attenzione, non fa che aggiungere ulteriore fascino alla complessità che permea la fatica di chiunque cerchi di comprendere appieno la sua figura. Non rende un buon servizio al pensiero freudiano l'idea di censurare il contenuto delle sue lettere (ad esempio, truccando certi passaggi od omettendone altri), anche quando il suo pensiero si impegna nelle direzioni più clamorose. La sua tendenza ad autoincensarsi non è certo stata superiore a quella mostrata da tutti gli altri grandi leader. E grazie alla sua capacità di utilizzare un'ironia distaccata, Freud riusciva talvolta a sembrare persino utopistico: quando infatti liquidava come superstizione l'intero edificio delle religioni organizzate e denunciava la fede in Dio come un'inutile stampella nevrotica, si baloccava nella descrizione di un ideale del modo in cui il mondo avrebbe potuto funzionare in totale assenza di illusioni: “Se distoglierà dall'aldilà le sue speranze e concentrerà sulla vita terrena tutte le forze rese così disponibili, [l'uomo] riuscirà probabilmente a rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più oppressiva per alcuno” (Freud, 1927, p. 479). Questa venatura di utopismo ha continuato ad attrarre una lunga serie di seguaci appassionati, come risulta ben testimoniato dal lavoro di Herbert Marcuse e di altri autori. 
C'è ancora un altro aspetto di Freud, cioè la sua tendenza a essere caustico quando non addirittura amaro, che con tutta probabilità rischia di essere letta dai nostri contemporanei come una modalità “poco bella”. Potrebbe anche essere, in ultima analisi, soltanto una questione di gusti o di preferenze personali avente per oggetto i pensatori che ciascuno di noi sceglie infine di adottare come suoi eroi. Se prendiamo ad esempio la storia della Corte Suprema degli Stati Uniti, non mi pare per nulla scontato che Louis Brandeis, con il suo caloroso idealismo, debba essere considerato superiore al ben più secco Oliver Wendell Holmes Jr. Nel caso di Freud, mi sentirei di dire che la questione della sua statura viene in parte messa a margine dall'ampiezza della sua influenza. Nessun altro autore ha avuto un impatto maggiore del suo sul nostro pensiero e tutto il contenzioso che continua a circondare il suo nome mi sembra la prova più evidente del fatto che egli si sia imposto in modo ormai duraturo come un autore imprescindibile. 
Un uomo meno austero di lui avrebbe sicuramente potuto ottenere un successo inferiore: e un uomo che fosse più amabile dal punto di vista intellettuale avrebbe quasi certamente finito per lasciare che le sue intuizioni si dissipassero nel miele del suo desiderio di risultare comunque gradevole. Così per come è, Freud continua a sollevare infinite controversie, e questo fenomeno può essere in parte attribuito alla sua durezza. Il suo atteggiamento di provocatorietà quasi cosmica, che è in parte alla base del suo superamento del tradizionale rifiuto di parlar male delle persone morte in ragione del timore superstizioso della loro ritorsione, ha fortemente contribuito a consentirgli di diventare il conquistatore che egli è realmente diventato. La storia delle idee ha dovuto trovare un modo per adattarsi ai movimenti di questi grandi costruttori di sistemi. E quando ci viene la tentazione di respingere alcune delle più feroci autoconvinzioni espresse da Freud, questo non fa altro che sottolineare la distanza siderale a cui ci troviamo rispetto allo stile e alle capacità di un apripista del pensiero quale appunto Freud è stato. 
Parlare dell'asprezza di Freud e degli aspetti più oscuri del suo messaggio non vuol dire che egli non sia stato capace, nel corso della sua vita, di tanti altri momenti di maggiore modestia. E il modo migliore per dare maggior equilibrio a quella che altrimenti rischia di essere una descrizione troppo acida della sua persona consiste nel richiamare alla mente lo straordinario senso dell'umorismo di cui egli era dotato. I suoi pazienti riferiscono tutti di quanto spesso egli ricorresse a qualche barzelletta ebraica per meglio illustrare loro, nel corso delle loro analisi, certi tipici dilemmi umani. E il suo libro Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio (Freud, 1905) è una delle opere più complesse che egli abbia mai scritto, che oggi riscuote invece solo un livello minimo di attenzione. Quel volume è pieno di decine di esempi tratti dalla saggezza popolare che possono essere comunicati facendo uso di una battuta di spirito. Del freddo cinismo di cui Freud poteva essere capace abbiamo numerose citazioni. Ma sappiamo anche qualcosa, ad esempio, di quanto egli avesse apprezzato l'apparizione pubblica di Mark Twain a Vienna. Al pari di ogni altra figura complessa, anche Freud aveva moltissime contraddizioni, ma egli ha saputo comunque metterle insieme per dar vita a quella grandiosa opera scritta che ci ha lasciato e che è ancora capace di sollevare i nostri accesi dibattiti a quasi un secolo di distanza.
 
