L'etica della psicoanalisi

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Nota editoriale de La Psicoanalisi, 16, 1994

L'etica è e diventerà sempre di più il punto nodale in cui si giocheranno le sorti del mondo moderno. L'etica e non la tecnica. I problemi che la scienza moderna solleva non richiedono molti stru­menti tecnici, ma soprattutto soluzioni etiche.
Figlia anch'essa della frattura epistemologica che ha dato nascita alla scienza moderna, la psicoanalisi potrà forse limitarsi a vestire unicamente i panni di una tecnica psicologica raffinata o quelli di un metodo curativo che insegna a fare a meno o a convivere con il proprio sintomo?
Lacan insegna che, fin dall'inizio e sulla scia delle grandi correnti del pensiero, la psicoanalisi non si riassume in una questione di tecnica ma in un problema di etica.
Abbiamo presentato in questi termini, sul quarto di copertina, la traduzione italiana del Seminario VII L'etica della psicoanalisi (1959-1960) di Jacques Lacan, recentemente pubblicato dalla casa editrice Einaudi, e di cui riportiamo sulla copertina del presente volume l'illustrazione dell'edizione francese, opera di Man Ray.
Il seminario sull'etica si presenta con una doppia dimensione: da un lato mostra che il testo freudiano, al di là dell'opacità provocata dai riferimenti alla psicologia e alla neurologia del tempo, esprime l'esigenza etica di Freud. Dall'altro, segna un'inversione radicale nell'insegnamento di Lacan. Fino ad ora l'inconscio strutturato come un linguaggio vuoi dire che tutto, nell'inconscio, è riducibile al signi­ficante. A partire da questo seminario non tutto, nell'inconscio, è riducibile al significante. Il funzionamento dell'inconscio è e rimane significante, ma esso gravita intorno a un punto che il significante non riesce a saturare. È, per ogni soggetto, la zona interdetta, il vuoto prodotto dall'oggetto perduto freudiano.
In questo numero La Psicoanalisi propone ai suoi lettori due conferenze tenute a Bruxelles il 9 e il 10 marzo 1960 su invito delle Facoltà Universitarie Saint-Louis. In esse Lacan riafferma che l'eti­ca della psicoanalisi è l'etica del linguaggio, ma non è l'etica del significante, poiché essa non si fonda sul significante, ma sulla Cosa. Lacan riprenderà, nelle successive lezioni del suo seminario parigi­no del 16 e del 23 marzo, significativamente intitolate da Jacques-Alain Miller "La morte di Dio" e "L'amore del prossimo", i temi trattati presso i "cattolici", come egli dice, ricordando di aver par­lato loro senza peli sulla lingua, né misurando i termini, né cer­cando di attenuare la posizione di Freud nei confronti della reli­gione.
Tuttavia si nota nelle due conferenze brussellesi lo sforzo di ren­dere chiaro ciò che per lo psicoanalista è evidente. A un pubblico desideroso di ascoltarlo, ma poco introdotto alle problematiche aper­te dalla psicoanalisi, Lacan offre in due brevi conferenze quasi un compendio del suo proprio percorso teorico e, tra le linee, anche clinico.
Nel primo intervento, dopo un preludio in cui avverte i suoi interlocutori che non farà né un'apologia né una dimostrazione delle virtù terapeutiche della psicoanalisi, Lacan annuncia che il tema che tratterà sarà lo stesso del suo seminario: le incidenze etiche della psicoanalisi, fino al punto di prospettare, grazie pro­prio alla psicoanalisi, la possibilità di un passo avanti nell'ambito morale.
E, invertendo una famosa frase di Hegel, nota come sia possibile produrre effetti nel reale a partire da affermazioni che dicano il falso. La notazione di Lacan fa riferimento alla teoria che farebbe confluire i detti freudiani in un "io considerato al tempo stesso funzione di sintesi e d'integrazione" con una finalità di felicità, frutto naturale di una coscienza di sé che arriverebbe all'accordo con sé e con il mon­do. Si tratta proprio di "quello che chiamerò", dice, "il credo delle sciocchezze". Tali accozzaglie di suggestioni collettive, emesse in nome della psicologia moderna, hanno da un lato la loro efficacia in effetti indiscutibili, validi però solo "nell'ambito del conformismo, per non dire dello sfruttamento sociale". E d'altro canto rivelano "un'impotenza sempre maggiore dell'uomo a raggiungere il proprio desiderio", de­siderio che non sfocia che nell'infelicità.
