RITARDO MENTALE E SCREZIO PSICOTICO. UN’IPOTESI PSICOANALITICA.

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10 ottobre, 2012 - 14:49

"Morire non è nulla ; non vivere è spaventoso"
(V.Hugo)

 

Molto spesso, nella pratica clinica con i pazienti disabili, possiamo osservare come il loro ingresso in una struttura riabilitativa venga accompagnato da una definizione psichiatrica che rimandi ad un concetto di duplice diagnosi, valutata in termini psicopatologici da definizioni quali "Ritardo Mentale" e "Innesto" o "Screzio Psicotico".

Già all’inizio del percorso terapeutico-riabilitativo dobbiamo constatare come, di frequente, la necessità diagnostica sia contraddistinta dalla tendenza ad ipotizzare come entità separabili e separate due manifestazioni fenomeniche apparentemente poco comprensibili nell’accezione jaspersiana del termine o comunque considerate derivabili da noxae organiche di fatto raramente documentate dalle consuete indagini diagnostiche ematochimiche e/o strumentali.

In questo senso risulta difficile assegnare una dignità ed un inquadramento nosografico a queste due particolari modalità mentali di operare, laddove il ritardo mentale viene per lo più valutato in termini di danno pre- peri-post- natale, derivandone una situazione già definita ed acquisita, non più modificabile né esplorabile o tanto meno sormontabile e dove l’innesto o lo screzio psicotico subiscono un viaggio confusivo attraverso le più diverse dizioni psicopatologiche quali "ritiro autistico", "aspetti schizofrenosimili" oltre alle note "anomalie del comportamento" che racchiudono aspetti misteriosi quanto sconosciuti.

In ogni caso ci si è abituati a considerare i dati psichici-psichiatrici quali corollari complicanti una condizione di deficit cognitivo primario, come sembra suggerirci il valore semantico della parola "innesto", mentre, in modo contraddittorio, il problema cognitivo da diagnosi principale diviene progressivamente una spiacevole appendice di un quadro più complesso e importante anziché componente intrinseca ed integrante dell’intero processo.

Occorre sottolineare come l’intenzione di chi ora scrive non sia quella di giungere ad una precisa attribuzione nosografica a quanto preso in esame fino ad ora. Piuttosto, emerge il desiderio di formulare un’ipotesi,un pensiero, una sorta di racconto "fantastico", che cerchi di fornire una comprensione dei due fenomeni nel significato di una chiara derivabilità emotivo-affettiva,dove venga anche evidenziata la loro natura complementare,integrata ed integrabile e non più isolata., scissa o casualmente coincidente.Rimane implicito che riuscire a formulare questo tipo di valutazione esplicativa non solo possa fare nascere l’eventualità di una migliore ridefinizione dei termini nell’ambito della nosografia classica, ma anche farci incontrare il rischio di evidenziare un "già detto" o un "già pensato" nel computo della letteratura delle grandi sindromi a carattere di psicosi. Accettando quest’ultima limitazione, ritengo che ogni gruppo di operatori psichiatrici che lavori con il paziente con ritardo mentale debba tenere a mente le parole di Meltzer che, interpretando Bion nel trattamento del manifestarsi psicosomatico, affermava: "(…) dobbiamo porci un compito completamente diverso, cioè quello di scoprire l’esperienza emotiva che il paziente è incapace di sognare e dobbiamo sognare per lui. Una conseguenza è del tutto chiara: non possiamo svolgere questa funzione intellettualmente; essa richiede un grado non comune di identificazione con il paziente, una non comune profondità di réverie (…) e un grado non comune di tolleranza di sentirci matti noi stessi."

Tale ricordo deve essere mantenuto non perché questi pazienti non siano in grado di esprimere attraverso le parole il loro mondo emotivo, ma perché noi stessi spesso finiamo con il rimuovere le loro emozioni, le loro storie come se il ritardo mentale o il difetto psicotico possano in qualche modo sancire un nostro burn-out anticipato che ci precluda la possibilità di intervenire in senso terapeutico e di avvicinarci con lo strumento interpretativo .

In questa ottica la "Scena modello" o, per così dire, il "Modello narrativo" proposto da Lichtenberg, che mutua il concetto bioniano di una funzione ermeneutica sincronica del terapeuta (metafora dell’attività creativa del poeta e non più della capacità investigativa- diacronica- dell’archeologo espressa da Freud) , viene in nostro aiuto fornendoci una modalità di organizzare il pensiero che spezzi il vincolo della noxa organica, del deficit cognitivo o del modo di esprimere la psicosi in maniera così particolare e bizzarra. Questo modello o meglio questo modo di funzionamento mentale spinge il gruppo a pensare "sul paziente", "per il paziente", "con il paziente": si viene così a sperimentare una "vivificazione" dei nostri oggetti interni che sembrano essere divenuti anch’essi "ritardati" sulla base di una ipotetica "Istituzione del ritardo mentale", racchiusa nel nostro intrapsichico in una sorta di preconcezione bioniana o per il contatto con un essere umano che, per identificazioni proiettive o adesive non accolte o riconosciute, ci faccia sentire impotenti o demotivati minacciando i nostri consueti mezzi operativi.

