"Le invasioni barbariche". Contro le nuove (e talvolta barbare) certezze la fatica del dubbio e il sostegno degli affetti

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3 ottobre, 2012 - 17:16

Se scrivere e' sempre parlare di se' probabilmente anche i temi che ci colpiscono, ci stupiscono, di cui abbiamo voglia di parlare o di condividere riguardano in qualche modo la nostra biografia o, come direbbero gli psicologi, il nostro ciclo i vita.

Tant'e'. L'ultimo film di Denys Arcand, sceneggiatore e regista franco-canadese, "Le invasioni barbariche" credo giustamente premiato a Cannes (per la miglior sceneggiatura) ha raggiunto pienamente i tre obiettivi che in genere mi aspetto da un buon film. Emozionarmi, farmi sorridere, farmi pensare.

Ci sono i grandi temi psicologici; il rapporto genitori-figli, uomini-donne, l'amicizia, la malattia e la morte. Tutti, direi trattati in punta di penna (o di regia) e sapientemente amalgamati in un tutto armonico che, probabilmente, e' la ragione del premio proprio alla sceneggiatura.

Chi avesse gia' visto, usci' nell'86, dello stesso autore "il declino dell'impero americano" vi ritrovera' gli stessi temi, la stessa ironia, le stesse critiche, in quest'ultimo che potrebbe essere considerato quasi un sequel.

In primo piano, almeno ai miei occhi, il rapporto tra un padre ed un figlio tanto diversi ma, alla fine, tanto legati in una prospettiva di reciprocita'. Il film e' anche la bella storia di questa riconquista al punto di essere per entambi riconoscibile. Non passa tuttavia inosservato come, (come quasi sempre) sia la madre che riattiva e permette questo movimento relazionale. E' evidente come sia la madre, seppur divorziata ma evidentemente in modo molto accettabile, che ri-presenta il padre al proprio figlio, che ri-crea un varco perche' i due possano incontrarsi.

Qualcosa di simile credo accada sempre quando nasce un figlio, e' la madre che favorisce (permette) l'entrata in scena del padre e la costituzione, anche mentale, del triangolo familiare. Di contro, molte sofferenze quando non franche psicopatologie che mi capita di vedere, sembrano il frutto di qualcosa che non ha funzionato proprio in quel momento della vita in famiglia.

Non meno importante risulta la figura dell'altra figlia, su una barca a vela impossibilitata a raggiungere il padre, aiutata in un contatto con lo stesso grazie all'ausilio del fratello supertecnologico che, grazie all'uso del satellite e di un portatile, riesce a far comunicare "visivamente" i due. Questo elemento mi ha fatto riflettere su come la tecnologia ci renda, nello stesso tempo, tanto lontani e tanto vicini. Come, inevitabilmente, cambi il "frame" mentale con cui pensiamo, anticipiamo, viviamo le nostre relazioni e - quindi - il nostro mondo mentale. Forse e' qualcosa del genere che ci costringe, in quanto frequentatori di Rete, a riflettere sui nessi tra la comunicazione virtuale e reale.

In effetti la figlia che parla e si commuove osservata in un laptop in grembo del padre al letto ammalato non sembra togliere molto ad un ipotetico incontro vero. Chissa' se e' merito della regia, delle mie attese, o cos’altro.

Anche l'amicizia, vera, autentica, viene celebrata come una delle fondamenta su cui cerchiamo, faticosamente, di costruire il palazzo della nostra esistenza. Di darle un senso. Si ha l'impressione che tanto piu' solida, nel tempo, si e' avuto cura di costruirire, "manutenere", arricchire quella dimensione tanto piu', gli inevitabili sgarbi che la vita ci propone e - anzi - ci impone, possano divenire sopportabili finanche accettabili.

Partendo da un dramma - ma mai drammatizzato - il regista ci offre un quadro dove la famiglia-biologica e la famiglia-amicale si intrecciano e si valorizzano a vicenda. Non si coglie, ma forse e' solo un'effetto alone del mio sentire, una differenza gerarchica nella presenza delle due "famiglie", ma solo una differenza, ovvia, nella storia dei soggetti.

A corroborare questa mia impressione c'e' il ruolo dell'"angelo" che "accompagnera' "nelle varie fasi, forse le piu' difficili della malattia, il protagonista. Non e' un parente ma bensi' la figlia (una personaggio molto particolare come avra' modo di valutare chi vedra' il film) di un'amica del malato.

