GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Agosto 2013 IV - Politica e violenza, letteratura e ... terapie

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5 settembre, 2013 - 07:21
di Luca Ribolini

Recalcati: analisi psicopatologica del grillismo. Pubblichiamo un interessante estratto da Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati, libro-intervista curato da Christian Raimo, edito da Minimum Fax 
di Massimo Recalcati, Christian Raimo, vita.it, 26 agosto 2013

Cosa ne pensi del fenomeno Grillo? Che analisi psicopatologica ne faresti?
In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas, si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.
Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.
Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.
Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza.
Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?
Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise.
Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta?
In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?
Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide.

http://www.vita.it/societa/media-cultura/recalcati-analisi-psicopatologica-del-grillismo.html


Il Sessantotto interiore

di Redazione e Julia Kristeva, avvenire.it 28 agosto 2013

È in libreria da domani, di Julia Kristeva, L’avvenire di una rivolta (il melangolo, pagine 100, euro 12,00), da cui pubblichiamo la prefazione. La filosofa e psicoanalista francese di origine bulgara, riprendendo la famosa frase di Camus «mi rivolto dunque sono», afferma che «ci rivoltiamo dunque abbiamo un avvenire». Il libro è un elogio della rivolta permanente come capacità di ricominciare sempre la nostra esistenza, di rimettere sempre in questione le nostre convinzioni e credenze, come unica possibilità per non chiudersi nel presente e tenere aperto l’avvenire. Kristeva parte dall’esperienza della vita psichica di ciascuno perché è qui che si gioca l’avvenire della società e la possibilità di fondare una nuova politica. Analizzando esperienze diverse che vanno dalla preghiera all’arte, dal dialogo all’analisi, Kristeva offre un quadro per orientarsi in un’epoca di crisi che, prima ancora che politica, è una crisi esistenziale che investe il senso della vita degli uomini. Tra le numerose opere della Kristeva tradotte in italiano ricordiamo: Il rischio del pensare, il melangolo, 2006; Teresa, mon amour, Donzelli 2008; Il genio femminile, Donzelli, 2010; Storie d’amore, Donzelli, 2012.
Sommosse popolari, gioventù indignata, dittatori detronizzati, presidenti cacciati dalle oligarchiche fortezze, speranze e libertà represse in prigione, processi farsa e bagni di sangue. La rivolta, riot sul web, sta quindi risvegliando l’umanità digitale dal suo sogno iper-connesso? Nient’altro che l’ennesima astuta richiesta di uno spettacolo che ha bisogno di perpetuarsi? Ma di che rivolta stiamo parlando? È ancora possibile in questi tempi di generalizzata miseria, debito endemico, austerità e disoccupazione, in un momento in cui le guerre saldamente localizzate minacciano di generalizzarsi e lo scioglimento dei ghiacci sta per inondarci? Ho scritto L’avenir d’une révolte (Calmann-Lévy, 1998), di cui il lettore troverà di seguito la riedizione, sulla scia di Sens et non-sens de la révolte (Fayard, 1996) e di La Révolte intime (Fayard, 1997), una quindicina di anni fa. La Francia, sempre fiera della propria memoria e della propria eccezione culturale, ma sempre più delusa dagli schemi e dalle promesse di cui si nutre la politica e, oggi, sul punto di diventare astensionista in un’Europa in ritirata, resta tuttavia sempre animata da un gusto inalterabile per la libertà di pensare, nel genio della lingua francese e nel culto del dibattito repubblicano.
Ascoltavo allora e continuo ad ascoltare i miei pazienti: persone che, uomini e donne, subiscono una crisi personale, o la crisi in generale, e che si fanno strada tra parole usate, loro eterno ritorno, forse loro rinascita. Una nuova specie di individui arrabbiati ha ripreso il cammino della rivolta intima: quella dei nuovi realisti che, come si diceva nel maggio ‘68, vogliono l’impossibile. Mi sembra che la loro rivolta sia l’aspetto visibile della rivalutazione del continente religioso che chiamiamo “esperienza interiore” e che persiste nell’affermarsi timidamente, segretamente, sensibilmente, sotto la superficie delle immagini, degli elementi di linguaggio e delle contrazioni identitarie.