Freud porta alla luce l'avvento di una verità fino allora rimasta nelle tenebre: "il desiderio non è una cosa semplice". Né animale, né elementare o inferiore, il desiderio è la risultante di un'articolazione il cui carattere proprio non è di essere archetipico, pieno di senso, rappresentazione di una psicologia comprensiva o figurazione di espe­rienze concrete secondo la psicologia genetica. Infatti il carattere proprio in cui si situa il desiderio è quello dell'inconscio freudiano: "La particolarità propria dell'inconscio freudiano è di essere traducibile", non solo là dove può essere tradotto, ma fino al punto radicale del sintomo dove è indecifrato.
Ora "quel che si traduce è ciò che chiamiamo tecnicamente il significante", di cui Lacan da come esempio la lettera tipografica. Questo ele­mento, il significante, ha le due proprietà seguenti: essere sostituibile con altri elementi a lui legati sincronicamente, e diacronicamente essere disponibile per formare una catena di elementi significanti. Queste proprietà giustificano l'aforisma di Lacan che l'inconscio freudiano è strutturato come un linguaggio, le cui leggi di funzio­namento, la metafora e la metonimia, rendono conto non solo della poesia, ma anche del lapsus, del motto di spirito e del sintomo analitico.
Ma, si domanda Lacan, leggiamo forse il nostro desiderio in questi geroglifici significanti? No. Il desiderio non si articola in modo evidente, poiché esso risponde all'intenzione di un discorso in cui il soggetto, in quanto parla, è escluso dalla coscienza. E Lacan ricorda ai suoi ascoltatori, che vivono in una terra, il Belgio, un tempo fertile di mistici e di beghine, che anche loro ne sanno qualcosa di un "desiderio con cui la coscienza non ha più niente a che vedere oltre a saperlo inconoscibile", e che sanno anche loro che questo inconoscibile è dell'ordine di "quell'estremo dell'intimo che è al tempo stesso internità esclusa".
           E qui, come nella lezione del Seminario sull'etica del 23 dicembre 1959, per indicare l'"estremo dell'intimo" da cui prende origine il desiderio, Lacan riprende un passo della Lettera ai Romani di san Paolo (Rom. 7, 7-11), dove vi si illustra, "meglio", dice, "non si potrebbe", l'articolazione tra la legge, il desiderio e quel punto cen­trale e causale del desiderio inconscio che è vuoto di significante, e che è il posto dell'oggetto perduto freudiano, oggetto che prende, per il soggetto, funzione di Altro assoluto. Questo centro escluso san Paolo lo chiama peccato, Freud das Ding, Lacan la Cosa.
Ma dov'è, si chiede Lacan, che Freud ha scoperto questa Cosa? Ebbene, la scoperta di questa Cosa, confermata dai dati della clinica psicoanalitica, è la conseguenza della funzione stessa del signifi­cante, correlativa nel testo freudiano con la funzione del padre. Il padre è la funzione che "interdice il desiderio con efficacia", Ma la sua interdizione è tanto più dura e minacciosa che nella misura in cui egli è morto e non sa di esserlo: il mito proposto da Freud non libera l'uomo moderno dal padre, ma rende definitiva, strutturale, l'interdizione che lo colpisce: "Dio è morto, più niente è per­messo".
Meravigliando sicuramente il suo uditorio, Lacan propone una lettura della morte di Dio in un registro in cui l'ateismo freudiano non è che l'altra faccia della sua religiosità: solo il monoteismo è qui convocato. Infatti gli dei non sono altro che figure metaforiche del desiderio, ma non così "il solo Dio": il solo Dio, il Dio dei dieci comandamenti, è il Dio della parola. Come i comandamenti, che sono i comandamenti della parola, valgono per tutti, credenti o non credenti, cosi il dramma del Dio della parola, messo a morte nella figura del padre primordiale nel mito freudiano e nella figura del Verbo nel messaggio cristiano della redenzione, è un dramma uni­versale, poiché è il dramma del logos che articola nell'uomo "la mancanza dell'essere e condiziona la sua vita di passione e di sacri­ficio".
