LACAN E IL LINGUAGGIO - L’inconscio strutturato come un linguaggio
Jacques Lacan è stato il primo analista a collegare la psicoanalisi al linguaggio, con il celebre aforisma: l’inconscio è strutturato come un linguaggio.
Abbiamo almeno tre accezioni diverse di questo assioma, che scandisce in tre tempi l’insegnamento lacaniano, messe in luce da Jacques-Alain Miller. Vi si vede all’opera il tentativo di Lacan di matematizzare l’inconscio, ma vi si vede anche il suo punto di impasse in questo tentativo.
Abbiamo almeno tre accezioni diverse di questo assioma, che scandisce in tre tempi l’insegnamento lacaniano, messe in luce da Jacques-Alain Miller. Vi si vede all’opera il tentativo di Lacan di matematizzare l’inconscio, ma vi si vede anche il suo punto di impasse in questo tentativo.
Giulio Paci "BIG BANG"
Nella prima accezione l’inconscio è un capitolo censurato del libro della storia del soggetto che non è più, o non ancora, a sua disposizione. Qui l’accento è portato sulla funzione della parola, parola del corpo che è il sintomo isterico, ma che è soprattutto parola che si svolge in analisi, di quella parola piena che potrà ristabilire la trascrizione dell’inconscio in quanto capitolo censurato.
Nella seconda accezione, l’inconscio è più direttamente correlato con il linguaggio e le leggi del linguaggio; qui abbiamo il tentativo di Lacan di significantizzare tutto e cioè di fare riassorbire totalmente la pulsione negli ingranaggi della catena significante.
Poi abbiamo una terza accezione, in cui l’inconscio è sì correlato con il linguaggio, ma bisogna arrendersi all’evidenza che non tutto della pulsione è significantizzabile, che c’è qualcosa, un godimento della pulsione, che è assolutamente refrattario all’ordine simbolico. Questo zoccolo duro del godimento, che resiste a ogni significantizzazione, Lacan lo chiama l’oggetto piccolo a. Quest’oggetto, che è dell’ordine del reale, non è significante, ma è preso nelle spire della catena significante.
Lacan parte dalla parola. La parola è l’unica materia del lavoro analitico. Certo, questo non basta per giustificare la psicoanalisi. Primo, perché non c’è esperienza umana che non sia esperienza di parola. Secondo, perché non si è dovuto attendere la psicoanalisi per sapere che le parole curano. Le religioni e la medicina lo sanno da sempre.
La parola, dunque, cura. E la psicoanalisi si serve del potere della parola per curare.
Una prima constatazione: la parola che si usa in psicoanalisi non ha proprietà particolari, ma ha le proprietà particolari che, sempre, ha la parola. Quindi la parola in psicoanalisi utilizza dei poteri che sono i normali poteri della parola.
Quali sono questi poteri della parola?
Un primo potere della parola consiste nel fatto che la parola, di per sé, esige una risposta. Non c’è parola che non sia domanda. Una domanda indirizzata a un altro. La parola, automaticamente, ha il potere di far sorgere l’interlocutore, colui che detiene la risposta. La parola dunque è alla base della relazione intersoggettiva.
Ora, che cosa si attende il soggetto dall’altro? Dall’interlocutore? Si attende, giustamente, grazie al potere dialettico della parola, di essere riconosciuto.
Potere dialettico della parola e intersoggettività sono le coordinate in cui, per molto tempo, Lacan aveva individuato l’essenza stessa della pratica psicoanalitica, che, all’epoca, 1953, aveva definito come una pratica che si fonda sull’intersoggettività. Riconosciamo qui il debito che l’inizio dell’insegnamento lacaniano deve alla filosofia di Hegel via Kojève.
In analisi il soggetto non si realizza nella parola vuota, che è la parola dell’io, una parola devitalizzata del suo valore dialettico e il cui interlocutore è l’altro immaginario, il proprio doppio simmetrico, il simile che si incontra o la propria immagine allo specchio, luogo delle identificazioni immaginarie. Il soggetto in analisi si realizza nella parola piena, che è la parola del soggetto, il cui interlocutore è l’Altro asimmetrico, l’Altro simbolico, da cui il soggetto si attende un’interpretazione simbolica, che è una parola che lo riconosca come soggetto, e gli permetta di integrare nel proprio discorso ciò che gli appare come un buco, come un capitolo censurato a cui non ha accesso direttamente.