Questa rivolta è controcorrente rispetto all’oppressione e al terrore, di fronte a una crisi senza soluzione, così come di fronte all’incanto realista. Il loro senso torna a me ormai come un’eco rimandata da nuovi, inaspettati lettori. Come il ricercatore americano che, per analizzare i vantaggi e le trappole del bipartitismo politico, guarda alla politica europea, cosiddetta “continentale”, e preferisce mettere in dubbio i “valori” più che riflettere a partire dai “dati”. Come l’avvocatessa e l’artista cinesi, cui è stato conferito il Premio Simone de Beauvoir per la libertà delle donne, e che contribuiscono allo sviluppo economico del gigante cinese, ma corrono anche il rischio di rivoltarsi, esigendo il rispetto dei “diritti della donna”, nell’attesa che vengano riconosciuti ufficialmente i diritti dell’uomo. Come i democratici che hanno partecipato alla “rivoluzione dei Gelsomini”, prima di subire il ritorno dell’integralismo islamico rimosso. Come lo studente cileno che brandiva una traduzione spagnola dei miei scritti sulla rivolta davanti al suo istituto in sciopero, su cui campeggiava lo striscione “Università in rivolta” per i drastici tagli ai finanziamenti all’istruzione. Come, infine, gli psicanalisti siriani che tentano una stupefacente transvalutazione della propria tradizione quando resistono alla dittatura, creando “psicoterapie di gruppo contro la paura” o quando affinano la traduzione degli scritti di Freud riprendendo il lessico della mistica araba.
Gli uomini in rivolta della nuova specie sono gli individui arrabbiati che non hanno perso il senso decisivo e specifico della rivolta. Tutti e tutte sono impegnati in un’esistenza difficile, spesso dolorosa, e portano avanti lotte rischiose. Condividono tuttavia qualche cosa di nuovo, che probabilmente c’è sempre stato, ma che diventa ormai confessabile, addirittura rivendicato. Scoprono per esperienza che non ci sono risposte alle impasse sociali, storiche, politiche, senza un’esperienza interiore radicale, esigente, singolare, capace di appropriarsi della complessità del prima per decidere dell’adesso e del poi.
Per sfuggire alla cecità dei tecnici della politica. Per combattere il fondamentalismo che bracca la corruzione, però iniziando a instaurare la repressione delle libertà fondamentali. Per evitare il non-sense del rifiuto vendicativo che, doppio simmetrico e impotente, denuncia l’avversario senza un’alternativa sensata. Non basta avere un programma. Servono uomini e donne con esperienze interiori singolari, dubbiose, intransigenti e solo a queste condizioni riformatrici. Uomini e donne che sappiano trasmettere e condividere una parola in rivolta e solo a questo prezzo innovativa.
La poesia era sempre stata capace di esprimere la volontà della volontà libera, riandando alla memoria delle parole da cui trarre il tempo sensibile. In epoche che percepiamo in oscuro declino o, almeno, sospese, l’indagine resta la sola forma di pensiero possibile: indizio di una vita semplicemente viva.
L’interiorità non è la nuova prigione. Il suo bisogno di legami potrebbe, in futuro, fondare un’altra politica. Oggi, la vita psichica sa che si salverà solo se saprà concedere a se stessa il tempo e lo spazio delle ribellioni: rompere, rammentare, rifare. Dalla preghiera al dialogo, attraverso l’arte e l’analisi, l’evento chiave rimane la grande liberazione infinitesimale: da ricominciare di continuo. Senza questo, la globalizzazione avrà da calcolare solo i tassi di crescita e le combinazioni genetiche.
Le verità, incluse quelle scientifiche, forse sono illusioni, ma hanno il futuro davanti a loro. In contrappunto a certezze e credenze, la rivolta permanente consiste nel rimettere in discussione il sé, il tutto e il nulla, che chiaramente non hanno più ragione di essere. Se siamo ancora in tempo, però, scommettiamo sull’avvenire della rivolta. Mi rivolto, dunque siamo (Albert Camus). O meglio: mi rivolto, dunque saremo. Esperienza radiosa e di ampio respiro.

