Dia-tige
Roberto Beneduce (*)
(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].
1. "L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.
L'approche psychanalytique des contes est chose trop sérieuse
pour être laissée entre les mains des psychanalystes
Dundes (1987)
I rapporti fra antropologia e psichiatria si sono rivelati nel corso di questi anni via via più necessari, fecondi per l'una e l'altra delle due discipline: la nota domanda di Sapir, che si chiedeva"perché l'antropologia culturale ha bisogno della psichiatria", ha trovato ascolto fra molti ricercatori ed il suo reciproco è stato ripreso da non meno numerosi psichiatri e psicanalisti che, pur nell'eterogeneità dei metodi e del grado di rigore della loro riflessione, hanno fatto propria la consapevolezza che la psichiatria dovesse essere fondata sull'antropologia. Nella riflessione di Devereux questa consapevolezza ha raggiunto alcune delle sue più brillanti formulazioni, e il complementarismo diventava per questo autore il principio base della sua ricerca. Autori come Zempleni avrebbero continuato ad ispirarvisi sin dai primi lavori continuando ad attraversare in modo singolarmente originale il dominio che vede sovrapporsi ricerca etnografica e riflessione clinica o psicopatologica (Zempleni 1968, 1988, 1993), Nathan avrebbe adottato gli stessi presupposti per portare avanti il suo sforzo di definire la specificità dell'etnopsichiatria (Nathan, 1997). Tuttavia sotto il profilo epistemologico il rapporto fra l'antropologia da un lato e la psichiatria o la psicanalisi dall'altro è stato spesso ricco di malintesi quando non di critiche feroci: quelle di antropologi come Dundes, riportata in epigrafe, di Muller (1993) contro Pradelle de la Tour, o di Henry (1997) contro Nathan ne sono eloquenti esempi. Recentemente Augé (1997) si interrogava sulle ragioni di un analogo fraintendimento favorito dall'uso incerto (talora solo retorico) che del termine"antropologico"era stato fatto da non pochi ricercatori (storici, soprattutto) negli ultimi anni. Si è parlato così secondo i casi di un'alleanza difficile (Skultans, 1990), di un rapporto incompiuto, di una attrazione fragile o addirittura di un dialogo handicappato (Juillerat, 1996), secondo alcuni ancora da cominciare (Audisio, Cadoret, Douville e Gotman, 1996; Charuty, 1992). Autori come Skultans hanno voluto cercare le radici della diffidenza di molti antropologi nei confronti della psichiatria nell'avvertimento espresso già nel secolo scorso da Durkheim: diffidare di qualsiasi modello di interpretazione della società che faccia ricorso a modelli psicologici e a processi mentali individuali. E Rivers, psichiatra ed antropologo, ha da parte sua rovesciato specularmente questa diffidenza affermando che solo un'interpretazionedi tipo psicologico poteva fornire una buona chiave di lettura dei fenomeni sociali, e alla prima questi dovevano essere pertanto necessariamente ricondotti.
In molti casi i luoghi dell'incontro fra antropologia e psichiatria o fra antropologia e psicanalisi sono stati rappresentati dalle società non occidentali: l'indagine etnografica ha costituito la porta d'ingresso privilegiato (e non eludibile) a problemi di natura propriamente psicologica o psicopatologica, e la riflessione sulle culture, la dimensione simbolica e antropologica della sofferenza, ha in misura crescente rappresentato per numerosi autori un passaggio obbligato nella loro ricerca o, per riprendere l'espressione di Ellen Corin, etnopsicologa e psicanalista canadese,"la via regia per una psichiatria scientifica"(Corin, 1990). Rechtman e Raveau (1993) hanno ribadito ancora recentemente che la questione dei rapporti fra cultura, psichismo e psicopatologia resta fondamentale e irrisolta, e Rechtman ha cercato inoltre di mostrare - a differenza di quanto troppo spesso si afferma - che Lévi-Strauss, se da un lato non aveva mancato di alludere alla necessità di un confronto serrato con discipline come la neurobiologia oltre che con la psicanalisi (un sistema simbolico né più né meno pertinente degli altri), dall'altro aveva assunto la psicanalisi meno come l'interlocutore di un dialogo che non come l'oggetto di un monologo, un oggetto esaminato con toni che quasi precorrono di vent'anni taluni approcci dell'antropologia medica contemporanea (Rechtman, 1996).
Accanto a questo classico luogo di contatto, se ne offre oggi uno ulteriore e non meno fecondo nel quale tanto l'antropologia quanto l'etnopsichiatria convergono naturalmente: si tratta dei conflitti degli spazi urbani, dello spazio delle metropoli, della coesistenza di mondi e logiche autonomi, dei multiformi profili della surmodernità e dalle sue sfide, delle nuove dinamiche delle identità collettive e individuali, delle nuove forme della soggettività e dei loro nodi capricciosi. Questi processi e la necessità di leggerli con strumenti appropriati per avvicinarsi alle dinamiche sociali e psicologiche dell'individuo sembrano riaffermare che se pure l'antropologia e la psicanalisi hanno un solo punto di contatto, questo rimane - con le parole di Foucault -"essenziale ed inevitabile: ed è quello dove esse si intersecano ad angolo retto, perché la catena significante con la quale si costituisce l'esperienza unica dell'individuo è perpendicolare al sistema formale a partire dal quale si costituiscono le significazioni di una cultura"(Foucault, 1966). Un simile incontro, che deve per altro interrogarsi anche sul significato che oggi attribuiamo alla nozione di"cultura"e di"soggetto", mi pare sostenuto anche dalla seguente duplice constatazione: 1) l'antropologia urbana non rappresenta tanto un abbandono della vocazione originaria dell'antropologia culturale, un ripiegarsi su di sé dell'etnologia, come sostenuto da Luis Dumont, quanto una necessità dettata dal bisogno di comprendere le nuove forme dell'alterità (Augé, 1992); 2) l'etnopsichiatria deve assumere l'autoriflessione critica sulle categorie epistemologiche e diagnostiche della psichiatria occidentale, sui contesti della sua pratica e sulle proprie responsabilità come un ambito di ricerca non più rinviabile (Beneduce, 1997 e 1998): non è un caso che un celebre antropologo abbia recentemente scritto della necessità di una psichiatria culturale"sovversiva"(Bibeau, 1997).
2. I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta
"Prima di andare presso i dogon abbiamo studiato la letteratura etnologica relativa a questa etnia. Si trattava dei lavori di Marcel Griaule, di Germaine Dieterlen e di numerosi altri etnologi che nella quasi totalità appartenevano alla scuola di Marcel Mauss (...). Dopo aver letto e minuziosamente studiato tutta questa letteratura siamo andati nei paesi dogon senza avere la minima idea del genere di persone che ci attendeva. Noi non sapevamo se queste persone (...) erano degli uomini e delle donne aperti o chiusi, dolci o aggressivi, felici ed equilibrati o infelici e dal temperamento mutevole. Dopo tutte queste letture era impossibile sapere cioè se queste persone vivevano sotto il peso di un sistema religioso opprimente, come malati ossessivi obbligati a compiere doveri faticosi attraverso obblighi molteplici (...) oppure, al contrario, come noi avemmo modo di verificare una volta arrivati là, che una moltitudine di corrispondenze spirituali e religiose cullava degli individui sereni, gioiosi, stabili e di grande libertà affettiva, come in una rete d'amore che gli dei e gli antenati avevano disteso per attenuare le durezze della vita terrena dei loro cari esseri..."(corsivo nostro).
Questa lunga citazione, tratta da Parin (1976), ci consente di situare il problema di cui intendiamo occuparci in tutte o quasi le sue flessioni: il modello definito da Lucas e Barrett (1995) come"paradigma arcadico", che pensava i"primitivi"liberi dai vincoli della civiltà e dalle sue conseguenze sociali e psicopatologiche, sembra qui riemergere con forza; si allude alla possibilità di un parallelo forte fra religione ed ossessione, fra obblighi religiosi e rituali nevrotici: ambiti che vengono invece considerati oggi da ogni punto di vista non commensurabili (Pewzner-Apeloig, 1993), anche a partire dalla banale considerazione che molte religioni sono povere di rituali o addirittura a-rituali; inoltre, della società di cui si parla viene proposta un'immagine indifferenziata, omogenea, priva di conflitti e di differenze: non conflitti di genere o fra le co-spose, né tensioni familiari o di clan, ma un'armonia che non si discosta molto dalle immagini che i resoconti di viaggi ci avevano lasciato nei due secoli scorsi. Lo scritto di Parin non è lontano nel tempo, ma certo non sembra nemmeno sfiorato dalla consapevolezza oggi consueta alla più recente riflessione antropologica ed etnopsichiatrica (ma si pensi anche ai lavori etnopsichiatrici sul rapporto fra depressione, stregoneria e condizione femminile in Ghana condotti da Margaret Field in quegli stessi anni); esso però ha il pregio di introdurci direttamente nelle questioni seguenti: la depressione nelle culture africane, e nella cultura dogon in particolare, è assente? se di essa non v'è traccia, quali ne sono i motivi? al contrario, se si presuppone che essa sia presente come nelle nostre società benché espressa diversamente, con quali strumenti riconoscere la presenza della sofferenza, della tristezza patologica, o della"depressione"propriamente detta? E se altri sintomi, altri disturbi vengono riferiti in luogo di quelli a noi più familiari (delirio persecutorio anziché di rovina, problemi riferiti al corpo anziché al tono dell'umore, possessione anziché suicidio), è legittimo interpretarli come l'espressione di una depressione mascherata? Infine: è lecito parlare di depressione alla stregua di una sostanza, o di una lesione d'organo, di cui si tratta solo di provare l'esistenza o misurare l'ampiezza in altri corpi? Se le malattie partecipano alla riproduzione delle culture non meno di quanto, inversamente, queste non partecipano alla"costruzione"delle prime, non sarebbe più corretto analizzare una condizione come la sofferenza depressiva (e ogni altro genere di sofferenza) in stretta relazione ai contesti nei quali viene nominata, esperita, comunicata, alle dinamiche sociali e alle egemonie culturali che ne modificano forma e pertinenza?