Vorrei iniziare quindi ricordando le parole di Bion che, alla richiesta di aiuto da parte di un giovane collega al cui paziente, da lui analizzato, era stata diagnosticata una grave forma tumorale con prognosi infausta, così rispondeva : "(…) Questa morte del paziente non mi interessa di più che la sua nascita. Quel pezzettino piccolo tra nascita e morte- quello sì mi interessa (…) allora bisogna focalizzare l’attenzione sul problema, c’è qualche scintilla lì sulla quale si potrebbe soffiare fino a che diventi una fiamma in modo che la persona possa vivere quella vita che ancora ha, possa usare quel capitale che ha in banca? Quanto capitale vitale ha questa persona? E potrebbe essere aiutato ad usare quel capitale a buon fine?" . Soltanto in questo modo può chiarirsi il nostro compito e mantenersi definito il nostro ruolo; di fronte ad una costante ( k ) come il Ritardo Mentale, che rimane ineludibile ma sempre comunque ben distinto dal concetto di fine dell’esistenza, a maggior ragione dobbiamo, dunque, rivolgerci, come ci invita Bion , al mondo dell’emozione-pensiero, dal suo sviluppo al suo manifestarsi, dal suo "essere" al suo "divenire", talvolta inevitabilmente complicato da distorsioni o arresti. Entriamo così in una dimensione dinamica, plastica dove è possibile esplorare, interagire, intervenire, talvolta modificare e da dove è credibile far partire il processo riabilitativo non più svalutato da una empasse di natura schizo-paranoide. Possiamo verificare inoltre come, in questo modo, il ritardo mentale venga ad essere modificato da "cosa in sé" o noùmeno, non derivabile, non comprensibile, in un fenomeno finalmente decifrabile e plausibile - ove collegato con la sfera emotivo-affettiva -, e lo screzio psicotico possa assumere una veridicità psicopatologica nonché nosografica. E’ pratica comune , infatti , che se in una paziente adolescente, inviataci in studio per un problema legato ad un ritardo nella riuscita scolastica (talvolta anche drammaticamente sancito dall’effettuazione di un test tipo W.A.I.S) tentassimo di elaborare o promuovere il dato cognitivo, non approderemo a nulla, dove cercando invece di armonizzare le valenze emotive riusciremmo, con molte probabilità, a superare lo stallo intellettivo.

Avviando dunque il nostro percorso immaginativo attraverso l’osservazione di circa trenta pazienti, di entrambi i sessi ,con diagnosi di Ritardo Mentale di grado medio-lieve e Screzio Psicotico, in un arco di tempo di sette anni, la prima domanda che mi sono posto è dove e con quale materiale questi esseri umani abbiano potuto costruire la loro casa o più propriamente il loro "mondo interno". Alcuni di loro sanno leggere e scrivere pur mostrando gravi incertezze in altre aree cognitive, altri sono analfabeti mantenendo comunque inalterata la loro capacità comprensivo-espressiva o rivelando insospettate abilità nel calcolo o nelle prove mnemoniche. Il loro modo di esprimere la sofferenza psichica non differisce sostanzialmente dalle modalità evidenziate negli altri pazienti psicotici, ma presenta peculiarità e caratteristiche specifiche più raramente visualizzate in altri contesti psichiatrici. Le principali autonomie sono da loro prevalentemente conservate anche se poi si verificano importanti difficoltà nella realizzazione dei comuni obiettivi della nostra esistenza quali l’utilizzo corretto del denaro, una sufficiente socializzazione o , per esempio, il conseguimento della patente di guida. Devo allora iniziare a pensare che per ognuno di questi pazienti esistano differenti tipi di infrastrutture e anche differenti tipi di materiale su cui e con i quali costruire benché tutti mi trasmettano l’impressione di condividere una comune matrice progettuale e uguali fondamenta. Diviene pertanto necessario correggere l’idea iniziale in quanto, a mio avviso,contenente ancora troppe valenze insature e predisporci a riflettere in termini di "coesistenza". Coesistenza all’interno del mondo psichico del paziente di due prevalenti infrastrutture e di due prevalenti materiali "da costruzione", differenti tra loro per natura e tipologia del "terreno sociale" (holding e réverie genitoriali), delle angosce primitive e dei relativi meccanismi di difesa. Per ragioni di maggiore chiarezza e semplicità d’ora in avanti parlerò di "coesistenza di nuclei" considerando il nucleo come una delle prime "case" da cui sviluppare spazi e mondi sempre più ampi e strutturati. Con le stesse motivazioni descriverò separatamente i due nuclei sottolineando e ribadendo che questi dovranno sempre essere valutati come realtà intrinsecamente embricate e commiste tra loro, nell’alternanza e nella prevalenza ora dell’una ora dell’altra o nell’apparente assenza degli aspetti appartenenti a questa o a quella dimensione nucleare.

A mio parere è presente nell’organizzazione psichica di questi pazienti un primo nucleo sul quale o nel quale è stato possibile costruire poco o nulla. E la visualizzazione di questo non-processo (in un’accezione ben diversa dal concetto di non-pensiero di Bion) si concretizza nei materiali con i quali ipotizzo che i pazienti tentino di costruire una parvenza di strutturazione. Questa fantasia è quella che più si avvicina al concetto di Autismo, dove la linea di crescita si arresta di fronte a un’angoscia potenzialmente o realisticamente catastrofica e il paziente si risolve a ritornare indietro per trovare un rifugio o altre modalità di sopravvivenza.

Logicamente, in questo contesto, il ritardo mentale dovrebbe essere riconsiderato come un mancato sviluppo o un arresto nello sviluppo quando alla frattura emotiva corrisponde una breccia riguardante gli aspetti più propriamente cognitivi. Sono pazienti che non hanno mai potuto imparare (corsivo mio) a fronte della tragica decisione di non crescere emozionalmente o nel caso di una concausa organica che abbia ridotto le potenzialità di sviluppo.

