Prof. G. Maina: ALLEANZA TERAPEUTICA: METODOLOGIA DELLA RICERCA

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28 novembre, 2012 - 16:16

 

Dal punto di vista della metodologia della ricerca, la psicofarmacologia è uguale alle altre branche della medicina.

Dal punto di vista psicopatologico gli strumenti che misurano l’alleanza terapeutica sono strumenti che misurano l’aderenza, la compliance. La compliance, quindi, è quello che possiamo misurare dell’alleanza terapeutica nonostante l’alleanza terapeutica sia in realtà un concetto più complesso, composto di diversi elementi che possiamo poi correlare comunque con la compliance stessa. ( Fig. 3-4 )

 

Come possiamo misurare la compliance?

Quali sono gli elementi che entrano in gioco e che noi possiamo studiare e correlare parlando di alleanza terapeutica? ( Fig. 5 )

 

 

 

La Jamison, una autrice importantissima si occupò del disturbo bipolare, essendo lei stessa affetta da questo disturbo. In una conferenza del ’79, che anticipò moltissimi studi in merito, cominciò a chiarire quali erano i fattori che si correlavano alla compliace in pazienti con disturbi bipolari.

In particolare individuò elementi legati al paziente, alla sua psicopatologia, al curante e ovviamente al farmaco stesso. Questi sono gli elementi che dovremmo tenere presente quando parliamo di alleanza terapeutica e psicofarmacoterapia. ( Fig. 5 )

 

 

Oggi questi elementi sono stati sistematizzati in maniera più precisa. I fattori che noi dobbiamo valutare quando vogliamo misurare la compliance sono: la sintomatologia del paziente, le caratteristiche individuali del paziente, la famiglia e il nucleo di supporto psicosociale in cui il paziente vive. Poi ci sono variabili che dipendono dal terapeuta: la sua formazione, le aspettative, le caratteristiche individuali del terapeuta, l’eventuale psicopatologia del terapeuta stesso, e l’istituzione di una alleanza terapeutica.

Risulta evidente l’importanza di definire il tipo di cura, ed è così che entriamo nella psicofarmacoterapia, cornice dell’intervento tecnico specifico.

Queste ora citate sono le variabili che noi dobbiamo studiare in relazione a quelli che sono gli strumenti per misurare la compliance. ( Fig. 5 )

 

 

È difficilissimo riuscire a studiare la compliance in modo rigoroso. Spesso si scelgono più strumenti di misura e si realizza una griglia. Gli strumenti di misura più utilizzati sono quelli diretti come il controllo dell’assunzione del farmaco. Accanto a questi ci sono gli strumenti indiretti, realizzati chiedendo al paziente se assume o crede di assumere regolarmente il trattamento, valutando il giudizio clinico e le impressioni del curante, in particolare tenendo presente il numero di appuntamenti mancati dal paziente (mettendolo in relazione alle richieste d’aiuto ingenti) oltre che esaminando i tassi di dispersione. ( Fig. 6-7-8 )

 

 

Questo lavoro è del gruppo Vienna-Barcellona, che negli ultimi anni pubblica molto su quest’argomento. Esso individua in particolare tre possibili gradi di misura della copliance: buona, parziale, incompleta. ( Fig. 7-8 )

 

 

Questa è una constatazione che abbiamo fatto nell’arco di un anno, con risultati analoghi al gruppo di Vienna, su pazienti che afferiscono, a Torino, al "Servizio per i disturbi depressivi e d’ansia",presso il quale seguiamo in particolare pazienti con disturbi depressivi, bipolari e ossessivo-compulsivi.

Abbiamo valutato semplicemente qual è la frequenza media di visite mancate, cioè quando il paziente non si è presentato senza alcuna giustificazione o richiesta di rinvio.

È emerso che il paziente bipolare è quello che manca con maggior frequenza agli appuntamenti.

Esaminando, inoltre, il tasso di pazienti che saltano almeno due visite, consecutivamente, nell’arco di un anno, emerge ancora una volta che il disturbo bipolare (in particolare il tipo II) è quello meno compliante. Si evince pertanto che non è la gravità ad influenzare la scarsa compliance.

Infatti, un paziente con distimia è "curiosamente" meno compliante di chi ha un disturbo depressivo maggiore.

Dal momento che questo risultato poteva apparire strano, abbiamo analizzato nuovamente tutti i dati e riteniamo di poterne affermare la correttezza e l’attendibilità.

Il disturbo bipolare II (come il disturbo distimico) è il più difficile da trattare non tanto per lo scarso effetto degli stabilizzatori dell’umore, quanto per la scarsa compliace del paziente.

Osservando il tasso di dispersione dei pazienti, emerge che quelli con disturbo bipolare II hanno un tasso più alto di quelli affetti da disturbo bipolare I. ( Fig. 9-10-11-12 )

 

 

Questi invece sono pazienti in trattamento con stabilizzatori dell’umore che hanno avuto una ricaduta euforica nonostante il trattamento continuativo. Al momento dell’osservazione della ricaduta abbiamo semplicemente fatto una misurazione plasmatica del farmaco, alla ricerca di quelli che non avevano assunto il farmaco e quindi con livelli plasmatici troppo bassi.

Ne emerge che i pazienti con disturbo bipolare II sono quelli meno aderenti al trattamento. ( Fig. 13 )

 

 

Questo è un lavoro uscito negli Stati Uniti l’anno scorso( gruppo Vienna-Barcellona), semplice ma molto importante dal punto di vista metodologico. Lo studio, condotto su soggetti con disturbo bipolare II, dimostra che l’associazione tra lo stabilizzatore dell’umore con un gruppo psicoeducazionale ha la capacità di stabilizzare a breve e a lungo termine i pazienti in modo significativo.

Questa è la linea entro cui si muove la ricerca in questo momento, ed entro cui ritengo vada sviluppato il lavoro nei prossimi anni, accanto a quello più strettamente psicopatologico di farmacodinamica e farmacocinetica. ( Fig. 14-15 )

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