Le ricerche epidemiologiche condotte in culture non occidentali hanno, come è noto, nella psichiatria il loro tormento metodologico maggiore: negli ultimi anni non poche critiche ne hanno evidenziato inadeguatezze e limiti (category fallacy, secondo l'espressione coniata da Kleinman; diagnostic pitfalls, secondo Arpin per ciò che concerne la diagnosi psichiatrica in pazienti immigrati). Anche quando si è introdotto un fattore di correzione etnosemantico, con la traduzione delle maggiori categorie psichiatriche e degli items abitualmente utilizzati nelle indagini epidemiologiche all'interno delle lingue locali o in concetti più appropriati dal punto di vista"emico"(Pike), le perplessità, espresse in particolare dagli antropologi, sono state numerose (e la trasposizione dalla linguistica alla psichiatria transculturale della nozione emico/etico assai spesso insoddisfacente: solo un nastro colorato per addobbare approcci assai poco diversi da quelli tradizionali); un vizio empirista è sembrato a molti riproporsi anche nell'attenzione ossessivamente portata alle categorie e ai nomi che le lingue locali utilizzavano per indicare le malattie, dal momento che queste finivano per essere considerate dagli studiosi alla stregua di unità discrete, catalogabili in modo non molto differente dalle specie vegetali o animali oggetto di studio di altre etnoscienze.
Nel caso dei disturbi psicologici è d'altronde scontato aspettarsi considerevoli differenze nella rappresentazione, nell'interpretazione e nella cura delle malattie: ma queste differenze sono, come si può facilmente immaginare, anche l'espressione di diverse concezioni e"pratiche"della persona, del corpo, delle emozioni, degli affetti, della morte, della sessualità, del potere. Le particolari norme di costruzione e rappresentazione del sé o dell'individuo in rapporto ai differenti stili narrativi (ci riferiamo qui alle culture orali) ne costituisce un esempio peculiare. É nel confronto fra questi mondi diversi, d'altronde, che la new cross-scultural psychiatry (Kleinman) ha il suo precipuo interesse conoscitivo, non nella pura attività di confronto e comparazione fra entità nosografiche ritenute simili o analoghe. Bibeau (1981), a proposito dei lavori sulla depressione, sottolineava l'urgenza di un'antropologizzazione dell'epidemiologia e la necessità di condurre indagini antropologiche che precedessero sistematicamente ogni ricerca sulla diffusione e il significato della depressione nelle società africane. D'altronde, ancor prima di una nosografia modulata sulla differenza culturale, è la stessa sussunzione della psicopatologia all'interno di un'analisi antropologica della"condizione umana"nelle sue concrete espressionilocali che sembra oggi in gran parte ancora da costruire, sebbene sia stata più volte sottolineata la necessità di"culturalizzare l'epidemiologia psichiatrica"e problematizzare il complesso rapporto che esiste fra contesti di vita e"sistemi di segni, di senso e di azione"(Bibeau e Corin, 1994).
I principi sull'universalità dello psichismo umano, posti alla stregua di assiomi, non hanno d'altronde sempre consentito un'opportuna interrogazione sugli effetti che le differenze culturali possono esercitare sulla psiche. Affermare che cultura e psiche sono strutture omologhe o omotetiche, che la seconda si costruisce sulla prima (Moro, 1994; Nathan, 1986) per poi concludere che tutti gli esseri umani condividerebbero i princìpi di funzionamento dello psichismo, lascia come insoddisfatti per il truismo soggiacente (tutti gli uomini sono uomini) e genera un parziale paradosso che le metafore del carciofo (Wittgenstein), delle scatole cinesi (Littlewood) o della torta a strati (Geertz) non hanno mancato di evidenziare in termini critici. Ciò che bisogna decomporre è in altri termini l'idea secondo la quale ci sarebbe un nucleo duro e privo di scalfitture, un nucleo bio-psichico irriducibile comune ad ogni membro della razza umana, e al di sopra di quello si sovrapporrebbero - in modo vario ed imprevedibile - le"foglie"molteplici delle lingue, le"scatole"infinite dei simboli, gli"addobbi"di zucchero rappresentati dai costumi e dai comportamenti propri di ogni cultura. Ma se lo psichismo umano ha leggi universali, se cambiano i contenuti del delirio e dei sogni ma il delirare e il sognare rimangono comuni, se dunque sono i sintomi ad essere diversi ma le malattie sono uguali, perché Nathan irride poi gli psichiatri africani che parlano di"depressione"nei loro pazienti? è poi così scandaloso adottare un termine della psichiatria occidentale quando d'altra parte non si manca di ribadire che si tratta di un unico e comune psichismo? l'Umanità comune dello psichismo universale dei processi mentali si arresterebbe sulla soglia delle malattie e delle terapie per lasciare solo a queste il privilegio della differenza e della particolarizzazione? Ma perché poi queste ultime soltanto dovrebbero essere diverse e non le strutture mentali"normali"? Allo stesso modo, qual è la portata clinica di un assunto quale quella proposto da Pewzener-Apeloig (1992) quando esclude che il senso di colpa quale è concepito nella cultura occidentale non sia rintracciabile nelle culture africane essendo costitutivamente,"ontologicamente"patrimonio della prima? Perché chi difende l'universalismo delle leggi dello psichismo umano non accetta che il fondamento della sofferenza psichica che chiamiamo depressione possa essere rintracciato ovunque e, viceversa, perché chi afferma che il senso di colpa sia ontologicamente un fatto dell'Occidente, non giunge ad ammettere che lo psichismo in tradizioni culturali diverse possa avere differenti modalità di funzionamento, di realizzazione, di organizzazione? Presi fra le difficoltà e gli opposti paradossi che questi interrogativi generano nella mente di ogni ricercatore, nasce il sospetto che forse sia la loro stessa formulazione ad essere inadeguata o mancante. Non è forse un caso che un autore come Nathan, pronto ad accettare sfide di ogni genere, si ritragga da una riflessione su tale problema rinviadola ad un altro momento e preferendo una delimitazione operazionela dell'etnopsichiatria e dei suoi compiti nei quale prende rilievo soprattutto il condivisibile progetto di considerare tutti i saperi psicologici e psicoterapeutici ("tradizionali"o"moderni"che siano) alla stessa stregua e meritevoli dello stesso interesse (Nathan, 1997).
Quelle domande non sono d'altronde nuove nella ricerca antropologica ed etnografica: la rivalutazione del punto di vista dei nativi, il concetto demartiniano di"etnocentrismo critico"o, ancora più indietro nel tempo, il dibattito fra universalismo e relativismo culturale, stanno sullo sfondo di problemi che l'etnopsichiatria e l'antropologia medica riscoprono quando si rivolgono a considerare le singolari concezioni della salute mentale e della malattia, i modi in cui si definiscono in culture diverse lo psichismo, la nozione di persona o la rappresentazione del corpo: in altri termini la nozione stessa di uomo. Basterebbe richiamare qui le complesse ed eterogenee modalità con cui si"fabbricano"nelle società gli uomini per avere un'idea di quanto le dimensioni simboliche e culturali partecipino della costituzione psichica e (possiamo almeno in linea di principio ipotizzare) generino, proprio in questa, non piccole differenze.
Remotti (1996) ha a lungo insistito sul concetto di antropopoiesi a partire dallo studio dei rituali della circoncisione fra i Nande dello Zaire. In un testo raccolto alcuni anni fa da un altro ricercatore, Remotti analizza i significati del canto iniziatico che così recita:"O dio dei nostri antenati, Katonda l'ordinatore, in una casa, in una famiglia, in un villaggio, che cos'è un uomo?"per poi concludersi con la seguente invocazione:"Che il nostro viaggio generi degli uomini". Sia che si tratti di una pura finzione sociale, sia che si tratti di un riferimento alla ben più problematica ed inquietante questione della carenza o incompletezza ontologica dell'uomo, è necessario interrogare il senso di queste pratiche, la relazione che in esse è possibile cogliere fra dinamiche religiose, storico-sociali e psicologiche: nel"nodo"che si stringe fra questi diversi profili è facile intuire come possa poi giungersi ad una ridefinizione di buona parte degli interrogativi prima proposti. La fabbricazione degli uomini costituisce d'altronde un fatto osservato da tempo e in contesti diversi dagli antropologi. Susette Heald (1982) ha utilizzato l'espressione making of men in riferimento ai rituali dei Gisu (Uganda orientale), sottolineando in particolare come lo studio della psicologia vernacolare permettesse di cogliere, accanto al più noto aspetto transizionale proprio di questi riti (e messo già in luce agli inizi del secolo da Van Gennep), quello propriamente trasformazionale. Godelier (1996), nel ricordare alcune concezioni relative alla nascita e al concepimento fra i Baruya della Nuova Guinea (popolazione appartenente al gruppo etnico dei Kukakuka, da lui a lungo studiata e nota per la cosiddetta"moneta di sale"), fra gli abitanti delle isole Trobriand e fra i Paici della Nuova Caledonia parla delle diverse maniere sociali di"fare"o"fabbricare"i bambini: in tali rappresentazioni, indipendentemente dal fatto che ci si trovi all'interno di sistemi patri- o matri-lineari, il ruolo dello sperma e del padre è come lasciato in ombra dai miti del concepimento e della nascita, che spingono pertanto a chiedersi che cosa significhi essere padre in quelle società e, più in generale, che cosa significhi in esse essere un individuo:
"Queste teorie indigene, locali, sono componenti variabili di quel doppio processo di metamorfosi che costruisce l'intimità impersonale e culturale che va ad imprimersi in ogni neonato e a partire dal quale egli va a vivere il suo corpo e ad incontrare l'altro (...)". Il bambino, continua l'autore,"comincia la sua esistenza già rivendicato dagli adulti, altri che hanno diritti e doveri nei suoi confronti perché si dicono suoi genitori e/o sono riconosciuti socialmente come tali. Il bambino, da un punto di vista sociale già oggetto di un processo di appropriazione, deve però a sua volta appropriarsi di coloro che se ne sono appropriati (...). Più tardi egli deve allo stesso modo separarsene, altrimenti non diventerà mai adulto come loro".
Anche Nathan ha ripreso, da un punto di vista etnopsicanalitico, i modi peculiari che culture diverse hanno di"fabbricare i bambini"(Nathan, 1995). Con termini diversi gli autori sopra menzionati si chiedono in definitiva: costituzione della persona, nascita e costruzione dell'individuo e del sé, nesso radicale fra miti, rituali di transizione e processi di socializzazione (l'eventuale e consapevole uso della finzione o della menzogna, previste e giustificate nei miti, non cambia in nulla la radicalità di questo nesso: semmai vi aggiunge ulteriore peso) (Lattas, 1989), come intervengono nel funzionamento dello psichismo e della società? Come l'uno e l'altro si embricano reciprocamente? Quello che mi sembra in ogni caso ovvio è che queste domande non possano essere accantonate quando si rifletta sul significato, le forme o la frequenza della condizione depressiva all'interno di un'altra cultura o sulla presunta assenza in questa stessa cultura del senso di colpa.