Potremo così osservare che, durante l’effettuazione di una attività occupazionale, un momento di aggregazione o socializzazione o lo svolgimento di un colloquio, in modo sottilmente dissimulato o chiaramente manifesto, secondo modalità inopinate o facilmente prevedibili, il paziente tenderà a ritrarsi dal contesto circostante per esprimere un suo linguaggio fatto di stereotipie mimico-gestuali (talora anche minime), perseverazioni comportamentali, lallazioni, paleocinesie apparentemente non significative o semplicisticamente riconducibili all’esigenza di uno "scarico" immediato di istanze ansiose o di iperstimolazioni sensoriali.

E’ qui che, a mio avviso, emerge quell’elemento liquido di cui sembra essere composto il nucleo, elemento difficilmente amalgamabile o coagulabile che tende a disperdersi nello spazio, pur rivestito nei suoi pseudopodi da una sottile membrana che ne impedisce una fuoriuscita definitiva. Sono queste le situazioni che più si avvicinano al concetto di "Forme autistiche" della Tustin o, ancora più precisamente, al modello dello "Smontaggio" descritto da Meltzer che suggeriva l’idea di momenti di "Assenza del pensiero" nei quali il paziente, per un periodo di tempo più o meno lungo, realizza il tentativo di sfuggire ad una realtà divenuta insopportabile. Esiste nel paziente l’esigenza di "sperdersi" nell’ambiente per sospendere la sua dolorosa esistenza di emozione-pensiero nel mondo e per cercare di "non sentirsi" se non attraverso modalità evasive del tutto personali da lui percepite, anche rispetto alla nostra inquietante presenza, come maggiormente tranquillizzanti, più comode, più calde, più morbide. Un "non essere" preferibile ad un "esserci" troppo frustrante o carico di valenze eccessivamente emancipative (gruppo di lavoro come negazione dei bisogni regressivi fusionali).

Accanto a queste esperienze ve ne sono poi altre che io, impropriamente, definisco fasi di "iperproduzione di pensiero". In tali circostanze ho la sensazione che l’intero materiale liquido prima descritto subisca un rapido quanto improvviso mutamento di stato, solidificandosi in una specie di roccia monolitica, assolutamente impenetrabile o, comunque difficilmente scalfibile. Un fenomeno che io identificherei, attraverso le parole di Meltzer, in una Psicosi Ossessiva Post-Autistica (Residuo Autistico o Sviluppo Post-Autistico) : "si potrebbe perciò dire che l’ossessività di carattere nella personalità post-autistica è utilizzata in modo particolare per essere in grado di esperire un controllo onnipotente ed una separazione degli oggetti e, di conseguenza, una preoccupazione di tipo rimuginativo per il modo in cui gli elementi del mondo sono legati tra di loro (…) L’estrapolazione naturale del carattere post-autistico porterebbe ad un modo di vivere tipo idiot savant".

Si tratta non solo di situazioni in cui alcuni pazienti mostrano particolari abilità nel calcolo o nella memoria di numeri (la cinematografia in questi ultimi anni ha tentato di fornirci degli esempi, peraltro sempre molto artificiosi e caricaturali) ma anche di condizioni temporali in cui vengono riversate tutta una serie di stereotipie comportamentali (talora difficilmente discriminabili da quelle rivelate durante l’ "assenza di pensiero"), domande e richieste verbali reiterate, interrogazioni pseudo-scientifiche e filosofiche pletoriche e pleonastiche, ripetute argomentazioni circa la natura degli oggetti e le parti anatomiche del corpo umano che rimangono immutate per lunghi periodi nella loro sistematizzazione e nel loro contenuto.

Il materiale roccioso del nucleo si organizza per realizzare una vera e propria dimensione "dell’oblio", una concretizzazione di un limbo dove il dolore mentale possa essere definitivamente cancellato solamente perché non più percettibile. Al di là dell’esigenza di un controllo onnipotente degli oggetti attraverso la loro costante separazione (il paziente diventa "uno scienziato nato della scuola sperimentale, un eliminatore di variabili, un isolatore di fenomeni elementari, che possono essere studiati in una situazione isolata" Meltzer1975 ), esiste il disperato bisogno di una precisa frammentazione dell’esperienza emotiva, trasformabile in un qualcosa di "non senso", al di sotto quindi della comune soglia di percezione del dato emotivo. La spinta motivazionale è rivolta alla parcellizzazione di quella particolare forma di terrore derivante dalla constatazione di separazione dall’ "oggetto primario" dal quale i pazienti si sono sentiti "strappare via" o "essere divelti" a viva forza. Seguendo questo percorso l’esperienza emotiva non può più essere accessibile alla memoria, né più utilizzabile come frammento di memoria a riprodurre, per certi versi ed in un contesto di meccanismi primitivi, l’equivalente psicotico della teoria freudiana della rimozione. Accompagnerò quest’ultima ipotesi con una breve descrizione di materiale clinico.