Questa è la prima concezione che Lacan si fa dell’inconscio freudiano: un capitolo censurato che bisogna ricostruire per ristabilire la continuità del discorso cosciente. E la psicoanalisi è la pratica di questa parola che permette di restituire al soggetto la padronanza di questo capitolo mancante. Il desiderio che anima il soggetto in analisi è, almeno nel primo insegnamento di Lacan, un desiderio di riconoscimento, e lo psicoanalista è il testimone della verità che emerge nel soggetto.
Dalla funzione della parola, il riflettore viene spostato sulla struttura di linguaggio che si rivela nelle cosiddette formazioni dell’inconscio – sogno, lapsus, motto di spirito, atto mancato, eccetera – come si ritrovano nell’opera di Freud, per esempio nell’Interpretazione dei sogni, nella Psicopatologia della vita quotidiana, nel Motto di spirito e nei casi clinici. Lacan paragona Freud che decifra i crittogrammi del sogno a Champollion che decifra i crittogrammi di una lingua perduta. Inoltre viene sottolineato il fatto che l’organizzazione interna, che si manifesta nello svolgimento di quel blaterare particolare che è messo in funzione in ogni cura psicoanalitica e che risponde alla regola freudiana della cosiddetta associazione libera, si attiene alle stesse leggi del discorso inconscio, che Freud sintetizza nella condensazione e nello spostamento.
Tutte le formazioni dell’inconscio hanno struttura di linguaggio inteso nel senso di de Saussure: sono elementi discreti, articolati e rispondono a leggi proprie. Il soggetto non ha immediatamente accesso alla comprensione dell’inconscio poiché si tratta di un linguaggio cifrato, un linguaggio da decodificare, un linguaggio che si svolge al di fuori dell’individuo, ma che lo interessa in modo eminente poiché trasporta la sua propria questione di soggetto.
L’inconscio è un Altrove - cito Lacan[1] - “luogo presente per tutti e chiuso ad ognuno in cui Freud ha scoperto che, senza che ci si pensi, e dunque senza che qualcuno possa pensare di pensarci meglio di un altro, c’è chi pensa, ça pense. Che pensa piuttosto male, ma pensa fermamente: Freud annuncia l’inconscio proprio in questi termini: pensieri che, anche se le loro leggi non sono affatto le stesse di quelle dei nostri pensieri, nobili o volgari, di ogni giorno, sono però perfettamente articolati”.
L’inconscio ha quindi una struttura come quella del linguaggio, e cioè è una combinatoria di elementi discreti.
In questo contesto l’inconscio non è più un capitolo censurato, ma è il luogo da cui il soggetto riceve il proprio messaggio che lo riguarda come tale. In altre parole la sua stessa condizione di soggetto, sia che sia nevrotico, psicotico o perverso, “si costituisce in funzione dell’Altro”[2]
In questa nuova ottica, per il soggetto, la risposta alla sua questione è situata nel luogo dell’Altro. Si avrebbe torto, e sarebbe ridicolo, identificare questo Altro con l’analista. Questo Altro non è un altro soggetto, uomo o dio che sia, ma è il luogo dove l’insieme dei significanti di un individuo (i suoi sogni, gli atti mancati e anche quelli riusciti, il suo blaterare in analisi e i suoi sintomi stessi) svolgendosi, rivelano un senso, senso che dà la risposta che il soggetto si attende rispetto alla sua propria questione, che riguarda, in fondo, il fatto di essere vivente e di essere sessuato. Il soggetto non trova la propria identità, ma trova solo dei significanti che lo rappresentano in una catena di cui non è padrone, ma di cui è piuttosto l’effetto. I sintomi, i sogni, i lapsus sono altrettanti significanti della questione del soggetto, depositata nell’Altro. A questo punto non ci si attende più un riconoscimento, da questo Altro, ma un’interpretazione: qui il desiderio non è più un desiderio di riconoscimento, ma un desiderio di interpretazione. Lo psicoanalista ora non è più il testimone della verità del soggetto che emerge, ma riveste, per l’analizzante, le vesti del soggetto supposto sapere – che è il fulcro e la molla di tutto lo sviluppo del transfert. In altre parole l’analista diventa il rappresentante di questo luogo Altro da cui l’analizzante si attende il senso dei sintomi di cui soffre, sintomi che sono i significanti enigmatici della sua questione di soggetto.