Analogamente a quanto gli antropologi mettono in luce, quando ho lavorato in Mali fra i dogon ho potuto verificare come il problema di riconoscere l'espressione della sofferenza psichica e studiare i modi della sua gestione (Beneduce, 1996 e 1997) si frangesse continuamente su questioni assai più ampie che, pur complicando non poco l'approccio clinico o epidemiologico, avevano però il pregio di ridefinire spessore e significato di molti degli abituali interrogativi della nostra ricerca.
Al di là degli aspetti strettamente metodologici, ci sembra decisivo porre il dibattito sulla"black depression", relativo cioè alla controversa esistenza della depressione nelle società tradizionali africane (Beiser, 1985; Kalunta, 1981; Marsella, Jablensky, Sartorius e Fenton, 1985; Coppo, 1983), anche all'interno delle dimensioni ideologiche che sin dall'inizio lo hanno contraddistinto, segnandone così almeno in parte il successivo profilo (penso soprattutto agli effetti della psichiatria coloniale e all'ideologia relativa alla"mente africana": Littlewood e Lipsedge, 1987; Collignon, 1997). La prospettiva adottata sarà pertanto immersa in una costante attenzione al contesto (culturale, linguisico, ideologico, ecc.) del proprio discorso e dei suoi effetti: ciò che significa già immergersi in una interdisciplinarietà che fra i suoi strumenti di riflessione comprende anche l'analisi storica.
3. Black depression
Fra le difficoltà comunemente invocate nelle ricerche etnopsichiatriche sulla depressione quelle linguistiche sono certo le più frequenti. Si è spesso sottolineata, ad esempio, la mancanza di un termine corrispondente a quello di"depressione"nelle lingue delle culture africane di volta in volta considerate. L'obiezione più ovvia a questa osservazione (dalla quale deriverebbe la prova dell'inesistenza della depressione in Africa), è che non necessariamente l'assenza del termine indica l'incapacità di concepire o rappresentare il corrispondente denotatum (a simili conclusioni era giunta, in altro ambito, la ricerca di Berlin sulla percezione dei colori). Ma quando si è provato a individuare espressioni che potevano in qualche modo essere assimilate alla nozione di depressione ci si è trovati confrontati con ben altri problemi.
Nel caso della lingua Yoruba (Nigeria), la traduzione letterale per i termini 'depressione' ed 'ansia' sarebbe"il cuore diventa debole"e, rispettivamente,"il cuore non è a riposo". Queste traduzioni, tante volte riportate nei lavori di psichiatria transculturale, suonano come la conferma indiretta di un altro assioma: le culture africane non psicologizzano ma somatizzano, la capacità di discriminare fra stati emozionali è bassa, prevalgono i riferimenti al corpo o ad organi simbolicamente pregnanti (come la testa o il cuore, per rimanere nell'esempio yoruba), non esistono pertanto le premesse per poter discorrere intorno alla propria condizione interiore, ai propri vissuti. Se depressione esiste, essa si manifesterebbe dunque prevalentemente sotto forma di disturbi somatici o somatoformi. Queste conclusioni possono essere assimilate in buona parte al modello evoluzionistico di Leff (1981), che proponeva nel suo studio sull'espressione delle emozioni l'idea (ripresa da un lavoro di Miner del '52) di un continuum che evolveva nel tempo da un lessico o"modo"somatico ad uno psicologico: quest'ultimo proprio delle culture occidentali, almeno nelle classi medio-alte e scolarizzate
Contro questo modello si è battuto Bibeau (1981), riprendendo dalla sua lunga esperienza di lavoro fra gli Angbandi dello Zaire numerosi esempi che dimostravano la ricchezza lessicale della loro lingua e la connessa possibilità di sottili differenziazioni fra stati di rancore o di gelosia secondo lo statuto sociale di colui che li provava, la causa particolare che li aveva generati, ecc. Più in generale, riflessioni come quella di Beeman (1985), contribuiscono a dissolvere l'idea secondo la quale i linguaggi occidentali siano più sviluppati perché meglio differenzierebbero l'espressione degli stati psicologici o"interni"(idea che, in forme solo di poco rinnovate, ripropone un precedente assunto: quello inerente alla presunta inadeguatezza del pensiero"primitivo"nell'elaborazione e comunicazione dei concetti astratti e nella narrativizzazione dell'interiorità).
Lutz ha da parte sua dimostrato, a partire da ricerche condotte in un altro contesto geografico e culturale (l'Asia), come le distinzioni fra mondo interno ed esterno, fra emozioni come atti non intenzionali, soggettivi da un lato e cognizioni dall'altro, fra eventi interiori ed azioni, fra disturbi affettivi e disturbi del pensiero, ineriscano a costrutti culturali tipicamente occidentali: primo fra tutti quello che distingue natura e cultura (le categorie diagnostiche relative alla depressione riflettono precisamente tali costrutti, e non possono pertanto essere rivendicate come universali): a Bali, nelle isole Marchesi, in Micronesia, un diverso orientamento epistemologico connota esperienze ed espressioni della sofferenza in modo altrettanto diverso. Più in particolare, a partire dall'analisi etnosemantica delle espressioni adottate dagli Ifaluk (Micronesia) per riferirsi a diverse condizioni emozionali, l'autrice mostra come tali espressioni non rinviano tanto ad un mondo interno, individuale (quello che, secondo Leff, solo una maggiore familiarità con il lessico psicologico ed introspettivo permetterebbe di esprimere appropriatamente, ben al di là del"modo somatico"), quanto ad un ricco intreccio di coordinate situazionali, relazionali (gerarchie sociali, ad esempio) o propriamente morali (Lutz, 1985).
Nel mio lavoro in Mali, quando ero accanto ai guaritori dell'altopiano dogon specialisti nella cura della follia, quando li osservavo mentre ricevevano i loro pazienti e prestavano loro le cure, ho avuto occasione di registrare un'analoga ricchezza semantica in merito all'espressione e alla rappresentazione dei sentimenti di angoscia e di afflizione. Ad esempio, il termine usato per indicare uno stato di preoccupazione, di ansia, è àlmi; ma quando lo stato di inquietudine supera un certo livello, si può utilizzare il termine ku-kommu, letteralmente"testa legata", cioè"avere un'idea fissa", che bene esprime quella condizione in cui tutta la nostra esperienza è come assorbita da un solo, ricorrente pensiero, il nostro mondo si contrae in esso, e diventiamo incapaci di pensare ad altro. Uno stato di tristezza che non sia accompagnato invece da particolare preoccupazione può essere espresso come kinde yayade, ossia"cuore, interno che piange"(5). Uno stato di considerevole angoscia, di profonda sofferenza, viene indicato con l'espressione kinde yamu,"cuore guastato, rovinato", ma anche, per gli altri significati del termine kinde indicati in nota,"principi spirituali guastati, deteriorati". La grave perdita di interesse per il mondo circostante e per la vita in generale fu resa da una paziente ricorrendo all'espressione seguente:"il mio cuore è disgustato con ogni cosa". La condizione di dubbio, di incertezza, viene tradotta con l'espressione kinde lei lei (letteralmente"cuore due due"o"cuore doppio": essere cioè fra due cose, fra due possibilità, fra due stati mentali ad uno stesso tempo; analoga soluzione esiste in bamanan, lingua parlata in Mali dal gruppo etnico maggioritario, i Bambara, i quali indicano la condizione di dubbio e di incertezza con l'espressione hakili fila fila,"spirito due due, spirito doppio") (Beneduce, 1996).
Proprio in bamanan, Koumare e Coudray, psichiatri operanti presso l'ospedale psichiatrico di Bamako (Mali), avevano indagato l'articolazione lessicale in merito a questi stessi stati psicologici. Dall'esame del termine kamanagan adoperato da un loro paziente, relativo a una condizione che non sembra mostrare via d'uscita nella consapevolezza di non poterne uscire comunque da soli (formulazione implicita dunque di una richiesta di aiuto), gli autori avevano tratto elementi per definire un ben più complesso albero semantico: prima di giungere alla condizione di kamanagan, come in un gradiente, c'è uno stato iniziale che possiamo identificare cone l'esperienza dello stare in pena e del rammarico (son ja e, rispettivamente, jigi tige). Si raggiunge poi, in situazioni di maggior vacillamento e sofferenza psichica, quello stato di profonda perplessità, d'incapacità a risolversi a prendere una qualsivoglia decisione che viene indicato con il termine kononagan, per giungere infine alla condizione di kamanagan e di totale, disperato abbandono (dabali ban). Un crescendo negli stati di ansia sino all'angoscia estrema viene descritto dai termini ja tige ("ombra, doppio reciso"), ja pan ("doppio volato via"), ja menen ("doppio bruciato") (Koumare e Coudray, dattil. non pubb.). Ja (o dia) costituisce una delle componenti fondamentali della persona nella cultura bambara (CNRS, 1981), e tali espressioni pertanto celano un ulteriore problema: la rappresentazione della persona, dell'individuo, delle sue componenti, della sua origine e del suo destino come aspetti fondamentali ed ineludibili nei nostri tentativi di comprensione degli stati emotivi, delle condizioni di sofferenza, della depressione eventualmente, in altre culture. Ma quante ricerche transculturali, approdate alla conclusione che non era possibile riconoscere sindromi e vissuti di ordine depressivo nelle culture indagate, hanno svolto con accuratezza queste preliminari ricerche? E quante invece, per giungere alla medesima conclusione, si sono limitate a mostrare foto e disegni rappresentanti attitudini"tipiche"della depressione?
I brevi esempi ripresi dalla cultura dogon e da quella bambara testimoniano, se ve ne fosse stato ancora bisogno, la disponibilità di un elaborato lessico"psicologico"nelle culture africane, la capacità di distinguere fra stati emotivi anche di poco diversi per intensità e struttura, e la presenza di una accurata fenomenologia delle esperienze di ansia, di angoscia, di incertezza, di esitazione, di disperazione (fenomenologia che da queste stesse espressioni può essere direttamente desunta).
