Il materno e il paterno nella cura del paziente con dipendenza da sostanze.
ABSTRACT: Il Disturbo da Uso di Sostanze ha avuto varie letture cliniche e psicopatologiche negli anni.
In questa riflessione si guarda con un’ottica psicoanalitica sia al Disturbo da Uso di sostanze sia agli interventi clinici che possono venire attuati nei Servizi per le dipendenze.
In particolar modo viene posta attenzione ad alcune aree carenziali nel paziente tossicodipendente, riconducendone alcune all’area del “materno” ed altre all’area del “paterno”, così come il Servizio nei confronti dei pazienti è chiamato a svolgere in definitiva sia una funzione materna che una funzione paterna.
ABSTRACT: Substance Use Disorder has been read from several different clinical and psychopathological perspectives.
In this reflection we apply a psychoanalytic perspective to look both at Substance Use disorder itself and at the clinical interventions that can be implemented in a Center for drug addiction/substance abuse.
In particular we focus on specific deficient areas of the addict patient, that can be attributed either to the maternal or to the paternal area. Similarly we suggest that the treatments are called to act both a maternal and a paternal function for the addict patient.
Mi sono spesso interrogata sull’ipotetico ruolo della psicoanalisi in un Servizio per le Dipendenze, e se mai la psicoanalisi potesse averne uno.
Ebbene, più prosegue il mio lavoro clinico nei Servizi per le Dipendenze, più mi convinco che la psicoanalisi possa avere un ruolo importante (e forse indispensabile) in tali Servizi, in affiancamento ad interventi farmacologici e sanitari (che tengano conto anche degli aspetti biologici del Disturbo da Uso di Sostanze), di supporto sociale, psicoterapici di altro orientamento, riabilitativi e in alcune situazioni trattamenti terapeutici di tipo residenziale (comunità terapeutiche).
Credo che con molti pazienti dipendenti, che spesso fondamentalmente sono pazienti alessitimici, incapaci di mentalizzare, propensi a gestire le proprie emozioni intollerabili ricorrendo alla sostanza e capaci di esprimersi solo attraverso agiti, sia difficile, almeno inizialmente, un trattamento psicoterapico di tipo psicoanalitico (cosa che invece diventa qualche rara volta possibile in un secondo momento, quando il paziente è stabilizzato ed è in grado di stabilire un sufficiente attaccamento al proprio terapeuta).
Quello che invece penso possa essere il ruolo della psicoanalisi fin dall’inizio della presa in carico e per qualsiasi paziente, sia quello di aiutare l’equipe nella lettura e nella comprensione della situazione clinica.
Partendo da tali presupposti, ho cercato di sviluppare alcune riflessioni in chiave psicoanalitica su due aspetti clinici che ricorrono nel paziente tossicodipendente, una riconducibile alla funzione materna e l’altra riconducibile alla funzione paterna.
Per quanto riguarda la funzione materna, parto dalla considerazione che spesso il paziente tossicodipendente è portatore di un attaccamento insicuro (Ainsworth et al., 1978) alla figura di riferimento, un attaccamento connotato da instabilità e ambivalenza.
Proprio per questo il paziente teme il legame, sempre connotato dall’ombra della minaccia d’abbandono.
Inizialmente la sostanza risponde alle necessità della persona: soddisfa i bisogni (in particolare la modulazione degli affetti) e il paziente sente di poterla controllare: sente dunque di poter controllare il legame e ciò gli dà sicurezza (se si controlla il legame, si può vivere senza e dunque l’ombra nera della minaccia abbandonica rimane lontana).
Dopo un primo periodo di “luna di miele” con la sostanza (come viene definito in letteratura), anche la sostanza diviene un genitore ambivalente, che dà un nutrimento avvelenato e che non sazia e con cui l’attaccamento non può dunque che essere insicuro: un attaccamento che non sazia è un attaccamento di cui si ha sempre bisogno e che non c’è mai in quantità sufficiente...la sostanza non può che essere un genitore abbandonante.
Quando il paziente accede al Servizio dimostra da subito questa paura del legame: viene e non viene, ha bisogno di controllare la relazione col Servizio, vuole e non vuole la terapia sostitutiva (metadone o buprenorfina), accusa il medico di dargli tramite la terapia sostitutiva un nutrimento cattivo e in particolare lo accusa di dare un nutrimento che dà dipendenza (e in effetti le terapie sostitutive degli oppiacei danno dipendenza, fisica oltre che psicologica!).