Per questo Lacan fa ricorso alla linguistica, piegandola però alla problematica del funzionamento dell’inconscio. Da una parte Lacan ricorre alla linguistica saussuriana: significante e significato. E dall’altra, a Roman Jakobson: metafora e metonimia.
Lacan identifica ciò che è rimosso con il significante, e tutto ciò che si costruisce a mano a mano, come sintomi sul rimosso primordiale, è ancora una costruzione di significanti; significanti che possono sempre essere considerati nella loro sincronia, e cioè come un testo da decifrare.
Il soggetto è l’effetto della sostituzione di questi significanti, che lo rappresentano; movimento inaugurato dalla metafora paterna, espressione con cui Lacan designa la funzione del padre in esercizio nel complesso edipico.
A questo livello il discorso inconscio si manifesta secondo una struttura di relazione dei significanti tra di loro, orientata da questi due assi: l’asse della sincronia e l’asse della diacronia.
Il sintomo diventa metafora e gli enigmi del desiderio inconscio si spiegano nel movimento metonimico in cui sono presi.
Nella terza accezione, l’inconscio è sì strutturato come un linguaggio, ma non tutto nell’inconscio è significante. Non tutto il godimento pulsionale è significantizzabile e può essere metabolizzato nella catena significante. C’è un godimento che è estraneo all’ordine del significante e quindi non è riconducibile al sapere: questo zoccolo duro del godimento pulsionale, che resiste a ogni significantizzazione, Lacan lo chiama oggetto piccolo a.
Il valore dell’opera di Lacan risiede nell’aver circoscritto questo nocciolo duro che resiste a ogni simbolizzazione, e di averlo messo in relazione con tutti gli altri elementi dell’inconscio, che invece sono leggibili come sapere trasmissibile.
Quando il movimento pulsionale si manifesta e cerca il suo godimento tramite l’oggetto, entra nella catena significante e produce il movimento desiderante. Il desiderio tende allora verso l’oggetto, ma l’oggetto del desiderio è sempre al di là dell’oggetto trovato (per esempio, si rivela impossibile nella nevrosi ossessiva e insoddisfacente nell’isteria). In un secondo tempo Lacan distinguerà l’oggetto verso cui tende il desiderio dall’oggetto che invece lo causa del desiderio: uno è a valle, l’altro è a monte del desiderio.
La clinica freudiana, quest’oggetto, che è sempre al di là dell’oggetto eventualmente trovato, ce lo presenta, nelle fantasmatizzazioni e nelle formazioni dell’inconscio, tramite il fallo. Il fallo non è né un oggetto (parziale, intero, buono o cattivo), né un organo (pene, clitoride o seno), ma è un significante, il significante di questo scivolamento metonimico del desiderio stesso (il fallo è la significazione).
Questa equazione, fallo = significante, permette di comprendere le due facce della clinica psicoanalitica, poiché è a causa di questa equazione che la psicoanalisi, intesa come pratica di parola, è equivalente alla psicoanalisi, intesa come la clinica della realtà sessuale dell’inconscio.
Il fallo è contemporaneamente immaginario e simbolico. In quanto partecipa del campo immaginario esso si dispiega con estrema varietà in immagini e in fenomeni. Dall’altro lato appartiene al campo del simbolico, poiché è un significante, anzi un significante particolare poiché il suo significato non c’è; o meglio il significato ci sarebbe se esistesse quel mitico oggetto perduto freudiano che corrisponde alla rimozione originaria, a quel godimento primordiale che è interdetto all’uomo in quanto tale. E’ un significante, quindi, di un vuoto, di un niente, o meglio di una mancanza strutturale di godimento, che è alla base del suo essere uomo e parlante.
L’articolazione tra la parola e il godimento sarà l’ultima tappa dell’insegnamento di Lacan sulla questione.
Se prima la parola serviva a staccare il godimento (per esempio il godimento mortifero del sintomo) dal soggetto, rimettendolo in circolazione nella catena significante, ora viene sottolineato il fatto che il godimento e la parola sono due facce della stessa medaglia, come dimostra la cifratura compiuta del lavoro dell’inconscio e il deciframento compiuto dell’interpretazione, ma anche come dimostrano le voci degli psicotici, gli scritti dei mistici e la poesia.
Da un intervento tenuto a un Convegno di psicoanalisi (di diversi orientamenti), Roma, 1996.
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