Mi rendo conto che dire questo nel bel mezzo delle festivita' natalizie potra' sembrare quasi blasfemo, ma questo film va ad aggiungersi in un modo originale insieme ad altri lavori che sembrano chiudere una volta per sempre la "condanna" che ci voleva amati ed amabili, affettuosi e solidali, alla fine, solo nel chiuso dell'orto familiare.

Ma di cosa si soffre alla fine, piu' di ogni altra cosa? Personalmente mi sono, per certi versi disgraziatamente, trovato in accordo con il messaggio che Arcand sembra suggerirci: della difficolta' di dare un *senso* a quello che ci succede, a quello che costruiamo ed all'intreccio tra queste due dimensioni.

Recentemente, al mio servizio, si presenta per un primo consulto un signore con un po' piu' di cinquanta anni, laurea in chimica, un figlio studente universitario ed uno al liceo, un brillante e soddisfacente lavoro, una vita in prospettiva, una vita di fretta, tanta forza ed energia.

Tre anni fa' un grave tumore. Una vita interrota. Un calvario di visite e di terapie (e di controlli ad oggi) certo una vita salvata, tuttavia con dei postumi (dolorsi e piuttosto invalidanti) che lo hanno costretto a smettere di lavorare. A pensionarsi con molto anticipo. Per lui, che dopo la prima chemio, per dimostrare/rsi, che poteva farcela che i problemi si possono sempre superare, era andato in spiaggia dove poi e' caduto, letteralmente, al suolo. Per lui, uomo pragmatico, dinamico, un esempio anche per i figli, una vita drammaticamente e, soprattutto, *incomprensibilmente* interrotta. Una vita da condividere tra la speranza ma anche l'ansia del prossimo controllo.

In cosa mi interpella questo paziente?, e perche' si presenta adesso?, o perche' solo adesso?, e cosa posso fare per lui e con lui?

Ad oggi ho fatto due colloqui individuali ed uno con la moglie. Ho usato una metafora, evidentemente felice visto che e' sembrata ingaggiare in un tentativo di aiuto psicologico il paziente. Ho detto, lei stava scrivendo il romanzo della sua vita, molti capitoli gia' scritti e, pensando a quelli, stava gia' impostando i prossimi. Improvvisamente qualcuno prende il suo "libro" e, in mezzo, ci infila un capitolo che lei non voleva, che non c'entra nulla con quelli prima, e da cui e' anche difficile ricominciare a "scrivere". Il romanzo le viene lasciato puo' provare a continuarlo, ma non puo' togliere piu' quel capitolo alieno. Dovra' ripensare i prossimi ed i primi che ha gia' scritto tenendo conto di questo assurdo ed incomprensibile "nuovo" capitolo impostole. In effetti tutto cio' sembra non avere senso. La sfida, tuttavia, e' di provare a costruirgliene uno. Qualcosa che permetta, seppur con tutta la precarieta' del caso, di metter mano a dei nuovi capitoli. Magari piu' brevi, mi fa notare il paziente, si annuisco io. E aggiungo forse quello che posso fare e' di stare accanto a lei ed alla sua famiglia (perche' una malattia importante non colpisce un uomo ma una famiglia) per darle una mano ad accettare questa sfida, a rimetter mano al romanzo.

Non l'ho verbalizzato, ma la conclusione voleva essere a tentare di ricostruire un senso.

Ecco, tornando al film, il finale nonostante tutto quello che succede sembra confortarci che, alla fine, un senso si puo' trovare. Certo questa ricerca ha a che fare anche con la sofferenza e la solitudine e con molto altro ancora ma, le ultime cose che il regista "scrive" con la luce sulla sua pellicola ci lascia intendere che questo senso non e' introvabile, non e' completamente inaccessibile all'esistenza umana.

Cosa o chi sono i nuovi barbari? Lo spettatore e' libero di tirare le proprie conclusioni che non sono scontate. Le mie, in breve, sono che la barbarie riguarda tutto cio' che ci allontana e ci impedisce dall'essere messi in condizione di formularci domande che riguardano il significato. Tutto cio' che tende a silenziare questa naturale possibilita' di interrogarsi (che e' invece quello che si capisce ha fatto il protagonista tutta la vita) tutto cio' che tende a limitare le condizioni perche' questo possa accadere. Per es, in primis, i fondamentalismi di ogni tipo.

Questo, nelle sue varie forme, e' per me veramente barbarie. Tuttavia e' solo il mio punto di vista che esprimo, peraltro, un po' in preda all’emozione dell'ultimo film che ho visto e che, mi piacerebbe, che anche voi vedeste non foss'altro per parlarne, tra psicologi, psichiatri e professionisti dell’aiuto in generale. Aiuta a riflettere chi aiuta.

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