Nella seconda conferenza Lacan riprende il comandamento evan­gelico "Amerai il prossimo tuo come te stesso" e si sofferma sullo stupore di Freud di fronte a tale comandamento. Non solo stupore, ma sconcerto; poiché la massima cristiana, nel momento stesso che viene enunciata come un comandamento e quindi come un obbligo, svela che il rapporto tra uomo e uomo è quello dell' homo homini lupus. E nel cristianesimo stesso vediamo sorgere come corrispettivo simmetrico dell'amore universale proclamato l'estrema intolleranza per tutti coloro che ne sono fuori.
           Freud mette in questione il valore accordato all'altro a cui si rivolge l'obbligo del comandamento: amare il prossimo è come ama­re il proprio nemico. Ma la fonte di aggressività che si scopre nell'al­tro non è dissimile da quella che si scopre in sé: questa ostilità primaria è insita nella natura stessa della pulsione dell'uomo, essa è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte e minaccia costantemente la società civile.
Lacan concorda con Freud sul carattere paradossale del coman­damento evangelico, che è in contrasto con le istanze pulsionali. Ma notiamo anche le differenze tra la lettura di Freud e quella di Lacan. Per fondarle, egli introduce "la distinzione metodica tra simbolico, immaginario e reale" dove il comandamento diventa un tema a tre variazioni.
"Io amo me stesso": qui l'essere umano è legato al corpo per mezzo dell'energia che Freud chiama libido. Ma quel che amo in me "a cui mi attacco con concupiscenza mentale, non è il corpo [...] ma un'immagine" di me che mi rinvia a una mia unità, in realtà "che mi inganna". Io amo me, ma in quanto non mi conosco, non mi ricono­sco: in realtà amo un altro costruito come me. E infatti non è niente altro che me stesso che amo nel mio simile. E così, in questo regi­stro, l'altruismo non è che puro egoismo. Qui, un io immaginario si compiace guardandosi allo specchio, un io fatto di "identificazioni con le sue forme immaginarie [in cui] l'uomo crede di riconoscere il prin­cipio della propria unità sotto le specie di una padronanza di sé da cui è necessariamente ingannato - che essa sia o meno illusoria - perché quell'immagine di se stesso non lo contiene per niente. Se essa è immobile [...]".
"Se essa è immobile": notiamo questo inciso. Se infatti l'immobi­lità dell'immagine rinvia a un io immaginario, il soggetto, il soggetto simbolico, non si sostiene che sulla mobilità degli elementi che ne sono la stoffa: quei "significanti la cui costituzione implica anzitutto la loro relazione con qualcosa di radicale si nasconde nella struttura come tale, cioè il principio della permutazione, vale a dire che una cosa può essere messa al posto di un'altra" rappresentandola valida­mente, secondo la struttura del linguaggio.
            Ma infine è la struttura stessa del linguaggio che "lascia all'ester­no e contorna la Cosa", lasciando l'uomo nell'ignoranza circa quel luogo dell'essere, causa di tutto ciò intorno a cui egli ragiona e da cui scaturisce il desiderio. "Il desiderio non ha oggetto, se non, come dimostrano le sue singolarità, quello accidentale, normale o meno, che sì è trovato a significare, in un lampo o in un rapporto permanente, i confini della Cosa, cioè di quel niente attorno al quale tutta la passione umana serra il proprio spasmo a modulazione lunga o corta, e a periodico ritorno".
Nella passione umana si articola così l'essere come mancanza e questo niente che è "al centro di ciascuno dì noi quel luogo beante" da cui l'essere umano si domanda chi egli sia, che cosa egli sia e perché egli esista. "È questo il luogo in cui dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, perché in lui questo luogo è lo stesso".
[Il testo definitivo di queste due conferenze ha come titolo "Discorso ai cattolici" ed è pubblicato da Einaudi in J. Lacan, Dei nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione].

 
 

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