Al Cavour della Psichiatria

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26 ottobre, 2012 - 12:53

In questo contributo inedito Romolo Rossi ricostruisce sul filo della memoria la "nascita" della Psichiatria Universitaria in Italia come disciplina autonoma dalla Neurologia

 

 

Non sono neppure sicuro, guardandomi indietro, di poter rivivere l'atmosfera di allora, se non proustianamente: tutto si è sfumato, diluito, sciolto in una visione irreale. Anche perché la mia generazione ha vissuto un'epoca di passaggio, nella psichiatria, dove un mese valeva dieci anni, dove le cose cambiavano e si rifondevano, nel bene e nel male.

Molti di noi avevano una specificità per la psichiatria: si galleggiava in un mare neurologico, pregevole, limpido a dire il vero, ma che non era il nostro. La nostra specificità non si poteva discutere: era fatta di antiche letture, di scoperte letterarie, di scritti freudiani trovati per caso, quasi di nascosto, come fossero moralmente discutibili; era fatta, insomma, di un conflitto, tra il nostro animo medico, biologico, scientifico, sperimentale, il lato destro e depressivo di Cartesio, e l'altro nostro animo, letterario, poetico, magico e intuitivo, il lato sinistro e onnipotente di Cartesio.

Ricordate il sogno di Cartesio, inviato da Maxime Leroy a Freud?

Il tentativo di accordare questa sofferenza si spostava verso quello che da un lato ci pareva il mestiere più bello del mondo, e dall'altro risultava la parte più emarginata, disperata, dileggiata della medicina, accollata ad un ministero assurdo, quello dell'Interno e non della Sanità, pubblica sicurezza e non cura, senza spazio negli ospedali, con strutture a se stanti, anche fisicamente isolate, in cui l'orologio, come nello Steinhof, segnava un tempo diverso all'interno rispetto all'esterno, al mondo reale. E all'università i nostri Dr. Jekyll e Mr. Hide interni si diluivano nell'abbraccio affettuoso e mortale della neurologia: la quale, giustamente, seguiva le sue impostazioni organicistiche, che non tenevano conto delle differenze metodologiche della ricerca e della clinica: diceva, la neurologia, quello su cui oggi siamo tutti d'accordo, che il cervello è uno, e che noi abbiamo solo questo povero corpo e, almeno come esseri viventi e biologici, null'altro, ma non diceva che le espressioni erano tutte diverse, che il comportamento e l'affettività si dovevano conoscere e studiare in modi del tutto distinti rispetto ai movimenti involontari e le paralisi oculari. Mr. Hide, che di nascosto studiava le sue incredibili sindromi coi suoi poco rispettabili metodi, avrebbe solo dopo parecchio tempo trovato un accordo col compassato, comme il faut, distinto signore carico di "a plomb", il Dr. Jekyll ricercatore, un po' più noioso di Mr. Hide, ma via, quanto più attendibile.

Eppure anche il nostro Mr. Hide aveva grandi tradizioni: De Sanctis, Chiarugi, Morselli, Cerletti, avevano costruito un gruppo di Mr. Hide vivace e ricco di implicazioni, e che dire di Levi Bianchini, di Rieti, addirittura traduttori della Gradiva e fondatori di una società di psicoanalisi ante-litteram, ma molto genuina? Come era accaduto che l'ondata neurologica aveva spazzato via, come una silenziosa inondazione, questi campi coltivati con tanta cura? E come mai la situazione era così diversa rispetto all'estero, dove ben altro era l'impatto e l'importanza della psichiatria, disciplina che coinvolge problemi personali, drammi collettivi, aspetti legislativi, costi sociali, turbamenti strutturali, di fronte a cui la neurologia non può reggere? Non era possibile recuperare anche da noi la grande dignità della psichiatria, nella clinica e nella ricerca, senza perdere la pregevole connessione con la neurologia, o meglio, con le scienze che riguardavano il sistema nervoso, al di là della debolissima etichetta di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, che nascondeva più che chiarire?

"Hie erat rerum status", direbbe Tacito: e questo era lo stato delle cose per uno che, sul tramonto degli anni ‘50 e l'inizio degli anni ‘60 si presentava, con intenti psichiatrici consolidati quasi per un suo destino, per le attitudini sue mentali e le circostanze culturali incontrate, in una Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell'Università.