L'ipotesi citata all'inizio di questo paragrafo ci sembra definitivamente confutata. Tuttavia dobbiamo riconoscere che in queste espressioni i rinvii al corpo (testa, cuore, ecc.), sebbene in parte ovvi in quelle culture dove si registra da un lato l'assenza di una rappresentazione"cartesiana"della persona e dall'altro il ricorso ad un modello medico di tipo umorale, sono sin troppo frequenti. Qui si annida però a mio avviso un secondo equivoco, questa volta non generato dallo scarso approfondimento etnosemantico preliminare di molti studi quanto derivante piuttosto dal confondere le metafore del corpo per un indice di scarsa capacità d'introspezione, di difficoltà alla verbalizzazione, e così via. Ancora una volta il nostro pregiudizio psicologistico, ed il"gioco linguistico"prodotto da molte delle psicologie del nostro secolo, rischiano di nasconderci che la potenza comunicativa di queste espressioni è considerevole, che l'ordito alla cui trama esse partecipano è quanto mai sofisticato, e che esse hanno probabilmente nei locutori che le pronunciano o le ascoltano un'eco maggiore per il fatto stesso che l'immagine riverberata origina proprio dal corpo o da sue parti: da quel corpo che è"materia e forma del simbolismo"(Augé), e che in talune culture giunge ad impregnare ed informare l'intera esperienza dei parlanti (Fedry, 1976). Nell'ascoltarle, nel rievocarle, noi sentiamo come una prossimità inusitata con tali esperienze, sentiamo che esse sono prossime a quell'embodied thinking di cui ha scritto Michelle Rosaldo, che la loro potenza deriva dall'attingere a un'esperienza comune: e cioè che emozioni ed affetti disincarnati, come già rilevava James agli inizi di questo secolo e oggi ricorda Kleinman, propriamente parlando non esistono, e che pertanto"il corpo", con il suo sentire, rappresenta la sorgente inesausta di metafore e significanti capaci di veicolare esperienze complesse. Lo ripetiamo: il silenzio o la scarsa attenzione delle passate ricerche su questi temi hanno avuto certo un ruolo nel concludere che la depressione era assente o mascherata nelle società africane (Beneduce e Collignon, 1995).
Riassumendo, abbiamo riconosciuto che 1) non mancano i termini per esprimere stati di angoscia, di depressione o altre condizioni che condividono con esse la stessa"aria di famiglia", 2) questi termini, pur facendo talora riferimento al corpo, veicolano con straordinaria efficacia comunicazioni concernenti vissuti, emozioni, stati"interni", esperienze psicologiche: intessono cioé una complessa ragnatela che è già una fenomenologia della sofferenza psichica, sottilmente ma tenacemente connessa al peculiare mondo della vita di queste culture. In esse le diverse condizioni (di ansia, di irritabilità, di incertezza, di disperazione) possono essere collocate, narrate e riconosciute adeguatamente. Se dunque la depressione, per come viene definita dai manuali della psichiatria occidentale, sembra essere meno frequente, a diversa espressione clinica o addirittura"mascherata"nel contesto di vita africano, le ragioni devono essere altre e forse rinviano soprattutto all'infondatezza della metodologia adottata e dei suoi stessi interrogativi ("esiste la depressione, la schizofrenia, la bulimia in Africa?").
Ma, a partire dall'esempio bambara e dal concetto di doppio e di ombra prima evocati a proposito degli stati di angoscia, si era detto che in essi viene alla luce anche la particolare rapresentazione dell'individuo e della persona (e, torniamo a ipotizzare, la peculiare struttura dello psichismo umano all'interno di un contesto culturale specifico). Senza approfondire un tema il cui spessore ci porterebbe quanto mai lontani (con le connesse nozioni di volontà, di responsabilità, di colpa, ecc.), è necessario ricordarne sommariamente alcuni aspetti: quelli in particolare riguardanti il rapporto fra l'individuo e il gruppo, l'individuo ed il mondo a lui circostante, perché è in relazione a questi rapporti che si struttura ed organizza anche l'espressione più caratteristica della depressione nelle società africane (soprattutto in quelle dove i cambiamenti sono stati meno accelerati): ossia l'istanza persecutoria. Riprendiamo a questo proposito alcuni passaggi da Ibrahima Sow (1978):
"La rarità, o meglio l'assenza di psicosi malinconiche e paranoiche e di nevrosi ossessive, per essere spiegata, deve essere messa in rapporto alla strutturazione della persona/personalità nella cultura africana. Queste forme cliniche, perfettamente individuate nella nosografia internazionale, rinviano ad una interiorizzazione estrema dell'istanza persecutoria; in un certo linguaggio, si potrebbe dire che in Africa gli interdetti relativi alla condotta sono ingiunti tardivamente al bambino (dopo i 6 anni), ed è difficile parlare di una istanza della legge (Super-Io) interiorizzata ed individualizzata; il controllo morale, benché ovunque presente, resta esterno all'individuo in quanto tale".
"Non si può concepire una psicologia e, a fortiori, una psicopatologia africana senza riferimento alle strutture antropologiche dell'esperienza di sé nelle tappe della vita tradizionale:
- da una parte, la persona africana non è un sistema chiuso, che si oppone al mondo esterno; l'individualità, in modo più netto che altrove, non può esser qui pensata che in stretto rapporto con tutto ciò che la circonda: un ambiente popolato da significanti culturali in un universo esso stesso onnistrutturato;
- d'altra parte, la persona/personalità africana non è un sistema"compiuto" (intorno ai 3-5 anni, ad esempio): l'essere umano, in quanto tale, è in un farsi perpetuo (...). Lo statuto di Persona non è realmente acquisito che con la vecchiaia, che è vicina al mondo degli antenati. Inseparabile dalle sue dimensioni sociali, la persona africana appare composita nello spazio, multipla nel tempo...".
Le parole di Sow (in assonanza con le ipotesi espresse da Murphy sul ruolo dello stile educativo dell'infanzia, del legame sociale, e delle loro recenti trasformazioni nella protezione o, all'opposto, nell'esposizione dell'uomo africano ad un analogo rischio di depressione), sottolineano come sia proprio nella maturità, nella vecchiaia, quando si è vicini cioè alla morte, che la persona raggiunge nella rappresentazione delle culture africane - quasi paradossalmente - il culmine della sua forza sociale, del suo potere; inoltre, i processi di interiorizzazione non raggiungono quella violenza che è propria dei nostri modelli culturali, dal momento che il senso dell'evento quotidiano, dell'esperienza e la stessa dimensione normativa vengono generati in prevalenza da istanze esterne (gli antenati, i geni e gli spiriti che popolano quello che l'autore definisce come il"mesocosmo"). Le sue osservazioni mettono in rilievo come l'individuo sia costantemente preso in un tessuto sociale non certo privo di conflitti e lacerazioni, tuttavia"denso"di senso e intrecciato di rapporti e connessioni; soprattutto, le sue parole ci dicono che l'individuo non cerca dentro di sé, pervicacemente, la risposta al suo Desiderio, non conduce una solitaria (e solipsistica) lotta contro i limiti dell'esistenza e le sue inquietudini: la famiglia, il gruppo, il villaggio, il clan, sono istanze sociali (e simboliche) che concretamente soccorrono in queste lotte il singolo individuo, pur se al prezzo di non poche rinunce.
Così definita, la struttura dell'immaginario africano, almeno nel suo assetto tradizionale, allorquando cioè esso riposi sull'organizzazione abituale della vita del villaggio, parrebbe naturalmente protetta dall'evento della depressione. L'individuo non è concepibile che all'interno di questa trama che lo accompagna ovunque, è stato scritto, che ne pervade le strutture psichiche, che permette un'attenuazione (quando non la risoluzione) delle prove più minacciose per il suo equilibrio.
Tuttavia, senza mettere in discussione i fondamenti di queste analisi, altri ricercatori si sono adoperati per mettere in rilievo piuttosto la dimensione di conflittualità esistente fra l'individuo ed il gruppo, i costi psicologici che il primo paga perché non venga erosa la coesione del secondo, i drammi che una rigida gerarchizzazione (di genere, di età, di caste, ecc.) talvolta comporta, facendo sì che il desiderio ed il progetto del singolo finiscano spesso con l'essere sacrificati a vantaggio della collettività. D'altronde anche sul piano del mito non mancherebbero elementi per cogliere i nessi fra queste interconnesse dimensioni della trasgressione, della colpa, della sanzione: Luc de Heusch (1976) analizzava la figura della volpe pallida (che, nella mitologia dogon, esemplarmente incarnerebbe le contraddizioni della condizione umana), mettendola in rapporto con la rivolta del figlio nei confronti del padre, l'incesto, la circoncisione e il significato del sacrificio. Heusch giunge sino ad ipotizzare un parallelo fra la mitologia dogon da un lato, Totem e Tabu dall'altro: la prima come una sorta di"rovescio"del secondo (castrazione e morte del figlio in luogo del parricidio proposto dal paradigma freudiano). Altri (René Girard e Maurice Godelier, ad esempio) hanno espresso riserve relativamente a simili interpretazioni del sacrificio: noi ci accontentiamo di aver evocato queste tracce che hanno comunque il pregio di riproblematizzare il nesso filiazione, rivolta contro la legge, colpa, sanzione, morte mostrandone espressioni e profili che non siano unicamente quelli ben noti della cultura giudaico-cristiana e della nozione di depressione che, in quella, troverebbe le sue radici"ontologiche"(Pewzener-Apeloig, 1993). Un altro motivo ci soccorre in questo riposizionamento dei termini del problema, stranamente trascurato da molti ricercatori che pure fra i Dogon hanno a lungo lavorato: quello del significato stesso dell'etnonimo.
