Come sceglieremo le terapie?

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4 marzo, 2013 - 17:21

Un argomento particolarmente interessante che si sta dibattendo in questi giorni ha avuto il suo coronamento in un articolo di Roses su "Nature" che riguarda la farmacogenetica (psicofarmacogenetica, per cio' che interessa a noi).

Parra' strano che uno psichiatra di origine e di impostazione psicoanalitiche parli di mappature genetiche; con questo voglio sottolineare alcuni aspetti che riguardano gli psicoterapeuti che hanno ormai un'idea generale e complessa della psichiatria e che hanno superato ogni dogmatismo.

Qual'e' il problema?

In sintesi il problema e' che la farmacocinetica e la farmacodinamica, cioe' le vicissitudini che il farmaco segue all'interno dell'organismo e la sua interazione con i vari sistemi recettoriali (e quindi la fisiologia della psiche in qualche modo) sono prevedibili sulla base della genetica molecolare. Questo da' al processo una spiccata individualita' che riguarda la mappatura cromosomica di ognuno e il suo comportamento rispetto al farmaco e, quindi, conferisce all'azione del farmaco una grande specificita': in qualche modo ogni farmaco agisce in ogni individuo nel modo specifico di quell'individuo.

Cio' significa che noi abbiamo la possibilita' della conoscienza in anticipo della risposta ai farmaci e degli effetti collaterali, cosa di grande rilievo per il farmacologo, per il clinico, per tutti. Ma per noi psicoterapeuti cosa significa questo?

Intanto diciamo che l'impatto economico di questi procedimenti e' notevole: primo perche' comporterebbe delle peocedure assai costose a meno di avere una possibilita' piu' semplice, piu' diretta (cosa non esclusa in un giorno nemmeno tanto lontano). Ma potranno esserci altri problemi: che la precisione della predizione potrebbe essere fortemente male interpretata dal clinico edal paziente stesso, con il rischio di forzature, con la prescrizione di farmaci piu' tossici o piu' costosi, perche' corrisponde ad un altro schema che ci viene aggiunto e sappiamo quanto in psichiatria dobbiamo guardarci dagli schemi terapeutici, ed anche dalle guidelines. C'e' il rischio, per questa strada, che non dobbiamo per altro demonizzare, della messa a riposo dell'esperienza clinica e della modalita' di relazione interpersonale che in psichiatria e' un elemento fondamentale. Gia' questo rischio lo vediamo sulla base di certi schemi fissi e predeterminati si applicano certe terapie, figuriamoci difronte alla mappatura genetica sui farmaci, e' possibile che il medico senza neanche vedere il paziente dia una terapia , lasciando poi ad un altro personaggio l'incarico di occuparsi dei dintorni della terapia che sara' la qualita' della vita con quel famaco, la risposta emotiva, la risposta relazionale.

Questa dicotomia potrebbe essere molto pericolosa, creando un tecnico della terapia da un lato, il quale agisce come su una macchina, con grande competenza tra l'altro, perche' una mappatura..., e dall'altro una sorta di personaggio che si occupa dei contorni relazionali e degli aspetti emotivi immetteno nel sistema una dose di ambiguita' colla creazione di una relazione multipla, una relazione a tre che potrebbe dare dei risultati negativi.

Ma, a parte questi possibili aspetti negativi, di cui tenere conto, rimane il fatto che oggi sappiamo che tutti gli enzimi dei citocromi che integrano il metabolismo dei farmaci possono essere clonati, e questo e' un punto fermo; il che vuol dire che possono essere clonati gan parte dei recettori su cui i famaci vanno ad agire.

Uno psichiatra di impostazione psicoterapeutica come me e' affascinato da questa possibilita'; perche' l'esperienza gli ha fatto vedere quante volte e' in realta' il paziente il miglior giudice dell'effetto dei farmaci. Quante volte un farmaco che ci aspetterammo agire non agisce, oppure pur agendo provoca una reazione di inquietudine, di malaccettazione, tanto che fatta la somma dobbiamo rinunciare a quel farmaco che di per se' avrebbebuon effetto. Siamo ormai abituati a constatare che i controlled trials, farmaco x versus farmaco y, nela realta' clinica sono ormai di utilita' relativa. Abbiamo un bel parlare di compliance: in realta' ora che sappiamo queste cose sulla farmacogenetica, possiamo dire che e' molto probabile che quel paziente abbia qualcosa nella sua modalita' di elaborazione farmacodinamica e farmacocinetica che rendono un certo farmaco non solo poco efficace, ma anche poco agibile per lui.

La nostra esperienza e' che bisogna ascoltare il paziente per cio' che dice, senza, riferire tutto, con un po' di sufficienza ad una mancanza di compliance e arrivare alla conclusione che e' il paziente che non collabora. Egli ha il suo strumento, la cenestesi, solo lui puo' misurare l'attitudine che ha nei geni di tollerare o meno un farmaco.

E' una cattiva abitudine clinica sottovalutare il paziente: in genere "il paziente ha sempre ragione", con una metafora commerciale; sa lui quello che gli accade dentro. Chi meglio della cenestesi del paziente, che e' uno strumento sensibilissimo, conosce la propria mappa genetica e la conseguente farmacocinetica e dinamica di un farmaco?

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