M. è un paziente di 27 anni che, all’interno del contesto riabilitativo, tende a proporsi prevalentemente secondo una strutturazione solidificata del suo "nucleo". Per un certo periodo di tempo M. si rivolge a quasi tutto il personale, me compreso, ripetendo, oltre alle consuete rimuginazioni, tre precise domande. Le modalità sono quasi sempre del tutto inadeguate soprattutto perché M. riporta le sue richieste verbali in momenti inopportuni quando, per esempio, sono impegnato in colloqui con genitori di altri pazienti o sono riunito con gli operatori dell’equipe o addirittura sto intervenendo per cercare di risolvere una crisi comiziale improvvisa di un paziente epilettico. "Quanti anni ho?" , "Quanti anni avevo nel 1947?" , "Cosa facevo quando ero nel 1947?". Impegnato in questo modo con le mie sensazioni di confusione, di assoluta — ed apparente- mancanza di significato, talvolta di franco fastidio, scelgo di non rispondere, invitandolo a soprassedere, o decido di colludere con le sue stesse stereotipie, fornendo risposte di uguale "non senso", che nascono dall’impossibilità di formulare una qualsiasi forma di pensiero : "27" , "Non eri ancora nato", "Niente" . E’ durante la seduta con lui che ,nell’attenta analisi del materiale fornitomi e nel collegamento con i dati dei precedenti colloqui , riesco a comprendere la drammatica esperienza emotiva vissuta dal paziente in questo periodo, al di sotto della comunicazione verbale reiterata. Attraverso la ripetizione ossessiva delle domande e del "non senso" delle interrogazioni stesse, attraverso la confusione e la distanza delle date degli anni, attraverso il tono della voce "freddo" e stereotipato con il quale pone le sue richieste, il paziente segue la necessità di segmentare minuziosamente l’esperienza mentale della sofferenza fino a perdere la possibilità di percepirne il dolore. La riflessione consta, molto semplicemente, di un fatto incontestabile : M. nel 1947 non esisteva. Ed è proprio questa la sensazione che M. sta provando; una sensazione di non esistenza, il sentirsi un bambino molto piccolo abbandonato dalla madre e quindi disperato e confuso, incapace di esistere senza la mia presenza. Una non esistenza confermata e ribadita peraltro dal mio distrarmi in altre attività, dal mio distaccarmi in altri impegni o più concretamente dal mio prestargli quasi sempre poca attenzione. Quando, con parole semplici, propongo queste mie riflessioni, M. fa un piccolo balzo sulla sedia, sorride con espressione sarcastica e mentre annuisce nervosamente con il capo mi dice: "E’ così, è così". Noto anche lo sforzo con il quale M. accoglie la mia interpretazione serrando con forza gli occhi per alcuni secondi. Accanto alla ricostruzione dei frammenti appare anche la dolorosa fatica di una maggiore consapevolezza e l’immediato tentativo di espellerla con il movimento di chiusura degli occhi.

Il Ritardo Mentale può così trovare un fattore aggiunto di comprensione. A questo proposito Meltzer ribadisce"(…) di fatto le esperienze sembrano essere ridotte ad un livello di semplicità tale che sembra a mala pena mentale e questo spiega perché sembra (sottolineatura mia) che questi pazienti siano dei deficienti mentali o che soffrano di una malattia cerebrale organica".

La radice emotivo-affettiva del ritardo trova perciò una ulteriore conferma nell’utilizzo di meccanismi di difesa arcaici nei confronti di angosce precocissime riferibili alle prime fasi dell’esistenza.

Accennerò solo brevemente alla tendenza di alcuni di questi pazienti ad accumulare ogni sorta di oggetti e a custodirli e raccoglierli dentro personali contenitori. Il significato di queste modalità di comportamento è da ricercare nelle dinamiche che fino a qui ho tentato di spiegare parlando delle fasi di "iperproduzione di pensiero". Per dirla con Meltzer, parlando di questo modo di agire dei pazienti : "Lo spazio interno, sviluppato in modo elaborato, è organizzato come un museo di esemplari, ognuno identificato in modo scolastico, ognuno isolato nella propria vetrina, per essere conservato e ricordato per sempre, ma mai usato."

Aggiungo anche un semplice esempio clinico di quelli che io ritengo essere dei momenti di "assenza di pensiero".

M. è in piedi davanti alla scrivania e si lamenta ad alta voce di circostanze ed avvenimenti spiacevoli che si sono verificati durante il corso della mattina. Dopo circa venti minuti dall’inizio della seduta M. decide di sedersi interrompendo la comunicazione verbale. Lo osservo mentre appoggia i gomiti sulle ginocchia e, davanti al viso, mantenendo un’espressione mimica improntata ad un senso di appagamento, riproduce rapidi movimenti delle dita, con le mani una accanto all’altra, in una movenza ritmica simile agli atteggiamenti stereotipati di certi bambini piccoli. L’intera scena va avanti per cinque minuti. Ad un certo punto, gli riferisco l’impressione di sentirlo "perso" in qualche posto. Ma mentre l’esperienza del perdersi è di solito legata a sensazioni spiacevoli, ciò che mi sembra provenire da lui è qualcosa del tutto diverso dall’essere spaventato o perplesso di fronte ad un "non ritrovarsi" più in un determinato luogo. M. commenta: "Guarda! Con le mani ho creato il signor P. Il signor P. è una gran persona. Mi dà tutto quello che voglio. Assieme a lui non devo fare più niente. Neppure parlare. Certe volte è bello, come adesso. Certe volte ho paura, perché scappo da tutto e non c’è più nessuno attorno a me".