Tanto che, per prima cosa, era portato, in qualche modo, a difendere la propria identità. Era sì recepito, come un buffo individuo, che veniva nelle corsie e negli ambulatori (anche perchè, volere o no, i neurologi sulla psichiatria ci sono sempre campati) guardato con affettuosa condiscendenza, accettato come molto colto, magari, anche intelligente e peraltro stimato, ma con quanta sufficienza, come un astrologo nell'osservatorio di Jodrell Bank!

Tanto che il nostro Mr. Hide, per ritornare un po' Dr. Jekyll ed uscire da quella stanza dove, peloso, agitato e inquieto, tendeva ad essere chiuso ogni volta che parlava di ansia e separazione, elementi omosessuali nel delirio, inconscio, motivi profondi dell'isteria e cose di questo tipo, ricorreva alla strega, come diceva Freud quando parlava della metapsicologia, solo che qui il termine può allargarsi, e la strega era la psicoanalisi.

Ma una grande strega che gli permetteva di recuperare una autonomia, di operare una separazione, e quindi di favorire una crescita, un distinguersi di metodi ed obbiettivi, e ancora ed infine, di costituirsi una identità. In quel mondo universitario, fatto di insegnamenti di psichiatria complementari, dove il mentale diventava marginale e facoltativo, dove l'apprendimento e la ricerca toccavano di striscio la psiche per fermarsi sul sistema piramidale, la psicoanalisi servì al nostro Mr. Hide per darsi un tono, possedere un metodo, avere una teoria di base experience-distant e experience-near, per avere dei protocolli da seguire, delle ricerche da fare che non fossero accumulazioni ottuse di dati. E il nostro Mr. Hide vestiva anche lui un distinto abito grigio, non era più un folkloristico barbone, si rasava e diventava un Dr. Jekyll, sempre di secondo livello (o di primo livello, diremmo con la terminologia invertita di oggi), ma pur sempre un Dr. Jekyll. Avrebbe avuto tempo, se avesse voluto, negli anni settanta, di sposare teorie sociologiche seduttive e di ridiventare con ciò un barbone, questa volta non più un Mr. Hide, perché del tutto istituzionale.

Ma quel Dr. Jekyll, che aveva recuperato la sua identità e si era messo un vestito buono o attraverso la psicoanalisi, o andando all'estero, o in qualche altro modo che ora non mi viene in mente, rimaneva complementare, non fondamentale, rinunciabile, come si diceva allora. E viveva in mezzo alla indifferenza, nel peggiore dei casi, o ad una affettuosa marginalità, nel migliore dei casi, come accadeva a colui che qui si narra. Dunque la mente era davvero così complementare, non fondamentale, rinunciabile?

Ma in quell'epoca al nostro Mr. Hide si presentava un nuovo evento, che avrebbe dato un colpo decisivo al suo discreto trotto per diventare un distinto Dr. Jekyll, e lo avrebbe fatto diventare un galoppo.

In quell'epoca appunto, si era nel 1958, nella corsia psichiatrica della Clinica Neurologica dell'Università — non esisteva allora, da noi, una struttura universitaria psichiatrica — regnava un silenzio e una tranquillità insolita. Per uno studente del quinto anno, come me, l'ingresso in quella corsia era stupefacente: quella era la malattia mentale? Quella era la pazzia? Una serie di letti, e distesi, o in piedi accanto ad essi, persone immobili, ferme, impietrite, con lo sguardo tetro e ostile, o falsamente sorridente e ipercompiacente, o singolare e indecifrabile, ma via, tutto dominato dal silenzio e dall'immobilità. Dove era l'eccitazione, l'inquietudine, il disordine, il caos, la turbolenza, l'aggressività, la trasgressione senza fine che aveva sempre caratterizzato la pazzia ai miei occhi di studente, ed ai miei occhi di persona comune? Dov'era il perturbante che contiene, dov'era la nave dei folli, Hyeronimus Bosch, dove Peter Bruegel, dove la bizzarria e l'irregolarità, nonostante l'elogio di Erasmus? Mi sfuggiva l'immensa sofferenza, il tormento interiore che questa situazione congelata, ferma, immobile, teneva in sé.