Nel prescrivere dunque la terapia sostitutiva, a volte penso che il Servizio debba essere una nutrice sana e costante e che la dipendenza dal farmaco, tanto temuta dal paziente, vada invece incoraggiata: solo passando attraverso una dipendenza non patologica (sana) si può sperare di combattere la dipendenza patologica.
Durante un periodo congruo di nutrimento farmacologico con la terapia sostitutiva (che all’interno del Servizio diventa anche nutrimento affettivo da parte di tutte le figure del Servizio, dalle figure psicosociali che sostengono il trattamento all’infermiere che concretamente somministra il farmaco) il paziente può sperimentare tale dipendenza che all’inizio è molto temuta e che secondo me invece, ripeto, va incoraggiata.
Il paziente impara a tollerare che è il medico a decidere la quantità, una quantità che è tanta da saziare ma non tanta da fare stare male, e progressivamente impara ad accettare la dipendenza fisica e psicologica dal farmaco (forse col tempo anche ad apprezzarla e a provarne piacere).
Per inciso, questo avviene anche con i pazienti alcoldipendenti. Di recente, con un paziente alcoldipendente in terapia sostitutiva con alcover per cui avevamo previsto la somministrazione ad intervalli di 3 ore, mi è venuto da pensare che è lo stesso intervallo dell’allattamento! Del resto molto autori hanno evidenziato il potente bisogno di gratificazione orale del paziente dipendente, a partire da Glover (1956) che ascrive l’eziologia delle dipendenze ad una regressione, con fissazione alla fase orale, come tentativo di autocura.
A volte l’accettazione della dipendenza dal farmaco è un passaggio intermedio importante che in un secondo momento diventa accettazione del legame col Servizio e con le figure di riferimento del Servizio (e fiducia in tale legame, che è un legame stabile e non abbandonante).
È in questo momento che il paziente può accedere anche alla possibilità di un percorso psicoterapico stabile (non tutti i pazienti purtroppo riescono a fare questi passaggi), dunque accedere ad una seconda e più evoluta dipendenza “terapeutica”, non più dal farmaco ma dalla figura concreta del terapeuta e del resto dell’equipe.
A sua volta questo secondo passaggio di dipendenza “relazionale” potrebbe essere un ultimo passaggio verso uno svincolo dalle dinamiche di dipendenza e verso la capacità di costruire dinamiche connotate appunto non più da dipendenza ma dallo “scambio” relazionale, uno scambio con l’altro in cui l’altro non è più qualcuno a cui appoggiarsi in modo anaclitico ma qualcuno con cui può esserci quel sano dare e avere fondamentale dei rapporti sani.
È a questo punto che il paziente potrebbe essere pronto per un autentico e maturo sganciamento dal Servizio (molto diverso dal va e vieni iniziale del paziente che come dicevamo ha ben altro significato!). Naturalmente, anche dopo tale sganciamento, il Servizio rimane un genitore in grado di riaccogliere in futuro qualora ce ne fosse la necessità.
Ovviamente (e purtroppo) non tutti i pazienti arrivano a ciò… Dobbiamo tollerare che ogni paziente, nonostante tutti i nostri sforzi, si ferma in questo processo al punto in cui riesce (spesso il trattamento prosegue in un “allattamento” a vita!).
In particolare dobbiamo tollerarlo perché il paziente talvolta si difende con la dipendenza da un’angoscia incontenibile e se ci ostiniamo a smantellare le sue difese rischiamo di esporlo a tale angoscia e anche talvolta a un breakdown psicotico.
Noi possiamo solo aiutarlo nei passaggi nel momento in cui sentiamo che potrebbe essere pronto.
L’altra area carenziale cui avevo accennato all’inizio appare più riconducibile ad una funzione paterna.
A tal proposito mi pare opportuno fare una premessa rispetto al setting e alla funzione necessaria del setting in ogni contesto di cura (setting che va pensato e che rimane oggetto di continua riflessione da parte degli operatori).
Il setting è quell’insieme di “regole” prefissate dentro cui si svolge la relazione terapeutica. Gli elementi del setting sono costituiti dalle circostanze stabili dell’incontro tra curanti e paziente, dalle caratteristiche della cornice reale in cui si fondono le abitudini, gli automatismi, i riti della relazione: elementi spaziali (luogo, accesso, confini), temporali (durata e ritmo del trattamento), variabili collegate al paziente o ai curanti o al tipo di trattamento.
Questi elementi danno forma e organizzazione spazio-temporale all’esperienza di relazione... danno ritmo, stabilità, contenimento.