Il secondo nucleo è quello in cui o su cui i pazienti hanno potuto costruire "qualcosa" anche se il processo di formazione è avvenuto seguendo criteri disordinati o, in qualche caso, studiato secondo modalità francamente caotiche o del tutto bizzarre. Il materiale ipotizzabile per questo tipo di progettazione è anch’esso solido, ma con caratteristiche di organizzazione differenti da quelle incontrate nella descrizione della "roccia monolitica". Se il monolito mi forniva l’impressione di una assoluta indeformabilità, impenetrabilità ed una grande resistenza agli urti, il componente in questione, pur raggiungendo un certo grado di "solida rigidità", non mi sembra mostrare la necessaria compattezza : per la natura dei legami interni e nei confronti delle sollecitazioni esterne svela la sua peculiarità intrinseca e cioè una cronica fragilità soggetta a linee di frattura e frequenti distacchi di frammenti. Dovendo scegliere una "realizzazione" che più si avvicini a quanto fino ad ora elaborato, parlerei allora di un "cristallo", consapevole del fatto che per molti non costituirebbe una adeguata rappresentazione nei termini di "modello fisico" con opportune proprietà.

A mio parere, un cristallo concepito con questi presupposti può riprodurre immaginativamente, a tutti gli effetti, il fenomeno della Schizofrenia nella quale, il deterioramento della personalità del paziente, è legato ad una progressiva disintegrazione nella strutturazione del Sé. Per effetto di intensi meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva assistiamo infatti ad un impoverimento dell’Io del paziente paragonabile ad una graduale frammentazione del "nostro" cristallo nella sua formazione nucleare. Per comprendere il processo in questione ci riferiamo a Rosenfeld : "Negli schizofrenici si può spesso avere una confusione di impulsi ed oggetti senza che si abbia uno stato confusionale acuto, ma bensì una confusione di natura più cronica che si può manifestare in disturbi della parola o della locomozione o con gravi inibizioni di altre attività". La nostra attenzione deve quindi focalizzarsi sugli aspetti riportati in questa affermazione, che trova conferma anche nelle mie osservazioni cliniche : l’evidenziarsi nella maggiore parte dei pazienti in carico, di uno stato confusionale cronico, poco appariscente o discriminabile e di una inibizione o arresto di una o più funzioni che a lungo termine esita o, il più delle volte, ha già esitato in un ritardo mentale. Io penso che, in prima istanza, un fatto saliente da rimarcare nella ricostruzione anamnestica della storia personale del paziente sia che, in nessun caso, si possa trovare l’esistenza di un breakdown psicotico. Per meglio chiarire questo dato bisogna affermare che ciascun paziente fin dalla nascita o, poco più tardi dal secondo anno di vita, ha cominciato a mostrare la sua sofferenza. Sono pazienti che stanno male da sempre (corsivo mio). Non è stato possibile documentare l’esistenza di momenti "liberi" dalla malattia come non è possibile dimostrare che i primi segni di una condizione psicotica si siano resi manifesti nel periodo adolescenziale o post-adolescenziale. Questo ci porta a postulare l’insorgenza di una psicosi infantile, forse anche elicitata dalla compresenza di una noxa organica, che si pone nella costituzione del primo nucleo riferibile ai meccanismi di natura autistica.. Il nucleo autistico, classificabile secondo la mia osservazione in quelli che la Tustin chiamava Stati Autistici Confusionali, sembra contribuire allo sviluppo del secondo nucleo, in cui quelle modalità identificate dalla Klein, di ridotta o mancata differenziazione e di un eccessivo utilizzo di scissione ed identificazione proiettiva, si concretizzano, sovrapponendosi alle "manovre protettive" dell’autismo stesso (separazione e controllo onnipotente, identificazione adesiva della Bick etc.). Devo ancora puntualizzare con le parole della Tustin che : "(…) la base per la classificazione è la modalità dominante che viene usata ; aspetti dell’altra (categoria di autismo — n.d.A.-) sono probabilmente presenti in modo accessorio e meno marcati": intendendo con questo che i fenomeni di "segmentazione", più tipici degli Stati Autistici di Incapsulamento, non scompaiono del tutto e rimangono attivi anche se in forma meno appariscente. Bisogna sottolineare, infatti, come l’espressioni fenomeniche sino ad ora prese in esame, molto spesso vengano inserite nella categoria delle Anomalie comportamentali, in cui le "Assenze di pensiero" esprimono delle semplici stereotipie e i momenti di "iperproduzione di pensiero" rappresentano un’apparente "vischiosità" del carattere. E’ altresì vero che molti colleghi potrebbero non concordare con il mio tentativo di classificazione forse trascurando la natura per l’appunto "confusiva" dell’apparire fenomenologico nel quale, dal mio punto di vista, entrambi gli aspetti coesistono e si embricano .

E’ mia opinione che se, in questo contesto, a causa dell’incidenza o del mancato intervento di svariati fattori, il ritardo mentale fino a qui evidenziatosi, andrà a consolidarsi, tutto ciò finirà con il "congelare" o impedire il "riassorbimento" del nucleo autistico e delle sue peculiari modalità di funzionamento con la conseguenza di verificare una compresenza dei suddetti meccanismi accanto a quelli che sono emersi o stanno appena nascendo. Resta evidente che la carenza di strutture o personale specializzati nel trattamento di questa patologia, come l’atteggiamento "organicistico ad oltranza" di alcuni genitori o di molti medici pediatri e neuro-psichiatri, costituiscano alcune delle numerose variabili che rendono possibile il "cronicizzarsi" della situazione, oltre alla intrinseca difficoltà a far fronte alla complessità del quadro clinico. Certamente va ammessa la necessità di procedere anche ad adeguate indagini diagnostiche senza dimenticare l’esigenza di non "sconfinare" in quell’"accanimento terapeutico" che costituisce l’estremo tentativo di sostituire il "fare" al "pensare". Questo tipo di riflessione deve nascere dentro di noi ogni qualvolta ci capiti di ascoltare parole simili a quelle pronunciate da un genitore, durante una seduta, dopo circa due anni di sostegno psicoterapico: "Per anni ho speso energie e risorse a cercare la causa e la cura della malattia che poteva avere mio figlio. Ora che mi ritrovo con le mani vuote, mi rendo conto di dover cercare altrove, impegnandomi a capire il mondo di mio figlio, quel suo stare ritirato e chiuso, che voi psichiatri chiamate autismo".