http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/il-sessantotto-italiano.aspx
 
Parole e omissioni. Che cosa dicono i grandi romanzi quando tacciono. Da Proust a Stendhal da Kleist a Sterne molte storie letterarie sono caratterizzate da misteriose lacune
di Nicola Gardini, la Repubblica, 29 agosto 2013
 
In un celebre racconto di Kleist la bella marchesa von O viene assalita da una masnada di soldatacci russi e rischia di venire ammazzata. Ma, richiamato dalle grida, un ufficiale russo disperde prontamente gli assalitori. La marchesa perde i sensi; ma si riprende poco dopo e il medico, alla presenza del salvatore, assicura che si ristabilirà presto. Passato un certo periodo, la marchesa si ritrova incinta, e non sa di chi. Sappiamo che è vedova e che vive castamente, tutta dedita all’educazione dei due figli. La misteriosa gravidanza quasi le toglie la ragione. Ebbene, a metterla incinta è stato proprio quel gentiluomo che l’ha salvata e che a lei “parve un angelo del cielo”. Nello spazio di uno svenimento si è compiuto il fattaccio.
Kleist omette non per semplice amore del decoro. La lacuna scatena un faticoso processo di autoanalisi nel personaggio della marchesa e nella società di cui è parte. Riempire la lacuna porterà al ristabilimento dell’ordine, dando una nuova coscienza e dignità sia nello stupratore che nella stuprata.
Un altro esempio, dal Rosso e il nero. Julien, scesa la notte (siamo nel capitolo quindicesimo), si infila nella camera da letto di madame de Rênal. Lei reagisce all’impertinenza con duri rimproveri. Il ragazzo si getta ai suoi piedi e le abbraccia le ginocchia, piangente. Il paragrafo termina appunto sulla parola «lacrime». Si va a capo e il paragrafo successivo comincia con una notazione temporale: «Qualche ora più tardi…». Una lacuna. Che cosa è successo nel frattempo? Non è difficile immaginarlo. Il narratore, d’altronde, con elegante ironia, si preoccupa di non lasciare i suoi lettori nel dubbio: «Quando Giuliano uscì dalla camera di madame de Rênal, si potrebbe dire, in stile romanzesco, che non aveva più nulla da desiderare».
La lacuna espande il senso, portando la significazione oltre i limiti fisici delle parole scritte. Il lettore interprete fa agire il testo oltre i limiti della scrittura e, a sua volta, è attraversato dalla voce nascosta del testo. Cicerone, nel De oratore, utilizza una bella metafora per spiegare il ruolo del lettore interprete: costui è un cercatore d’oro che va a scavare dove il testo gli indica. Bastano alcuni segni sul terreno, diligenza e riflessione e il prezioso metallo verrà estratto.
La lacuna mira non alla diminuzione, ma allo sviluppo. La sottrazione chiama di necessità il completamento, il danno, il restauro. Non c’è sistema — le narrazioni sono, appunto, sistemi — che sia in grado di tollerare privazioni irrimediabili. Quel che si perde si deve recuperare, in letteratura come in fisica o in neurologia.
Le nostre stesse conoscenze sociali sono basate non su un’effettiva completezza, ma sulla proiezione delle nostre aspettative: quel che crediamo di sapere è riempimento. Proust ha spiegato benissimo, proprio all’inizio della Ricerca del tempo perduto, che le persone non esistono se non come risultato di un nostro modo di intenderle: «Noi riempiamo l’apparenza fisica dell’essere che vediamo di tutte le nozioni che abbiamo di lui e nell’aspetto totale che noi ci rappresentiamo queste nozioni hanno certamente il peso maggiore ». Le persone sono buchi. Il viso di Swann, per i genitori del narratore, è «vacante e spazioso», il suo corpo «un involucro», capace di includere qualunque pregiudizio e fantasia altrui.
Modi di integrazione, se si guarda alla formalizzazione simbolica, sono le nostre stesse sinapsi, senza le quali gli impulsi nervosi non potrebbero viaggiare e al posto della conoscenza si avrebbe solo un inerte paesaggio di vuoti.
Il mito della completezza si ritrova in autorevoli ipotesi psicoanalitiche. Secondo Jacques Lacan, l’io infantile comincia a delinearsi, cioè ad acquisire una sua pur illusoria “completezza”, quando il bambino, che ancora non sa reggersi nella posizione eretta e ancora dipende dal corpo materno per il nutrimento, si scopre “forma” allo specchio: l’immagine riflessa compone in totalità il corpo diviso; comincia, allora, anche un’altra storia nello sviluppo mentale dell’individuo, la fase sociale.