Ma lo studente di ventiquattro anni che era il Mr. Hide allora, ingenuo ed inesperto della medicina e della vita, non tardò a vederla guardando solo con un po' più di attenzione, e non tardò a capire perché l'intuizione di Dante aveva posto l'estrema sofferenza dell'Inferno, l'ultimo girone, quello dove sconta la sua pena il grande peccatore, Lucifero, in mezzo ai ghiacci, congelata, immobile, nell'eterno freddo. Ma se lo studente arrivò presto a capire che quel congelamento immobile era l'inferno, non tardò a rendersi conto di dove era l'altra pazzia, quella urlante, caotica, tormentosa e infuocata: stava da un'altra parte. Appena l'eccitamento prendeva luogo, appena la persona si agitava, alzava la voce, diventava aggressiva, o semplicemente cantava, cantava a voce alta e spiegata, veniva trasferita nell'altro girone o nell'altra bolgia, l'Ospedale Psichiatrico, dove l'inquieto agitarsi di tante persone simili creava l'esatta controparte dell'immobilità. E ancora non si poteva non ricordare Dante: "quivi lamenti, strida, e alti guai/stridor di denti e suon di man con elle ….".

E vedeva lo studente, che la pazzia si distribuiva in due aree, quella della pazzia congelata, e quella della pazzia infuocata, che aveva due diverse sistemazioni, spaziali e mentali. Ma dominava, su tutto, l'impotenza, la nullità terapeutica del medico che, con quegli abili giochi di cui è capace l'inconscio, si trasformava in onnipotenza, sicurezza di sé, sentenziosità, presunzione, in un far finta di niente, interpretare, vedere, chiarire, spiegare ciò su cui non si poteva agire. La tristezza invadeva il cuore dello studente, ancora troppo primitivo per cadere nei giochi dell'inconscio.

Tutto, agli occhi di questo studente, che si arrabattava per costruire pazientemente una tesi di laurea sulle variazioni circadiane della sintomatologia della depressione episodica, in questa situazione, si sviliva. Si sviliva l'elettro-shock, sviluppatosi in parte a Genova con Cerletti, e quindi un importante punto di orgoglio locale, che diventava un angoscioso e perturbante spettacolo di pazienti stesi a letto, uno vicino all'altro, in stato comatoso e in preda a convulsioni appena mascherate dai curarosimili, usato così a tappeto, in un ambito troppo esteso, privo di quelle precise indicazioni che lo rendono oggi uno strumento più preciso. Si sviliva la psicoanalisi, trascinata dalla generale impotenza terapeutica e dalla povertà degli strumenti di intervento, a travalicare e a debordare nell'onnipotenza, trovando possibili applicazioni, universali indicazioni, pretendendo di spiegare ogni cosa e di intervenire dovunque, seguendo il suo vizio, o peccato originale, di chiarire il significato della storia, dell'arte, della sociologia, della psiche, dello sport e di molte altre cose, usando i propri magnifici e delicatissimi strumenti operativi come passepartout, e rimettendoci in dignità.

Cos'era dunque questa boccetta rossa, un piccolo cilindro metallico (la plastica, mi pare, non si usava ancora) con l'etichetta che portava una sigla, G22355, piena di pilloline rosse senz'altro nome? Non che lo studente di allora non conoscesse i farmaci che agivano sulla mente: non che non si conoscessero i barbiturici, i meprobamati, e da poco, ma da molto poco in clinica! le fenotiazine; non che le anfetamine non fossero note. Ma si andava, un po' grossolanamente, da una generica sedazione ad una generica stimolazione. Non che non si conoscessero sostanze straordinarie, che si potevano usare come terapie di shock, o come catartici, o come diagnostica: era l'epoca del LSD, de DitranJB329, della narcoanalisi e della weckanalisi, e non si prevedeva allora il futuro, un po' sinistro, di queste sostanze.