Ritengo, inoltre, che lo stesso deficit cognitivo unitamente (sottolineatura mia) alle natura dei "componenti" del secondo nucleo (invidia, rabbia distruttiva e conseguente angoscia di "frammentazione" — frammentazione "solida" contrapposta alla dispersione "liquida" riferibile al "timore dei rivali" -), siano i responsabili di una profonda difficoltà nella realizzazione dei normali meccanismi di differenziazione o meglio dei fisiologici processi di scissione che oggettiverà quello stato confusionale di cui abbiamo accennato in precedenza. Per le medesime ragioni, lo stato confusionale, caratterizzato non solo dall’impossibilità a distinguere tra impulsi libidici e distruttivi, tra oggetti di amore e di odio, ma anche, dalla incapacità a distinguere tra parti dell’Io ed altri oggetti, tra parti differenti del Sé corporeo, tra fantasia e realtà, tenderà a modularsi da subito in un percorso di cronicità con una ridotta incidenza delle fasi di acuzie e, soprattutto, con lo sviluppo della "seconda fase" del ritardo mentale (derivato ora dal processo di deterioramento od impoverimento di caratteristiche già acquisite).

"Lo stato confusionale si associa ad una angoscia estrema perché, quando gli impulsi libidici vengono a confondersi con quelli distruttivi, gli impulsi distruttivi sembrano minacciare di distruggere gli impulsi libidici. Di conseguenza l’intero Sé è in pericolo di essere distrutto. Il solo modo di sfuggire a questo pericolo sta nella capacità di differenziare di nuovo tra amore ed odio. Se la differenziazione normale non può essere raggiunta, i meccanismi di scissione si rafforzano"(Rosenfeld,1965). Ne consegue che, se da un punto di vista clinico, la confusione e l’angoscia vengono mitigate dalla scissione e dall’identificazione proiettiva, dallo stesso punto di vista assistiamo ad un deterioramento del paziente, perché i suddetti processi, come affermato in precedenza, provocano la progressiva disintegrazione dell’Io. Il deterioramento può verificarsi anche come conseguenza dell’improvvisa e drammatica comparsa di fasi acute dello stato confusionale (ricordo ancora la minore intensità e frequenza di questo tipo di manifestazioni rispetto ai pazienti psicotici che non manifestino ritardo mentale) : in tali circostanze è sempre presente il rischio di un ricovero del paziente in ambito ospedaliero psichiatrico per l’insorgenza di bouffèes deliranti- allucinatorie, difficilmente gestibili in un Centro diurno. Bion e Rosenfeld infatti, pongono particolare attenzione ai momenti in cui si evidenzino dei miglioramenti nel quadro psicopatologico di un paziente psicotico, spontaneamente o per effetto della terapia, nel nostro caso di un processo riabilitativo interdisciplinare. Una maggiore integrazione nelle diverse parti della personalità del paziente, a causa della diminuzione dei fenomeni di scissione, comporta il pericolo di una violenta disintegrazione. Gli impulsi aggressivi divenendo predominanti in via temporanea, minacciano di distruggere l’intero Sé del paziente: il percorso di riparazione può essere così ostacolato in modo particolare, prima per il manifestarsi di uno stato confusionale acuto, successivamente per l’emergere di una condizione delirante allucinatoria, provocata da un massiccio ricorso ai suddetti meccanismi di difesa (anche in questi pazienti è presente una precisa "consapevolezza inconscia e, talora, preconscia" del proprio handicap, quasi sempre di natura sadica e distruttiva).

"Due sono le ragioni principali del temporaneo predominare degli impulsi aggressivi (…) In primo luogo una gran quantità di energia aggressiva viene spesa per mantenere in atto i processi di scissione. Quando la scissione diminuisce l’energia aggressiva viene liberata e può essere temporaneamente eccessiva. In secondo luogo, col diminuire dei processi di scissione, gli impulsi libidici che vengono liberati, vanno alla ricerca di una immediata soddisfazione. La frustrazione di questi impulsi libidici contribuisce anch’essa all’accrescersi degli impulsi aggressivi".

E ancora Rosenfeld : "Gli impulsi libidici riescono a riunire assieme i pezzi degli oggetti e dell’Io, ma gli impulsi aggressivi impediscono ai pezzi di essere riordinati e connessi nel modo esatto. Nel caso peggiore, gli oggetti e l’Io vengono collegati ma in un modo completamente disordinato ed errato".

Descriverò, sinteticamente, gli aspetti del paziente chiamato M., che appartengono al materiale del secondo nucleo, quelli del "cristallo".