In questa stessa mitologia del corpo integro rientrano i discorsi di Freud sulla castrazione. Nel narrare agiscono modelli antropologici (e biologici) che sono profondamente radicati nella vita privata e pubblica degli individui e hanno manifestazioni emblematiche, oltre che nella “rappresentazione” del sistema nervoso umano o della struttura psichica, in interi ordinamenti culturali e pedagogici, come il cosiddetto Rinascimento, cultura del recupero per eccellenza. Lo stesso culto del frammento che ha cominciato a dominare le estetiche dalla fine del Settecento è sotto sotto un’esaltazione dell’integrità, un’integrità perduta, certo, ma reale, non immaginaria o mancata; e poiché perduta, ideale (rovesciamento che distingue di netto il romanticismo — fin nelle sue derive così dette decadenti e postmoderne — dal classicismo).
Come ha scritto J. M. Coetzee nel romanzo Slow Man, la Venere di Milo non sarebbe un’icona della bellezza femminile se fosse il ritratto di una donna menomata. Se davvero così fosse, la si manderebbe subito in cantina. Infatti, quel che piace non è il corpo frammentario, ma l’immagine frammentaria del corpo. E questo è stato intero e sempre lo resterà nel rimpianto dell’osservatore. Ugualmente funziona il culto delle reliquie: i resti del santo rappresentano la totalità del santo; valgono da sineddoche: per tale ragione possono operare miracoli, come un corpo intero. La letteratura si è costruita nel corso dei secoli sulla religione del corpo integro. I libri hanno membra; e non deve mancare niente.
Siccome, però, il lettore non può sempre sapere con certezza che cosa sia andato perduto, la compensazione non sarà per forza rappresentata dall’effettivo ritrovamento dell’oggetto perduto. Il lettore, subentrando al reticente narratore, procederà per approssimazione, per immaginazione, rimediando al danno con mezzi perfino improvvisati o di ripiego, come gli dèi della mitologia classica che rimpiazzarono la spalla del ricomposto Pelope, divorata da Demetra, con un pezzo d’avorio. Rimarrà inevitabilmente nell’aria il sogno dell’originale, una malinconia grave benché dolce, che l’illusione della riconquistata pienezza non risolverà mai del tutto. Fantasma succederà a fantasma, e nessuno prevarrà. Il vuoto si riempirà di tutte le immagini che più gratificano il lettore, senza tuttavia che nessuna gli offra il colmo dell’appagamento e la perfezione della conoscenza. L’integrazione sarà solo e sempre temporanea; sarà uno spazio di interpretazioni concorrenti; tutte valide, nessuna giusta. Quanto soffre Swann, nel solito imprescindibile primo volume della Ricerca del tempo perduto, quando, preso dal sospetto che Odette possa essersi macchiata di amori lesbici, riesce a ottenere da lei solo risposte parziali, neanche un nome… Sul vuoto che gli si spalanca davanti, infatti, il poverino potrebbe scrivere tutti i nomi della città.
Viene in mente — ma con ben altra valenza — un aneddoto di Plinio il Vecchio, la celeberrima gara di Apelle e Protogene (Storia naturale). I due grandi pittori si sfidano sulla medesima tavola; e non raffigurano nulla. Apelle traccia una prima linea su una tavola di Protogene, mentre Protogene è fuori casa; questi torna e traccia una linea più sottile all’interno di quella tracciata dallo sfidante; Apelle torna e ne traccia una ancora più sottile, togliendo a Protogene ogni possibilità di replica. Insomma, la tavola resta praticamente vuota. Ma quella loro creazione, capolavoro di lacunosità, risulta più potente e ammirevole di qualunque immagine compiuta. La lacuna, infatti, può avere maggior forza della pienezza, perché allude e, alludendo, non esaurisce la rappresentazione; anzi, la costringe a rinnovarsi ad infinitum, e a offrirsi sempre nuova all’occhio del pensiero, immettendo l’opera nell’inarrestabile movimento della vita.
Tristram Shandy, il personaggio di Sterne, quando deve illustrare l’irresistibile fascino di una certa signora, inserisce al posto di una descrizione una pagina bianca: su questa la fantasia del lettore disegni con l’inchiostro come meglio può il suo ideale di bellezza femminile. Il bianco, tra l’altro, impedirà che l’invidia del lettore imbratti la scrittura e che la sua ignoranza raffiguri immagini imperfette. Certo, bisogna presupporre che il lettore abbia non comuni capacità artistiche. Ma questi sono, appunto, fatti del lettore.
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/08/29/parole-omissioni-che-cosa-dicono-grandi-romanzi.html?ref=search
 