Bouju (1995) s'interroga in modo originale sul costituirsi dell'identità dogon, sulla dimensione dell'etnicità dogon, e soprattutto sui modi che contribuiscono a delimitare questa identità (rispetto degli interdetti, regole matrimoniali, forme di reciprocità che marcano frontiere sociali, appartenenze: ciò che in parte sarà ripreso più innanzi). Ma l'autore ci offre anche un prezioso elemento di riflessione ricordando l'etimologia dell'etnonimo: dogó significa"il disonore, la vergogna"e si oppone a ogó,"l'onore, il comando, la ricchezza". L'etnonimo si riferirebbe dunque alla categoria morale di coloro che, conoscendo ciò che è la vergogna in quanto liberi di nascita (cioè non schiavi), hanno il senso dell'onore. Un dogó-no (un Dogon) sarebbe"qualcuno che appartiene alla famiglia di coloro che hanno il senso dell'onore". Gli obblighi, gli interdetti da osservare, i riti da compiere (odé yeyé , dove odé è"cammino, viaggio, rito"), costituiscono nel loro insieme la cultura dogon (dogó odù, letteralmente"la via dogon"). Ci sembra interessante notare che nell'etnonimo stesso sia inscritta la dimensione della vergogna e del disonore, allusiva di una infrazione antica, di una colpa mitica, di antiche dispute ed errori di cui l'etnonimo parrebbe essere il ricordo perpetuo. Anche Van Beek (1991) non manca di rilevare questo aspetto e di fare a questo proposito un'ipotesi:
"I segreti dei Dogon non sono affatto del genere di quelli iniziatici. Il sapere definito dai Dogon come segreto è in fatti del genere"scheletri nell'armadio". I segreti meglio custoditi nella società dogon appartengono a fatti che li disonorano e li umiliano in quanto membri delle loro famiglie o dei loro lignaggi: come ad esempio alcuni conflitti lontani, o i meccanismi e le strategie di riconoscimento relativi alla stregoneria e alla magia. La vergogna (dogo) è un concetto cruciale che è stato trascurato da Griaule, fra gli aspetti più ambigui della cultura dogon e continuamente nascosto sotto il tappeto nelle relazioni con gli stranieri. Anche fra loro i Dogon parlano con molta difficoltà di vecchie dispute o di sospetti attuali di stregoneria. Sarebbe disonorevole sia per loro stessi che per chiunque senta parlare di cose disdicevoli. Dal momento che una delle cose peggiori nella cultura Dogon è una accusa falsa, che causa l'immeritata perdita della faccia in colui che è stato erroneamente accusato, le persone sono molto caute quando parlano".
È davvero strano che tanti psicanalisti e neuropsichiatri abbiano accettato l'armonia di un popolo come testimone dell'assenza di conflitti senza interrogarsi sul suo significato, sui resti ai quali alludeva, giungendo a pensare quella cultura come vaccinata contro sensi di colpa originari. Se i meccanismi che presiedono al legame sociale e alle forme della narrazione sono così accurati nel prescrivere norme che contengano la conflittualità, che evitino riferimenti o allusioni a dissidi lontani e accuse come quelle di stregoneria (che segnano proprio nel legame sociale e fra lignaggi una sorta di catastrofe), la naturale conclusione avrebbe dovuto essere piuttosto che il senso di una colpa atavica e il sentimento di disonore che ne sarebbe derivato (inscritto nell'etnonimo stesso) potrebbero essere alla base di una complessa e sempre rinnovata strategia simbolica e rituale di trattamento degli effetti psicologici che agli individui pongono tensioni, vincoli, rinunce, eventi, sfide dell'esistenza: certo non che l'esperienza individuale della colpa, del fallimento, dell'umiliazione e dell'esclusione, o se si preferisce della depressione, siano ontologicamente estranei a questa cultura!Non si situa il mito di fondazione stesso di questo popolo nel solco di una trasgressione quale l'incesto? Non sarebbe quest'ultimo all'origine di un sapere particolare quale quello della divinazione? (Griaule e Dieterlen, 1965; Michel-Jones, 1978)
Da un'altra prospettiva, eminentemente etnopsicologica, Ellen Corin (1980, 1985) ha indagato le dinamiche del conflitto interpersonale e generazionale offrendo suggerimenti preziosi per riconoscere proprio nell'evento della malattia, o in un rituale come quello dello zebola messo in opera per la cura degli stati di possessione in Zaire, il sentiero tortuoso ed originale attraverso il quale ci si può riappropriare di una dimensione individuale, ridefinendo e negoziando il proprio statuto di soggetto. Al di là dell'arricchimento prospettico che il contributo di Corin ha reso possibile (evitando che si restasse prigionieri, in altri termini, di talune concezioni manichee che opponevano l'individuo occidentale, con la sua maledizione originaria, al gruppo africano, eternamente benevolo e protettivo), preme qui evidenziare che proprio questa dialettica, soprattutto se collocata all'interno delle più complesse e spesso drammatiche dinamiche sociali (si pensi alle guerre di questi anni), ci lascia intravedere che un rischio psicopatologico consistente, anche di tipo depressivo, può generarsi nelle faglie dell'organizzazione sociale tradizionale (Collomb e Collignon, 1974). Non voglio ripercorrere per intero il dibattito sul ruolo della modernizzazione e della deculturazione nello sviluppo delle sindromi depressive nel continente africano, ma almeno ricordare una ricerca antropologica che riprende proprio l'interrogativo centrale sullo sviluppo del senso di colpa e delle autoaccuse nelle società in transizione.
Si tratta dell'analisi condotta da un'équipe di ricercatori a Bregbo, in Costa d'Avorio. Qui il profeta Atcho aveva costruito una comunità alla quale giungevano persone affette da diverse malattie (in molti casi malattie mentali) per ottenere salvezza e guarigione (Piault, 1975). La condizione perché il processo terapeutico e salvifico disegnato sullo sfondo dello harrismo (una delle religioni sincretistiche sviluppatesi nel corso del nostro secolo nell'Africa Occidentale) potesse essere svolto con successo, era la confessione pubblica, da parte dei malati-adepti, delle loro colpe"diaboliche"(essi si accusavano in altre parole di aver compiuto innumerevoli omicidi, di provare desideri inconfessabili e di altre colpe terribili, frutto della presenza demoniaca). La lettura che ce ne offrono Zempleni ed Augé è esemplare prece riesce ad evidenziare l'articolarsi complesso fra trasformazioni economiche e sociali da un lato (la modernizzazione dello stato ivoriano, il suo"miracolo economico"che si andava intrecciando alla distruzione dei legami del villaggio, alla dissoluzione delle antiche alleanze di lignaggio e alla soppressione dei nessi anche simbolici della filiazione) e mutamento psicologico ed antropologico negli individui dall'altro. Alle loro coscienze"deterritorializzate"e"monadiche", il discorso di Atcho si offriva come risorsa unica ed estrema di"transizione"fra mondi diversi, transizione nel corso della quale molti erano quelli votati alla sconfitta, all'insuccesso, alla deriva del loro progetto economico. Nonostante la relativa funzionalità della comunità di Bregbo alle logiche del potere governativo, Zempleni vi coglieva inoltre come la possibilità di una negoziazione, di una mediazione nei confronti di un processo altrimenti intollerabile, nel quale potevano essere individuati elementi di conflittualità e di opposizione (desumibili, questi ultimi, anche dal contraddittorio atteggiamento del governo al suo riguardo).
Rimane sullo sfondo questo: le trasformazioni economiche, mai naturali ed oggettive, che sono proprie dei processi di modernizzazione ed urbanizzazione che hanno scandito in molti paesi africani il periodo coloniale e post-coloniale (ne abbiamo visto esempi nel corso delle monoculture intensive di arachide in Senegal e nella Casamance o di cacao in Ghana), inducono nel soggetto così atomizzato e allontanato dall'orizzonte del proprio villaggio, da quella cosmogonia quotidianamente reiterata e riprodotta attraverso rituali e sacrifici, gerarchie dello spazio e modi di riproduzione del legame sociale, una profonda modificazione della percezione di se stesso, dei confini della propria persona, delle proprie responsabilità, del senso del proprio destino Sono queste le premesse"idonee", ovunque, allo sviluppo di sintomi persecutori o depressivi che permettono di concludere che in Africa come altrove la condizione depressiva può essere"costruita"ed esperita. Essa non deve però essere riconosciuta in questi contesti quasi si trattasse di un'essenza o adottando il profilo sintomatologico ritagliato sulla definizione diagnostica della psichiatria occidentale, quanto piuttosto nel senso di una"condizione"presa nel mutevole ed imprevedibile gioco delle definizioni, delle egemonie culturali e discorsive, delle categorie del linguaggio comune quanto di quello medico-psichiatrico (del loro successo o del loro declino), non meno che sullo scenario delle relazioni umane e del loro mutare: relazioni che sono sempre, al medesimo tempo, di potere (di forza) e di senso (Augé, 1977).
4. Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.
A Dobolo, ai nostri giorni, si dividono le terre di colui
che le ha prese dal padre fra i figli
del defunto e i figli del successore del defunto.
A Sibi-Sibi, i figli del defunto vanno invece a chiedere
una parte della terra al loro zio materno.
Rondeau (1994)
- Il Nommo-Antenato è stato ucciso dagli uomini nella
sua forma di serpente, e la sua testa seppellita.
- E perché lui?
- Perché egli era il maestro della Parola
Griaule (1948)
Ogni vuoto lasciato da una morte all'interno del villaggio viene
colmato da un successore e provoca lo spostamento di una"casa"
(procedendo verso il centro del villaggio) per tutti i cadetti del defunto.
In teoria ogni Karambé compie nella propria vita un percorso
di andata e ritorno tra il villaggio e la periferia"
Bouju (1984).
È preliminare una sottolineatura: nel dominio dell'etnopsichiatria le generalizzazioni, pur necessarie, devono essere utilizzate con cautela. La parola chiave qui è meno il termine"struttura"quanto piuttosto quello di"contesto". Quando si dimentica questo si incorre inevitabilmente dentro inestricabili aporie. Il rischio è quello di mescolare differenze, dinamiche particolari, fatti sociali e comportamenti individuali all'interno di rappresentazioni semplificate che si rivelano essere in buona parte frutto delle nostre proiezioni. Nel caso dell'Africa, come ripeterò anche dopo, il sottolineare unicamente il ruolo della famiglia estesa, la valorizzazione del gruppo in luogo di quella dell'individuo, la natura informale (primitiva?) delle economie tradizionali o delle forme locali del potere dimenticando altre variabili, altre trasformazioni, ha finito spesso col replicare anche in psichiatria culturale quello che è stato definito"paradigma arcadico"(Lucas e Barrett, 1995), ossia l'immagine di un mondo tradizionale con pochi conflitti, di un gruppo coeso dove l'armonia sociale dominava i desideri individuali contribuendo a prevenire forme di sofferenza e di disagio quali quelle proprie delle società occidentali. Non siamo molto lontani da quella che Augé ha definito in una lunga intervista recentemente pubblicata come"zuppa storica"(Augé e Torrenzano, 1997): uno sguardo sommario alle tante, altre Afriche degli ultimi anni svelerebbe per intero l'artificiosità di taluni modelli psicologici e sociologici costruiti nel passato.