Ma poco sul serio era presa questa boccetta con le pillole senza nome, un nuovo intervento come gli altri, in questo stagno immoto della depressione, dove un sasso produce cerchi concentrici che subito scompaiono e tutto torna come prima. Quanto più pigre erano le aspettative, quanto più grande era l'emozione: funzionava! Nonostante tutti i nostri pregiudizi e i nostri scetticismi, funzionava! Lo studente, esterrefatto, vedeva visi cupi e rigidi muoversi e far comparire un sorriso, movimenti lenti, bloccati e impastati sciogliersi in gesticolazioni espressive, linguaggi stentati e avari scorrere più fluenti e vivaci, ricomparire le metafore colorite, sentimenti neri e disperati assumere tinte più vivaci, idee di distacco dal mondo e di disinteresse tramutarsi in progetti e previsioni. E tutto questo in pochi giorni o alcune settimane, e tutto questo non casuale, come ci dimostrava la nostra casistica interna, quel vissuto che non c'è numero o calcolo che possa sostituire. Non è facile per lo psichiatra di oggi, abituato a pretendere molto, forse troppo, dai farmaci, ad attendersi risultati che ormai sono previsti, uso a dare la caccia ai non responders, pronto a dichiararsi scontento se il miglioramento non è totale, comprendere l'onda di emozioni e di entusiasmo dello studente di allora, che vedeva risultati che non si erano mai visti, che non aveva osato sperare, e che cominciava, seppur in una penombra o alla luce di un lampo nella notte, a vedere che le cose stavano per cambiare del tutto: "un ésprit nouveau s'était levé du fond de nos âmes". La psichiatria cambiava assetto, o diventava medicina: poteva, lo studente, andare nella corsia in modo simile a come andava nelle altre corsie mediche, e la differenza, la specificità, non era più causa di emarginazione per sé e per il malato, ma una vera specificità collegata a strumenti in più, attenzione all'inconscio, rapporto interpersonale, dimensioni emozionali reciproche, che in fondo gli davano la sensazione, non priva di un certo orgoglio, un po' forse naïf, di essere come gli altri e, perché no, migliore degli altri. Oggi che la psichiatria è una delle discipline mediche tra le più ricche di risultati e di possibilità di interventi, non si comprende più il sentimento di luminosità e di ariosità di allora. Paradossalmente, molte altre cose si riassestavano e prendevano il posto giusto: l'elettro-shock riassumeva le sue limitate indicazioni, e recuperava la sua funzione ristretta e precisa; la psicoanalisi ritrovava i suoi limiti e le sue indicazioni e recuperava, con questo, la sua grande e specifica area di ricerca nel campo delle malattie psichiche e quindi la sua dignità.

Questo, lo studente di allora, non lo sapeva ancora: lo avrebbe visto, elaborato, pensato e soppesato dopo. Dopo avrebbe visto, sempre più stupefatto, che le crisi d'ansia, le fobie, e gli altri sintomi che non ci si sarebbe mai aspettato, miglioravano con queste strane pillole rosse. Ma allora, una cosa lo colpiva: la mimica, i movimenti, la progettualità dei melanconici che cambiava. Non si era ancora capaci di uscire da schemi rigidi, depressione di qua, schizofrenia di là, rallentamento di qua, eccitamento di là, astenia di qua, ansia di là, ma l'emozione di vedere cambiare le cose era diretta ed immediata.

Tutto questo prima di quella che potremmo chiamare l'ufficialità: poi. Ovviamente, sarebbero venuti i controlled trials, i doppi ciechi, ma tutto questo avrebbe avuto un colore grigio, uguale e monotono nella mia memoria, dove una cosa si staglia, vivida e multicolore, il viso del depresso che cambia, il sorriso che ricompare, il cenno di intesa che dice "non sono più disperato". Qualche filologo avrebbe poi ricavato dalla mitologia greca, da Tophronios e dalla sua buca guaritrice, il nome del farmaco, che nella mente dello studente di allora rimane una etichetta, G22355.

E ad un tratto, il colpo di fulmine.

I più giovani che, almeno spero, sprezzano la retorica, mi devono perdonare l'enfasi. Non paia loro ampolloso: sto parlando di un evento che per molti di noi, e per molti dopo di noi, anche se non lo sanno, fu cruciale: rimodellò le nostre posizioni universitarie, indirizzò i nostri cammini, legittimò i nostri interessi, costituì un "locus ubi consistam", rese indipendenti i nostri progetti, cambiò, in una parola, le carte facendoci giocare con lo stesso mazzo di tutti gli altri. Dapprima, per noi giovani, fu un sussurro, poi una voce più insistente, poi, alle nostre orecchie, un tuono: una legge dello stato scindeva l'insegnamento della neurologia da quello della psichiatria, la psichiatria era autonoma.

In sintesi, diceva la legge, la neurologia e la psichiatria diventavano distinte ed autonome, ed i professori di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali potevano optare per l'una o per l'altra. E' evidente che le ripercussioni sarebbero state tante, come, soprattutto, la conferma della distinzione delle Scuole di Specializzazione che era già in atto, insomma la distinzione dei metodi, della clinica, delle impostazioni: oggi forse tutti noi sognamo una riunificazione, perché appunto uno solo è il cervello, ma su altre basi, poggiando su tutto ciò che da allora abbiamo appreso, mentre allora non si poteva che distinguere.