Durante la sua seduta M. appare angosciato ed irrequieto. Si aggira nervosamente per la stanza riportando in modo confuso e frammentario dei vissuti persecutori riferibili a personaggi immaginari. M. afferma di sentirsi preoccupato ed inquieto in quanto "questi signori" gli incuterebbero molta paura ed un timore particolare che, lui stesso, non riesce a descrivere. Dopodiché M. si siede, afferra uno dei foglietti posti sulla scrivania ed, in silenzio, inizia a strapparlo minuziosamente, lasciando cadere i frammenti che ne derivano. Quando io intervengo, facendogli notare come la sua paura possa essere legata al "sentirsi uguale" a ciò che stava capitando al foglio di carta da lui preso in mano, M. spalanca gli occhi ed in modo concitato dice : "Vedere tutti i pezzi di me stesso sparsi sul pavimento…e non c’è mai nessuno che gli raccoglie….e continuare a vivere….". Affermando che molti altri ancora potrebbero essere gli spunti su cui riflettere in merito a quest’ultimo resoconto clinico, mi limiterò a dire che, con le sue parole M. ha anche aiutato le mie "parti ritardate" a comprendere il significato di un pensiero di Bion fino ad allora da me tenacemente "rifiutato", quando l’Autore si soffermava a descrivere di accadimenti psichici più catastrofici della morte o, del timore stesso di morire.

Nella seconda dimensione nucleare, la fenomenologia più rappresentata è sicuramente data dalle forme paranoicali e paranoidee oltre a qualche caso di forma simplex ; non ho mai potuto osservare quadri riferibili ad una sintomatologia ebefrenica o catatonica. Una precisazione meritano infine i disturbi dell’umore, che pur essendo documentabili e talvolta diagnosticabili, a mio avviso, non possono rientrare nelle classiche forme sindromiche in quanto, difficilmente, ne vengono considerate le caratteristiche e l’autentica natura. Le medesime anomalie del comportamento o i cosiddetti disturbi di personalità, anch’essi ben rilevabili — se non altro come tratti del carattere -, finiscono con il derivare da nostri vani tentativi di abbracciare una comprensione più ampia e profonda del problema, come da valutazioni di superficie che intendono descrivere il fenomeno senza chiedersi la sua derivazione. Mi riferisco, per esempio, a manifestazioni maniformi in evidenza, dove invece, con maggiore semplicità, si può dimostrare una chiara e prevalente disforia dell’umore, in cui il tratto distintivo sia quello di una franca persecutorietà e non certo di una sub- euforia sostenuta da meccanismi di negazione o diniego. Così pure nelle manifestazioni depressive, riconoscibili prevalentemente da lamentazioni ipocondriaco-cenestopatiche, gli aspetti relativi al senso di colpa, difficilmente si legano ad una emozione orientata all’autoconservazione ed alla riparazione, bensì ad un attacco sadico e distruttivo che minaccia il Sé di morte e si unisce così ad angosce paranoidi.

Intendo, ora, ritornare sul concetto di Ritardo Mentale per specificarne una qualità intrinseca che, a mio modo di vedere, attribuisce precise peculiarità al "proporsi" dei sintomi presi in considerazione. Abbiamo visto come il deficit cognitivo possa essere comprensibile nell’arresto dello sviluppo emotivo durante il percorso di crescita dell’individuo e nell’utilizzo di "manovre protettive" autistiche ; allo stesso modo abbiamo individuato una sua derivabilità, coesa, senza soluzione di continuità, nel deterioramento del processo evolutivo quando questo venga costantemente alimentato da profondi meccanismi di scissione ed identificazione proiettiva.

Adesso possiamo constatare anche come il ritardo stesso svolga una sua specifica funzione, rappresentabile e qualificabile da una precisa attribuzione di "patoplasticità" o "azione patoplastica". Intendo cioè riferirmi alla capacità del ritardo di plasmare e di modificare, secondo un "criterio plastico" appunto, il fenomenico nel suo apparire, nel suo manifestarsi e di realizzare quindi un "modus operandi", identificato in un plausibile modello di "psicosi debole".

Il deficit tende a promuovere infatti difese di identificazione adesiva nelle quali i processi di apprendimento avvengono per mimesi ed il riconoscimento di una propria identità si concretizza attraverso la presenza costante di un "Io ausiliario" che rimanga funzionale all’esercizio dei meccanismi di imitazione. L’osservazione clinica mi ha indotto a postulare una interferenza decisiva sui fenomeni di identificazione proiettiva ed introiettiva che, per effetto dell’ "adesività", finiscono con il ridurre la loro influenza sia sullo sviluppo fisiologico sia su quello più propriamente patologico all’interno dei supposti spazi nucleari. Per affermare l’esistenza di una "psicosi debole" utilizzerei questo tipo di personale aforisma: Più difficilmente questi pazienti mostrano una sofferenza acuta; quasi sempre manifestano una sofferenza cronica con elementi mischiati ed espressi debolmente. Da questo punto di vista la semeiotica psicopatologica deve così essere puntualizzata da alcune mie riflessioni.

Il delirio non presenta mai quel grado di sistematizzazione che possiamo osservare nelle forme paranoicali e paranoidee ; d’altra parte non mostra quella frammentazione più tipica degli stati ebefrenici o delle sindromi psicoorganiche complicate da aspetti produttivi. Solitamente esso tende a sganciarsi dagli elementi della realtà : è presente in modo costante ma ripercorre una sorta di pseudologia fantastica i cui elementi sono contraddistinti prevalentemente da narrazioni estatico-mistiche o persecutorie che assumono il carattere di favole (l’aspetto "infantile" non deve distrarci dalle angosce sottese, che non possono, in nessun modo, essere sottovalutate o minimizzate) paradossali, "cattive", "spaventose". Le allucinazioni, solitamente di natura bizzarra ed improbabile, sono difficilmente obiettivabili : ancora oggi mi chiedo se debbano, invece, essere avvicinate come interpretazione più a rappresentazioni eidetiche che a fenomeni dispercettivi. In ogni caso raramente ho potuto osservare pazienti impegnati in soliloqui o in sguardi attenti allo spazio circostante che potessero essere suggestivi per disturbi della senso-percezione. Per entrambi i sintomi manca il vero convincimento del paziente, che riporta la sintomatologia in maniera perplessa, caotica ed accompagnata, di frequente, da una amplificazione isteriforme abnorme e grossolana. In questi casi ho sempre avuto la sensazione che la componente isteroide debba nascere dalla necessità del paziente di dare maggiore "peso e voce" alla propria sofferenza (non riuscendoci con i mezzi naturali a disposizione) e di destare l’attenzione di un interlocutore troppo spesso annoiato o distratto.