In questo paragrafo vorremmo mettere in rapporto la questione della depressione con due variabili particolari: qualle dello spazio (del territorio, in altri termini) e quella della morte. Entrambe si configurano infatti come determinanti nella costituzione del legame sociale e dell'individuo.
La terra, gli animali, gli elementi dell'ambiente naturale sono tutti in continua transazione con l'individuo, con il suo"sé", se si vuole utilizzare questa espressione: anzi ne rappresentano dimensioni costituitive. O meglio: l'essere umano, il senso delle sue esperienze e delle sue appartenenze, partecipano di queste più ampie dimensioni sopraindividuali. Danneggiare o sottrarre la terra, obbligare le persone ad abbandonare i propri luoghi d'origine attraverso ricollocazioni forzate o restringerne la mobilità (come accade all'interno di tanti campi profughi in Africa), rappresentano dunque attacchi ambientali e, insieme, assalti diretti al sé, concrete minacce psicologiche, i cui effetti in termini di sicurezza, identità, status sociale, reti simboliche, possono essere devastanti. Per meglio comprendere questo è necessario riferire se pur rapidamente qualche esempio che testimoni come la percezione e l'organizzazione del rapporto uomo/territorio fondi psichicamente e socialmente l'individuo.
La dicotomia fra boscaglia, savana da un lato e spazio abitato del villaggio è stata costantemente sottolineata da diversi autori. La pericolosità della brousse (savana, boscaglia) sarebbe connessa alla sua asocialità e alla difficile controllabilità delle forze che la animano e la percorrono. Simbolo del caos, in essa non non possono aver luogo quegli eventi per i quali ci si deve sforzare invece di armonizzare ed equilibrare le forze (nascita, morte, rapporti sessuali: un'unione sulla nuda terra della boscaglia rappresenta una grave trasgressione). La brousse è il mondo del nyama, una forza impersonale che nutre e pervade uomini e cose, oggetti, luoghi, pietre, alberi, anime: la sua ambivalenza costitutiva ed irriducibile va governata dalle forze del gruppo e della società (Huet, 1994). La boscaglia (in dogon donno so olu) è però anche sorgente di forza, di saggezza, il luogo dove viene cacciata la selvaggina, o dove vengono svolti alcuni rituali, e dunque essa partecipa dello scambio di energia con il villaggio.
Bisilliat (1981-1982) da parte sua ha proposto una possibile dicotomia nell'organizzazione concettuale delle malattie fra i Songhay: quelle della brousse sono causate per lo più dai geni, quelle"di villaggio"mettono in scena i modelli fisiopatologici (la nozione di cammino del sangue, il va-e-vieni di una particolare malattia nell'intestino fino alla sua estremità per poi rimontare al ventre e dare la morte. Per i Peul Djegobé del Burkina Faso, la brousse (laddé), opposta al villaggio (waru), è piuttosto sinonimo di quell'aspetto del mondo sul quale l'uomo non ha presa. La savana rappresenta qui anche e soprattutto lo spazio ignoto, sconosciuto e indomato, che si impone all'uomo senza che questi sia mai in grado di dominarla per intero. Ma proprio in virtù di questo suo potere e di questa dimensione dell'ignoto, la"libertà nella società si fonda sulla possibilità per ogni individuo di entrare in rapporto diretto con la savana, cioè con la natura", senza tuttavia soccombervi (Riesmann, 1970). La libertà sarebbe dunque in questo caso caratterizzata come la capacità di essere aperti, di resistere alle pressioni e ai richiami dell'ambiente (naturale o sociale che sia) senza d'altra parte essere ad essi insensibili.
Lo spazio privato della casa e quello esterno del villaggio, il primo dominato dalla donna, il secondo dall'uomo, avrebbero invece nei villaggi del Sudan meridionale rapporti diretti con il mantenimento di una rigida differenziazione di genere e, secondo Janice Boddy (1982), persino con le rappresentazioni del corpo, della purezza e della contaminazione, e con una pratica come l'infibulazione. La casa nei villaggi del'Africa sub-sahariana, la disposizione geometrica delle abitazioni - mai casuale, mai improvvisata, ma sempre sottoposta ad un ordine preciso ed intelligibile fatto di livelli di potere occupati nella fratria e nel clan, struttura familiare (patrilineare, uxorilocale, ecc.), differenze di genere, classi di età, e così via - si trova sottratta a questa ragnatela di significati che, lo ripetiamo sono costitutivi dell'esperienza di sé, del senso di integrazione dell'individuo. Non è un caso che nel canto iniziatico rivolto al dio Katonda, più sopra già menzionato, così si chieda da parte dei nuovi adepti:"O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline", quasi che l'essere, l'abitare, l'inscrivere il proprio destino in un luogo e in un lignaggio facciano un corpo solo con la costruzione dell'essere sociale e culturale. La logica antropomorfa che organizzerebbe secondo molte interpretazioni non pochi dei tipici villaggi africani aggiungerebbe elementi quanto mai pertinenti per queste riflessioni: l'individuo intesse la sua esistenza dentro una spazio socializzato e gerarchizzato; le abitazioni, i campi, la divisione delle terre, le distanze fra le case e fra queste e i pozzi d'acqua, tutto avviene secondo una logica, un disegno che danno spessore concreto a rapporti di potere, affettivi, generazionali, di alleanza. Non sono giustapposti dunque solo a fini retorici i frequenti riferimenti ai luoghi, i nomi dei villaggi o dei quartieri che, associati ai patronimi, scandiscono la recitazione dei cige, dei"discorsi della notte"nell'altopiano dogon: essi contribuiscono infatti a rimemorare e ritessere la memoria collettiva, e così facendo il discorso della tradizione diventa discorso del far credere (mito) e arte del vivere, insieme tracciando i limiti del gruppo (Gache, 1993). Discorsi impalpabili che, in altri termini, partecipano alla costruzione dell'identità con i loro rinvii metaforici alle strutture della casa e alle strade del quartiere, alla polisemia dei nomi di un villaggio, a tutto quanto evoca la storia della loro fondazione e, insieme, il senso dell'essere infividuale fissato in un preciso territorio: discorsi che la nosografia psichiatrica non riesce nemmeno in parte a catturare fra le sue maglie così larghe e indifferenti.
Ma perché parlare di individuo e territorio in uno scritto che si interroga sul nesso fra sofferenza, depressione, legame sociale e sue metamorfosi? Perché se da un lato l'urbanizzazione, l'abbandono dei villaggi in ragione dei processi migratori, l'indebolirsi dei legami sociali sono ragionevolmente rilevanti nel determinismo dei processi che chiamiamo individualizzazione e autonomizzazione, come nella faticosa libertà che li accompagna, dall'altro è la forma stessa con la quale noi ci poniamo rispetto allo spazio, ai luoghi, che rende possibile stringere con essi un rapporto di un tipo (riconoscervi segni, retaggi, logiche, senso, appartenenze, vincoli) o di un altro (effimero, transitorio, come accade nei non-luoghi di cui parla Augé). Possiamoa questo punto interrogarci sul significato di messaggi pubblicitari come il seguente, utilizzato a Dakar da una società immobiliare e di Capo Verde:"Con degli appartamenti all'europea potrete rifiutare di ospitare i vostri genitori"(lo ricordano Massiah e Tribillon, autori citati da Latouche, 1992). Qui il significato diventa chiaro (e agghiacciante): l'autonomia tanto auspicata non è l'esercizio di una libertà contro l'ingerenza parentale o gli obblighi verso gli anziani, non è l'espressione di una resistenza a pressioni e vincoli intollerabili, è solo il frutto di una fuga in uno spazio chiuso ed anonimo dove non valgono altre leggi che quelle della separatezza e del privato, dove gli altri semplicemente non possono entrare, e dove i legami di parentela non possono mantenersi e nutrirsi. Non sembra tutto questo proprio l'opposto di quanto della nozione di persona, dei suoi scambi e delle sue dinamiche, aveva scritto Sow in uno dei passaggi prima citati? E che cosa comporta questo restringersi del mondo, questo cancellare vincoli, per la coscienza individuale?
Ripetiamo ancora una volta alcuni elementi del nostro procedere. Dopo aver mostrato che 1) c'è una disponibilità lessicale ed espressiva in grado di formulare concetti e narrazioni che abbiano per tema la sofferenza psichica e l'esperienza depressiva, dopo aver ricordato che 2) non è difficile rintracciare anche in una cultura in apparenza caratterizzata da un'aperta armonia ombre fortemente allusive di una vergogna e di un senso di colpa originari (la cui presenza taluni miti rilevano con forza), e dopo aver sottolineato 3) che la dimensione territoriale entra in misura determinante nella costituzione del soggetto e 4) che la sua de-simbolizzazione possa avere - almeno in linea di principio - effetti considerevoli sul mondo psichico e relazionale dei membri di quelle società che in modo accelerato hanno conosciuto questo processo, vogliamo ora evocare il significato protettivo che vincoli familiari e rappresentazioni della morte hanno riguardo al rischio di emergenza della depressione.
"Alla morte del padre non cambia nulla, perché la riattribuzione delle terre e dei beni non avrà corso se non dopo la cerimonia della fine del lutto, che si tiene uno o due inverni dopo i funerali. Se il figlio maggiore del defunto è un uomo ana, egli va a coltivare con i suoi fratelli minori la terra del defunto, accumulando il grano, riempiendo i granai sino alla festa della fine del lutto che ha luogo agli inizi della stagione calda (Nambana). Il grano così accumulato e proveniente dalle terre del defunto, servirà a preparare la birra di miglio o di sorgo destinata ad essere bevuta da tutto il quartiere, dagli alleati e dai visitatori durante la festa. Qualche settimana più tardi, in occasione della festa della semina (Ao Tun), il figlio anziano procede al rito del bundo danya, per mezzo del quale l'anima del padre defunto raggiunge gli antenati del lignaggio (tiliango). Soltanto allora viene attribuita (ka ba galu) al figlio maggiore la parte di patrimonio terriero che gli spetta: dopo di che egli va a ridistribuire (djominê kulo) questa parte, più o meno equamente, tra se stesso e i suoi fratelli più giovani"(Bouju, 1984).