Nel consiglio di facoltà, che io, incaricato di psicoterapia, ricordo in una sorta di dreamy state, dove la cosa fu discussa, si alzò un vecchio saggio che tromboneggiò: "come si permette il parlamento di decidere su questioni nostre?" Capite? Come si permette il parlamento! Su questioni nostre, o forse si potrebbe parafrasare, cosa nostra! L'Università dunque cosa nostra! Ricordo che, ingenuo come ero, cercai di convincere i tromboni vari che l'Università era di proprietà della Nazione, si dice oggi pomposamente del popolo, come dire del parlamento che lo rappresenta. Oggi, che sono anch'io nel novero dei tromboni, vedo bene la pochezza dell'argomentazione.

Queste cose, colla loro allusione alla caducità, ci fanno pensare a Shakespeare, nel Riccardo II:

"Per amor di Dio, sediamoci qui a terra

e raccontiamoci tristi storie sulla morte dei re".

Dunque, ecco la legge fulmine. Ma come era nata questa legge? Qual era stato il suo iter? Come si era materializzata quasi dal nulla? Io, per me, la chiamerei la legge Cazzullo, anche se forse sul piano semantico la denominazione può non essere esatta.

 

Se si scorre oggi la discussione parlamentare che ha corredato la legge, si vedono cose da un lato straordinarie, dall'altro difficili da credere. Confusioni, equivoci terminologici, deviazioni, deragliamenti, malintesi. Scese in seguito in campo il Ministero del Tesoro, ad intrufolarsi chissà come in queste cose, per un ministero cosiffatto, di modesto rilievo. Ma io credo che qualcuno, come Farinata, può ben dire

Ma fui io sol colà…

Colui che la difese a viso aperto…

Tutti sapevamo allora, che era stato Carlo Lorenzo Cazzullo a far compiere il suo cammino a questa legge. Come, per che strade, con che iter, certamente molto complesso e contrastato, io non saprei bene, e lo domanderemo a lui. Certo, io immaginai allora una metafora, che me lo fece denominare il Cavour della psichiatria italiana. Come Cavour, con movimenti sottili, con decisione di cui non si vedeva in termini immediati lo scopo, per esempio la partecipazione alla guerra di Crimea che pose il Piemonte in posizione paritetica alle grandi potenze al Congresso di Parigi, come Cavour, dicevo, riuscì nell'intento, così Cazzullo autonomizzò la Psichiatria, come si dice per gli Stati, la rese indipendente.

E lo fece provenendo dalla Neurologia, ed autonomizzando per prima cosa se stesso, ma dietro di lui tutti gli altri. In questo senso non gli si può negare che, come nelle monete romane, ex S.C. (ex senatus consulto) come si diceva allora, abbia il diritto di fregiarsi, accanto al suo ritratto, del titolo di P.P. (Pater Psichiatriae). Eppure, credo, per quel che lo conosco io almeno, che la sua anima, antica, profonda, sia sempre stata quella di un neurologo, talchè si può dire di lui come di Virgilio

Facesti come quei che va di notte

E porta il lume dietro, e sé non giova,

ma dietro sé fa le persone dotte.

Ecco dunque una persona a cui occorre essere grati. Penso di poterlo dire, essendo stato, a suo tempo "vergin di servo encomio/e di codardo oltraggio". Un uomo singolare, transitato, ch'io sappia, per tutte le strade, giunto alla psichiatria da vie lontane, addirittura, egli stesso mi disse, dalla ragioneria, sicuramente battezzato dalla filosofia.

Si è sempre mosso, fortunato lui, a partire da una salute di ferro e da una grande fede religiosa, con un io così espanso ed espansivo da allagare i propri confini fino a perderli, con una emotività sublimata ma talora prorompente fuor dalle righe, con una autorità imperiosa ma una affettività che la faceva sciogliere di fronte ad un sorriso. Lo so bene io, dato che egli, che ha sempre guardato un po' in cagnesco la psicoanalisi, non ha mai guardato in cagnesco me, che la psicoanalisi così spesso rappresentavo negli ambienti psichiatrici. Nasceva con lui una legge che avrebbe portato a problemi complessi, attraverso colpi e contraccolpi, ma con questa legge la psichiatria universitaria fu fondata. Ho pensato che toccasse a me, un Dr. Jekill di oggi non privo di nostalgia del Mr Hide di ieri, che non sono un suo allievo, che non ho mai avuto rapporti diretti con lui, ringraziarlo e confermare il titolo di Cavour della psichiatria italiana, che mi ero permesso di dargli tanti anni fa.

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