La funzione del setting è quella di fungere da contenitore stabile dei vissuti del paziente e della nuova relazione (quella coi curanti), ma anche quella di favorire con la sua stabilità non l’agito del paziente ma la crescita del pensiero.
Nel paziente tossicodipendente, spesso privo strutturalmente di confini psichici (di una “pelle psichica” come direbbe Anzieu,1992), il setting ha un ruolo fondamentale, in quanto viene a porsi come contenitore provvisto di confini laddove questi sono appunto strutturalmente carenti (il setting ha anche altri ruoli, come quello di “ambiente” in senso winnicottiano, ma qui ci occuperemo appunto del setting nella sua funzione di “contenitore”).
Di conseguenza nei Servizi per le Dipendenze il setting ha una funzione particolarmente importante.
Infatti la somministrazione delle terapie sostitutive degli oppiacei ha delle regole ben precise: il paziente esegue un esame tossicologico su matrice urinaria o cheratinica con una frequenza stabilita con il medico, viene ad assumere in sede la terapia, ritira un quantitativo di farmaco per un quantitativo di giorni concordato con il medico (affido del farmaco, il che presuppone appunto che il paziente sia affidabile).
Il medico in questo caso rappresenta l’istanza superegoica che crea la “regola”, una regola dentro cui il paziente deve “stare” (e che presuppone che vi sia un’assunzione corretta del farmaco, non fenomeni di abuso e misuso che portano il paziente a finire la terapia prima), e che cerca di favorire la nascita di quella pelle psichica di cui parlava Anzieu e che spesso manca al paziente tossicodipendente (in cui è frequente una struttura borderline di personalità).
Per quanto riguarda la terapia, spetta poi al medico, sempre con il supporto di tutta l’equipe (l’organo “pensante” del Servizio) gestire e dare un significato a tutte le “rotture di setting” proposte dal paziente.
Quando il paziente torna al Servizio prima del termine prefissato perché ha “assunto tutto il metadone” in anticipo, l’equipe pensante si interroga sul significato di tale assunzione che spesso configura un’assunzione del farmaco patologica che ricalca quella che in origine era l’assunzione della sostanza (“prendo più terapia perché non riesco a gestire i miei stati psichici”).
A mio avviso in queste situazioni si dovrebbe affiancare un intervento più di tipo accuditivo/materno (provo a modificare la terapia affinché tu stia meglio, ti nutro con un dosaggio diverso o un farmaco diverso) ad un intervento di tipo contenitivo/paterno (non posso permetterti di fare indigestione del farmaco e di farti del male quindi devo rivedere l’affido del farmaco).
L’intervento di contenimento del medico talvolta (spesso) può suscitare una reazione di rabbia da parte del paziente: il limite inizialmente può essere vissuto dal paziente come un vincolo ad un bisogno (patologico) di libertà illimitata e dunque a fantasie primitive di onnipotenza.
Il mantenimento del setting da parte del medico e la gestione della rabbia possono nel tempo dare quel contenimento che permette di strutturare i confini psichici: non essere onnipotenti può essere frustrante ma permette in realtà di esistere nella propria individualità.
Per concludere vorrei sottolineare come i Serd (Servizi per le Dipendenze), abbiano la fortuna di avere, proprio per le loro caratteristiche, delle notevoli potenzialità di cura: da un lato possono fornire terapie che danno dipendenza e quindi “costringono” al legame, così temuto, con gli operatori e con il Servizio (e costringono così dolcemente alla fiducia nell’altro che cura), dall’altro hanno per definizione un dispositivo di cura (setting) di per sé terapeutico se gli operatori sono in grado di valorizzarlo, custodirlo e difenderlo. In questo modo, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, il Servizio va a riempire lacune sia sul versante materno sia sul versante paterno, lacune spesso comuni a molti pazienti tossicodipendenti.
Queste caratteristiche ovviamente diventano terapeutiche nel momento in cui, oltre ad essere valorizzate, vengono pensate, non solo dal singolo operatore ma da tutta l’equipe: l’equipe rimane l’organo pensante del Servizio che può scegliere come usare al meglio il materno e il paterno in un percorso di cura individualizzato.
BIBLIOGRAFIA
Ainsworth M., Bear M.C., Waters E., Walls S. (1978). Patterns of attachment. Laurence Erlbaun Associates Publishers, New York.
Anzieu D. (1992). L’epidermide nomade e la pelle psichica, Cortina, Milano.
Glover E. (1932). On the etiology of drug addiction. In: Glover E. (ed.), On the Early Development of the Mind. International Universities Press, New York, 1956, pp. 187-215.