Questa sequenza mostra eloquentemente la logica che sottende la complessa organizzazione dei tempi del dolore e della festa, del commiato e del passaggio dell'eredità, sino all'antenatizzazione del defunto. Una volta di più, la morte viene celebrata in tutti i suoi aspetti come una separazione che non spezza soltanto ma anche riannoda, ad altri livelli, le relazioni familiari e quelle con il mondo degli antenati: continuità e cesura non sembrano qui l'una l'opposto dell'altra ma dimensioni dialettiche ricomposte grazie alla consapevole inscrizione del singolo e sempre tragico evento (la morte di qualc uno) all'interno di un ben più ramificato processo familiare e sociale. Il dolore non viene sdrammatizzato ma incanalato,"arrangiato"su un altro codice. Sapere che si diventerà antenati consente persino a colui che sta per morire, possiamo ipotizzare, di non sentirsi per sempre strappato dal mondo della vita e della comunità ma di pensarsi, all'interno di quest'ultima, come ancora nutrito dal comune ricordo e da quelle lodi che, nella notte, di tanto in tanto, saranno cantate nel corso delle cerimonie. Questo denso lavoro simbolico sta dunque a provare che la morte rappresenta un evento doloroso, una minaccia incombente, che però non viene rimossa o negata quanto piuttosto riassorbita, segmentata e ricomposta all'interno di una rete di significati che ne attenuano il peso individuale e familiare (Beneduce e Collignon, 1995).
Dal momento che rappresentazioni pure non esistono ed esse si incarnano sempre in comportamenti concreti, in scelte e dilemmi materiali, voglio sottolineare da subito come tali rappresentazioni si presentano al nostro sguardo come dispositivi in grado di costruire e gestire legami di natura e livello logico differenti:
- della famiglia e della comunità con il defunto,
- del gruppo intero con l'anima di quest'ultimo,
- di coloro che sono in rapporto di discendenza diretta o indiretta con il futuro antenato (soprattutto in riferimento ad alleanze matrimoniali, eredità, distribuzione della terra, ecc.)
- della comunità con la propria memoria comune,
- del gruppo nel suo insieme con i sospetti, le tensioni e i conflitti che lo attraversano,
- di alcune figure particolari ("uomini impuri", terapeuti ed indovini, ecc.) con il territorio della morte e dell'invisibile.
A quest'ultimo riguardo può essere ricordato come molti miti raccontano il sopraggiungere della morte fra gli esseri umani. Originariamente sconosciuta, essa vi viene descritta infatti come la conseguenza di una colpa (più o meno innocente, più o meno inconsapevole: tuttavia ancora una volta presente), di un'infrazione all'origine di una rottura e della successiva sanzione, ciò che prelude al definitivo allontanamento dal Dio supremo (Wuro) e alla fine del periodo cosmogonico. Ora bisogna aver presente che quella rottura, ovunque raccontata nei miti, non è solo trasgressione di interdetti ma anche e soprattutto breccia, imprevista continuità fra spazi prima rigorosamente separati: quello della savana, dell'incolto (della natura, in altri termini) e quello dello spazio abitato e sottoposto alle leggi umane, del villaggio (la cultura). Così un mito fogola, secondo il quale una donna golosa avrebbe rubato nella savana la carne della Morte, resa qui personaggio, e avendola portata con sé nel villaggio per mangiarla avrebbe introdotto poi la morte fra i suoi abitanti. Sebbene i paralleli con miti più familiari alla nostra tradizione religiosa non mancano, si tratterebbe meno di una punizione quanto piuttosto dell'ingresso nel mondo umano di qualcosa che da allora fa parte della vita di tutti. E' questo il modello che Thomas ha definito giobbiano, per contrapporlo a quello edipico del messaggio mancato o dimenticato, ed analizzato nei miti amerindiani da Lévi-Strauss.
Si potrebbe continuare a lungo. Un esempio eloquente della molteplicità di livelli operanti in questi miti e rappresentazioni si ritrovano fra i Bijago della Guinea Bissau (Henry, 1989, 1995-1996), dove il morto viene sottoposto ad un vero e proprio interrogatorio, non diversamente da quanto accade in Casamance (in Senegal) fra i Diola (Palmeri, 1990). Nel corso di questa operazione al cadavere, sostenuto da alcuni membri della famiglia e del villaggio, si chiede di rispondere sì o no ad una serie di domande sulle circostanze della morte, sui possibili colpevoli, e così via; sarà il movimento della lettiga, i suoi arretramenti o suoi spostamenti in direzione di una persona o di una casa, a dare nome e visibilità ai sospetti. L'esito di una malattia può essere dunque la morte di un individuo, ma una morte non può restare senza significato, e questo significato risulta in qualche caso la definizione di una responsabilità nel lignaggio del defunto o nel villaggio vicino, di un desiderio inconfessato. Fra i Bobo del Burkina Faso (Le Moal, 1986), i rituali funerari della fine del lutto (che hanno luogo, come quasi dappertutto, dopo un lungo intervallo di tempo, da alcuni mesi sino ad un anno, dal momento del seppellimento) sembrano partecipare così intimamente della vita del villaggio da coincidere temporalmente sempre con una delle fasi della luna nascente: tant'è che si definiscono letteralmente"luna delle lamentazioni", ye kwa, o"luna dei funerali", con riferimento alla fase lunare che individua il punto di partenza per il computo annuale del tempo.
5. Legame sociale, disincanto e depressione
La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo
di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell'umanità.
Ogni epoca si presenta irrimediabilmente moderna e ciascuna
ha le sue buone ragioni per essere così concepita
Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo
"We don't know what to teach
the children any more"
(Malus, cit. in Kirmayer, 1993)
Quali sono allora le condizioni che contribuiscono a creare la configurazione sociale e antropologica di una sofferenza come quella depressiva, come quella del suicidio? Sebbene non bisogna mai generalizzare (ad esempio, presso alcune culture il suicidio rimane tuttora un atto di libertà, non l'equivalente estremo di una sofferenza psicologica), e sebbene i modelli durkheimiani siano stati pensati per un problema come il suicidio nella prospettiva di un fenomeno sociale (dunque non utili a spiegare questo o quel particolare suicidio), possiamo ricordare con Kirmayer (1993) ed altri autori (Hunter, 1991; Reverzy, 1993; ecc.) che la deculturazione massiccia di popoli e gruppi (quale che sia la sua ragione), la deriva o l'alienazione del legame sociale, l'indebolimento della memoria comune e l'impoverimento dei meccanismi sociali e simbolici che ne permettevano il riprodursi, segnano drammaticamente il futuro di una cultura (l'impennata di tassi di suicidio o di comportamenti come l'alcolismo fra gli indiani del Nordamerica, fra i Maori della Nuova Zelanda, fra gli Aborigeni d'Australia, fra gli abitanti delle Isole della Riunione, ne costituiscono testimonianze inoppugnabili). Analoghe riflessioni sono state proposte laddove, in relazione a conflitti bellici, lutti e traumi, si è sottolineato come la categoria del disturbo da stress post-traumatico e l'approccio psico-sociale realizzato in rapporto alla sua precoce individuazione, fossero a dir poco privi di senso. Allorquando questa mancanza di speranza coinvolge un'intera comunità, un approccio individuale, che pure è utile nell'aumentare il senso di autostima e di potere personale, può rivelarsi decisamente inadeguato. Piuttosto che collocare le comunità tradizionali in un milieu terapeutico dove tutti sono preoccupati in rapporto ai problemi della salute mentale, può risultare più utile indirizzare la nostra attenzione ai problemi sociali, alla frattura prodottasi nei meccanismi che presiedono alla trasmissione delle tradizioni culturali e dell'identità collettiva, al"politico"e alla particolare modalità con la quale si definisce la forma e la legittimità della memoria. La rinascita di pratiche terapeutiche tradizionali che invocano la dimensione spirituale come una sorta di legame (con gli antenati, con un passato mitico, con il tempo delle perdute libertà, con una propria immagine valorizzata) rappresenta - nel caso specifico della Ghost Dance - una prova ulteriore di questo bisogno e dei meccanismi simbolico-sociali spontanei che spesso lo realizzano.
In conseguenza di quanto detto, possiamo affermare ora che la ricerca ostinata della presenza della"depressione"in Africa o, alternativamente, la dimostrazione della sua assenza, rappresentano strade entrambe insoddisfacenti se si resta all'interno delle categorie della psichiatria occidentale e della sua nota ossessione nosografica, con i connessi rischi essenzialisti che altre volte hanno condotto a reificare vissuti e condizioni, attribuendo loro cioè uno statuto ontologico. Lo stesso problema veniva posto già con estrema chiarezza da Sow nei termini seguenti:
"Le categorie dette classiche, puramente descrittive, esterne perché troppo generali, sono superficiali ed artificiali, e pertanto inadeguate a rendere conto delle realtà cliniche, umane, sociali e psicologiche incontrate in Africa (...)". E in nota egli aveva poco prima dichiarato:"Siamo stati sempre profondamente convinti delle aporie costitutive di una nosografia descrittiva senza il supporto di una nosologia e di una psicopatologia esplicite che la rischiarino e la rendano coerente"(Sow, 1978).
Più recentemente Kleinman affermava qualcosa di simile quando sosteneva che molti disturbi sono virtualmente intraducibili quando rimossi dalle loro naturali reti semantiche, dai loro"locali mondi morali". Rimane pertanto da comprendere quale sia la strada più idonea nell'approccio ai problemi sino ad ora discussi, ma vorrei proporne un preliminare riposizionamento, almeno parziale, a partire da una prospettiva che solo in apparenza può sembrare eccentrica.
"Fra i Goun del Benin, quando due persone si incontrano per la prima volta, quella più anziana prende l'iniziativa di domandare all'altra chi sia: quest'ultima dice il suo nome, quello dei suoi parenti da parte di madre e di padre. Se fra le due persone non viene reperito alcun legame immediato di parentela, cominciano i saluti e può poi svilupparsi la conversazione. Ma se capita che esse appartengano ad una stessa famiglia, prima di scambiare ogni altra parola, la persona più anziana ripete all'indirizzo di quella più giovane l'albero genealogico di quest'uultima risalendo nel tempo quanto più lontano possibile, poi comincia a salmodiare le lodi e le gesta dei loro comuni antenati. Ad ogni incontro si può essere così condotti ad evocare i morti, poi le persone vive: ad ogni istante l'appartenenza al lignaggio viene confermata, la filiazione è stabilita o ristabilita, in ogni caso viene ricordata"(Guyotat, Agossou e Cappadoro, 1981).