Riassunto. Partendo dalla rivisitazione della figura di Freud, individuato come personaggio ricco di contraddizioni e idiosincrasie, ma comunque del tutto meritevole di essere ancora discusso e studiato ai giorni nostri, l'autore si interroga sul senso che bisogna dare alle operazioni di ripensamento contemporaneo dei pensatori “storici” e conclude che una simile operazione ha senso soltanto se condotta basandosi su una quanto più possibile precisa ricostruzione del contesto in cui l'autore che viene studiato si muoveva.

 
Summary. In his re-evaluation of Freud, seen as a figure filled with contradictions and idiosyncracies but anyway still worthy of being discussed and studied, the author wonders about what is the meaning one should give to the re-thinking from a contemporary perspective to the “historical” thinkers; his conclusion is that such a re-thinking can be meaningful only if it's based as precisely as possible upon a scrupolous reconstruction of the context which the thinker in question was living in.
 
Bibliografia
Freud, E.L. (1961), Letters of Sigmund Freud. London: The Hogarth Press.
Freud, S. (1905), Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio. OSF, vol.5, pp. 7-211. Torino: Boringhieri, 1972.
Freud, S. (1910), Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci. OSF, vol.6, pp. 213-284. Torino: Boringhieri, 1974.
Freud, S. (1919), Necrologio di Victor Tausk. OSF, vol.9, pp. 133-135. Torino: Boringhieri, 1977.
Freud, S. (1927), L'avvenire di un'illusione. OSF, vol.10, pp. 435-485. Torino: Boringhieri, 1978.
Freud, S. (1929), Il disagio della civiltà. OSF, vol.10, pp. 557- 630. Torino: Boringhieri, 1978.
Freud, S. (1932), Perché la guerra? OSF, vol.11, pp. 289-303. Torino: Boringhieri, 1979.
Jones, E. (1953), Vita e opere di Freud. Milano: Garzanti, 1977.
Ritter, A., Conaway, J. (1988), Rousseau's Political Writings. New York: Norton.
Roazen, P. (1969), Brother Animal: The Story of Freud and Tausk. New York: Knopf. Trad. it., Fratello animale. Milano: Rizzoli, 1973.
Roazen, P. (1975), Freud and His Followers. New York: Knopf. Trad. it., Freud e i suoi seguaci. Torino: Einaudi, 1998.
Roazen, P. (1991), Nietzsche and Freud: two voices from the underground. The Psychohistory Review, Spring 1991, pp. 327-349; Trad. it., Nietzsche e Freud: due voci dal sottosuolo. Psicoter. Sci. Um., XXXIII, 3: 55-76, 1999.
Rousseau, J-J. (1979), Reveries of the Solitary Walker. London: Penguin. Trad. it., Le meditazioni di un viandante solitario.
Sabine, G. (1950), A History of Political Theory. New York: Henry Holt.
Wilson, A.W. (1957), Diderot: The Testing Years. New York: Oxford University Press.

Questo articolo è tratto da Psicoterapia e Scienze Umane, 2000, XXXIV, 3: 5-26 ( www.psicoterapiaescienzeumane.it).

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