La finalità dello scritto esclude la descrizione delle forme di trattamento di queste manifestazioni e le valutazioni prognostiche implicite in essa. Non intendo quindi dilungarmi sull’approccio multidisciplinare del percorso terapeutico-riabilitativo che viene effettuato all’interno di una struttura a carattere di semi-internato dall’intervento integrato di numerose figure professionali. Accennerò solamente ad alcuni aspetti di ordine pratico che dovrebbero essere tenuti in debita considerazione nel contesto istituzionale e che l’operatore psichiatrico sicuramente già conosce nell’esperienza di sostegno e contenimento del paziente disabile. Intendo innanzitutto riferirmi al valore per così dire psicoterapico dell’ Istituzione in sé, in cui ogni parete che delimiti spazi e disegni forme, assume per il paziente una assoluta importanza, sia per un senso di appartenenza ad una "tridimensionalità" che assicuri quotidianamente un accoglimento del proprio Sé, sia per un indizio di continuità spazio-temporale che fornisca un presupposto al faticoso ritrovamento delle "parti" della propria identità. Voglio poi accennare al valore per così dire psicoterapico che ciascun essere umano presente all’interno dell’Istituzione, qualunque ruolo egli abbia nelle mansioni lavorative previste, viene inconsapevolmente ad assumere per il paziente. Noi tutti, come accade per ogni singolo attore impegnato in una qualsiasi rappresentazione teatrale, rivestiamo una funzione differente e precisa per le fantasie interne del paziente, offrendogli una parziale riproduzione dei suoi bisogni e desideri. Causalmente investiti dalle "imago" transferali, ci ritroviamo, infatti, a recitare un copione fortemente richiesto dal paziente poiché, attraverso l’interazione con il "nostro" gruppo, egli può ritrovarsi e riconoscersi nei diversi "frammenti" della sua storia personale. In questo modo, anche il breve colloquio con "quella" ausiliaria del Centro davanti alla distribuzione del caffè, ogni giorno, alla stessa ora, nel medesimo posto, propone un ipotetico setting nel quale ricostituire una scena dell’ "Opera" della propria esistenza. Desidero infine ribadire l’ovvia necessità, nella relazione con il paziente, di promuovere un processo di comprensione sempre indirizzato a cogliere l’esperienza emotivamente significativa. Potremo così constatare come uno sforzo rivolto a questo tipo di attenzione possa favorire un affinamento nelle nostre capacità introspettive e nel contempo rafforzare i meccanismi di introiezione del paziente medesimo. Ci dovremo attendere, come diceva Bion, un pensiero non più rivolto a domandarsi il "Perché" di determinati accadimenti psichici ma, piuttosto, una nostra capacità creativa impegnata ad individuare "In che cosa consista" il manifestarsi che stiamo osservando od ascoltando.

Ritornerò ad M. ed ai suoi quesiti. All’inizio della terapia M., oltre che con i suoi numerosi timori persecutori, mi impegnava in una serie di calcoli aritmetici ripetuti che mettevano a dura prova le mie già scarse abilità matematiche e soprattutto la possibilità di ritrovarmi a pensare qualche cosa di sensato. Avevo la netta sensazione che l’empasse potesse derivare dalla mia impazienza a dare risposta ad una angoscia crescente, non potendo intuire il perché delle domande e delle richieste. Mi fermai a riflettere quando riuscii ad individuare che,spesso, M., accorgendosi della mia difficoltà, cercava di distrarsi dalle nostre paure, canticchiando una melodia del passato. A questo punto cominciai a pensare che il mio deficit consistesse in una sordità che mi impediva di percepire la musicalità delle sue parole. La musica nel discorso di M., acquisiva ritmicità nelle "battute" dei timori e dei calcoli aritmetici. Per dirla più semplicemente, a due o tre affermazioni connesse all’atmosfera persecutoria, corrispondeva un "compito" da svolgere la cui natura ora diveniva comprensibile. Dopo alcuni attacchi sadici nei miei confronti, costituiti da fantasie invidiose e distruttive, M. sentiva la necessità di controllare in modo onnipotente che io fossi ancora vivo ed "intero" e che non avessi alcuna velleità di "rappresaglia". Il fatto di impegnarmi a partecipare alle sue domande, costituiva per M. la prova concreta della mia esistenza ed nel contempo la verifica di un patteggiamento benevolo tra i due contendenti, senza possibilità di ulteriori ritorsioni o atti vendicativi da parte mia. L’interpretazione dell’esperienza significativa dal punto di vista emotivo, ha permesso ad M., nel tempo, di esprimere più liberamente e chiaramente i suoi pensieri, vissuti con minore senso di colpa, e di ridurre l’intensità di frequenza del "bisogno matematico", fino ad una sua completa assenza anche per più sedute consecutive.

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