Il minlam, questo il nome del cerimoniale descritto, rappresenta un'eccellente metafora di quel legame, di quella memoria e di quella traccia che si snoda nel tempo e a partire dalle quali ha senso parlare, come si è proposta da parte di qualche autore a proposito delle culture africane, di"naturale prevenzione della depressione"(altre, più elaborate, forme di prevenzione del lutto patologico e della depressione reattiva sono riportate in Beneduce e Collignon, 1995). Credo che il minlam, come il peculiare rapporto con gli antenati e, in generale, le rappresentazioni della morte proprie delle società africane, svolgano un'azione fondamentale di supporto dell'individuo, attenuando in lui l'angoscia del divenire, la violenza della separazione e del lutto, radicandolo in un mosaico di riferimenti, di connessioni, di obblighi la cui portata terapeutica, in senso proprio, non ha bisogno di essere dimostrata: essa ci appare evidente ed immediata quando assistiamo ai rituali funerari o alle cerimonie che chiudono il periodo del lutto fra gli Evé del Togo, quando periodicamente si offrono agli spiriti degli antenati sacrifici e si versa crema di miglio sui loro altari, quando fra i Lobi del Burkina Faso si erige un altare nel corso dell'antenatizzazione di un defunto (Fiéloux, 1994), o quando fra i Dogon del Mali si augura all'anima del defunto di passare nel mondo dell'al di là, ove potrà incontrare finalmente i suoi antenati. Troviamo in questi rituali anche un'espressione esemplare, una prova empirica, della celebre nozione lévistraussiana di"efficacia simbolica"(come pure degli irrisolti problemi che ancora l'affliggono): le metafore che scandiscono la parola rituale e il ritmo delle invocazioni stanno a celebrare il tempo del mutamento e del distacco, ma insieme modificano il tono dell'umore, agiscono su stati affettivi ed emozioni, influenzano i comportamenti e le percezione dei legami che mutano, in molti casi"curano". D'altronde sono proprio questi legami che progressivamente, nel corso di mutamenti sociali o eventi quali la migrazione e l'esodo di massa, si indeboliscono; sono questi atti di riconoscimento reciproco e quotidiano, di rinnovato senso di appartenenza che, una volta perduti, lasciano i singoli sprovvisti dei fondamentali meccanismi di protezione e, potremmo dire, di riproduzione della propria identità e del senso della propria appartenenza, senza che nuovi dispositivi siano per altro già operanti.
Allorquando si dirada la trama simbolica e sociale dentro cui gli individui si definiscono e si riconoscono, si fa strada, insidioso, il rischio psichico della depressione, che la luce cruda dei processi di urbanizzazione, con i suoi effetti sulla struttura economica e familiare, rende ancora più evidente. Nelle metropoli africane, dove le risorse terapeutiche tradizionali sono anch'esse sottoposte a drammatici cambiamenti mentre, i sentimenti di solitudine, le derive della memoria del gruppo, gli insuccessi affettivi o nel lavoro, possono incontrare altre definizioni e altri dispositivi di cura. Non diversamente, anche sfumati disturbi somatici, certi dolori cronici ed inspiegabili, o la certezza di essere caduto vittima di un maraboutage, possono venir catturati da un'altra rete di significati, o definiti all'interno di un'altra ragnatela di rapporti e di nomi: ci riferiamo al discorso medico-psichiatrico e alle sue categorie diagnostiche, alla possibilità che su quelle esperienze venga finalmente apposta l'etichetta"depressione". Possiamo ricordare a questo proposito quanto scrive Kirmayer:
"Il significato dato ai sintomi e all'angoscia possono trasformare la sofferenza stessa (...). Dato uno specifico significato, la malattia diventa metafora - una risorsa retorica cioè da usare per esplorare e comunicare il significato più esteso della nostra condizione"(Kirmayer, 1994; il corsivo è nostro).
Il problema si situa proprio qui: in un contesto culturale quale quello africano, quanti riuscirebbero ad utilizzare come nuova risorsa un"significato"straniero quale quello veicolato dalla nostra categoria medico-psichiatrica di depressione, derivato da altri saperi, da altri modelli psicologici e da altri aggregati nosologici? Questo scenario non si osserva ubiquitariamente, ma rappresenta un'eventualità ormai non più rara. Le premesse antropologiche a partire dalle quali si erano mosse le critiche a quegli approcci rivelatisi poco sensibili alla dimensione culturale, s'incontrano qui con la necessità di risituare la psicopatologia della black depression dentro il mutevole quadro del contesto sociale e simbolico che di volta in volta la caratterizza: solo una volta che ci si sia collocati per intero al suo interno possiamo arrivare a disegnare, della condizione che solo per semplicità continuiamo a etichettare come depressione, un profilo intelligibile. Ma per evitare di reificare, dopo le malattie, anche concetti come life event, supporto sociale, fattori di protezione, la clinica e l'antropologia della depressione, insieme all'etnolinguistica e alle altre discipline di cui abbiamo prima ricordato i contributi, devono necessariamente procedere gomito a gomito, entrambe affondando i piedi fra le conflittuali dinamiche del senso e del potere e fra i meccanismi che contribuiscono a far emergere o riprodurre in altre realtà geografiche esperienze, categorie, sintomi della depressione. Non è un modello di ricerca facile da realizzare, e le categorie usuali sembrano vacillare insieme alle risposte e a quelle prospettive dicotomiche che hanno sempre dominato in psicopatologia. Le domande che si pongono, per ricordarne solo qualcuna, sono quanto mai dense: l'identità culturale è solo un'invenzione degli antropologi o una dimensione forte e irriducibile dell'esistenza? non è forse il caso di chiedersi meno se esista o no l'identità etnica quanto piuttosto in quali contesti essa assurge a caratteristica dominante o unica di un'interazione fra gruppi e individui? i legami familiari e di lignaggio costituiscono la realtà più profonda dell'individuo nelle culture africane o rappresentano unicamente costrutti che nascondono percorsi esistenziali e scelte autonome non dissimili da quanto accade nelle società occidentali? l'universalità dello psichismo è un fatto indiscusso o possiamo costruire modelli in cui siano evidenti anche i luoghi in cui tale principio vale solo in parte e altri modi, altre sue realizzazioni diventano evidenti? la modernizzazione ha fra i suoi costi inevitabili un accresciuto rischio di depressione o non consente, alternativamente, anche l'esplorazione di altre risorse nell'individuo e nel suo gruppo di appartenenza? Risposte soddisfacenti o riformulazioni utili di tali interrogativi non possono derivare che da una pratica e da una riflessione profondamente mutate, dove lo sguardo dell'epidemiologo, l'ascolto del clinico, l'interpretazione dell'antropologo sono l'uno accanto all'altro, e solo così possono utilmente proseguire il loro lavoro di frontiera. Non è un caso se Augé (1997) nuovamente riprende il suo studio sulla comunità di Bregbo, condotto oltre vent'anni fa, per ritrovare nell'esperienza dei profeti-guaritori della Costa d'Avorio singolari premonizioni delle dinamiche e dei problemi ai quali oggi l'uomo di ogni società di questo pianeta si trova confrontato. Le inusitate esperienze della solitudine sono la prova imprevista per molti, ovunque (nelle metropoli africane come in quelle dell'Occidente estremo), e Augé coglie nel comportamento di Atcho e di altri come lui che si sono ispirati al profeta Harris la singolare anticipazione di riflessioni, conflitti, strategie e problemi che sono oggi propri della surmodernità:
"I suoi successori (...) cercheranno di proporre una riflessione d'insieme sul senso dell'attualità. Per loro, la malattia individuale è uno dei sintomi di tale attualità (per esempio, la punizione della menzogna, dell'invidia e della gelosia che frenano lo spirito del progresso), e la guarigione dimostra la fondatezza di questo discorso e di questa riflessione (...) Ma si può andare oltre e affermare che i movimenti profetici in se stessi costituiscono un'anticipazione, se non una profezia, di una situazione oggi generalizzata e condivisa da tutti: la mondializzazione del pianeta. I popoli colonizzati sono stati i primi a farne l'esperienza perché sono stati i primi a subirla (...). I soggetti colonizzati hanno fatto una triplice esperienza che è oggi anche nostra e che loro hanno pagato dolorosamente: l'esperienza dell'accelerazione della storia, del restringimento dello spazio e dell'individualizzazione dei destini".
I percorsi della mente umana disegnati dall'evoluzionismo psichiatrico di questo secolo sembrano qui rovesciarsi, e le inquietudini che credevamo specifiche delle solitudini urbane dell'Occidente mostrano di avere i loro presupposti ovunque, anche in quelle culture tradizionali dove lo sguardo post-romantico aveva colto spesso solo armonia e solidarietà. I processi economici e le dinamiche del potere (ieri quello coloniale, oggi quello della globalizzazione dei mercati) s'intrecciano ostinatamente alle cosmogonie, i rapporti di forza raschiano la superficie levigata dei simboli e costringono individui e gruppi a popolare le loro memorie di altre metafore, di altre angosce, di altre parole. Il senso di colpa, l'avventura ambigua dell'emigrazione, l'individualizzazione dei destini sono l'inevitabile riflesso delle metamorfosi del legame sociale: il mondo esterno e i legami che lo popolano possono farsi radi, veder diminuita la loro densità, disincantarsi e l'individuo scopre l'inumana potenza della sua solitudine e del suo Io. Le vie neurobiologiche della depressione non confutano questa prospettiva: esse sono solo il pallido nome per una condizione che, se è presentata come un drammatico problema epidemiologico, lo è diventato anche nella misura in cui forse meglio di altri mostra il profilo inquieto del nostro tempo.
L'etnopsichiatria della depressione che ho provato a tracciare a partire dalle rappresentazioni della morte, dalla percezione e dall'organizzazione rituale dello spazio in alcune culture africane, dalle trasformazioni del legame sociale o dalle sue peculiari espressioni, non cerca di dare risposte definitive alla questione di che cosa sia la depressione e perché essa mostri così significative variazioni di incidenza: più semplicemente essa prova ad allargare l'orizzonte della domanda clinica ed epidemiologica ricollocandone le premesse fra categorie eminentemente antropologiche e storiche, e così facendo spera di poter contribuire a problematizzare in modo più efficace anche il significato delle strategie di cura (spontanee o savantes che siano).
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