Morto Gus, orso-icona Central Park che era stato ‘in analisi’Aveva 27 anni ed era uscito dalla depressione 
di Alessandra Baldini, ansa.it, 29 agosto 2013

Grandi e piccini a New York si sono commossi oggi: Gus, l’orso-icona di Central Park, è morto sotto i ferri del chirurgo. L’orso polare aveva 27 anni, un’eta’ ragguardevole per un bestione della sua specie, la cui vita dura in media circa 20 anni. Gus era diventato famoso negli anni Novanta quando era stato messo ”sul lettino dell’analista”: grazie a una serie di terapie specifiche, disegnate per lui dall’esperto californiano di psicologia animale Tim Desmond, era uscito dalla depressione che gli impediva di giocare con Ida e Lilly, le sue compagne di vasca. La fiaba di Gus, con tanto di hollywoodiano ‘happy end’, aveva incantato New York, una città che nella psicoanalisi crede davvero e che probabilmente vanta il maggior tasso di ‘strizzacervelli’ per numero di abitanti. Gus era entrato in analisi nel 1994, l’anno in cui il suo comportamento nevrotico e ossessivo aveva indotto alla disperazione i suoi guardiani e costretto la direzione dello zoo di Central Park a correre con urgenza ai ripari. Nove anni di terapia avevano fatto il miracolo. L’orso di Central Park era arrivato a New York nel 1988, da Toledo nell’Ohio, ad appena due anni, e da allora e’ stato visitato da 20 milioni di newyorchesi e turisti di tutte le età. All’inizio la frenesia metropolitana non era sembrata infastidire il candido cucciolone venuto dalla provincia, ma a poco a poco i comportamenti dell’orso si erano fatti sempre piu’ ossessivi, per una combinazione micidiale di stress e di noia, la stessa che affligge tanti concittadini nella città che non dorme mai: la nevrosi si era manifestata in un comportamento ossessivo, che induceva il candido bestione a nuotare tutto il giorno senza sosta lungo una sola direzione. Ieri la morte sotto anestesia, durante un intervento deciso dai veterinari dello zoo dopo che il comportamento dell’orso era apparso particolarmente letargico: durante l’operazione i chirurghi avevano scoperto un grosso tumore inoperabile nella regione della tiroide.

http://ansamed.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/natura/2013/08/28/Morto-Gus-orso-icona-Central-Park_9211465.html
 
 
Non è violenza di genere
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 31 agosto 2013
 
Spesso definizioni poco appropriate di un fenomeno hanno la meglio su definizioni più rigorose perché appagano la pigrizia con cui ci si difende dalla complessità della vita. A volte il danno è minimo, altre volte, invece, nascono fraintendimenti pericolosi. Questo è il caso della «violenza di genere», un modo di definire la violenza contro le donne che aggiunge allo schematismo delle formule ad effetto un sostegno involontario al meccanismo che produce l'aggressione. Parlare di violenza di genere significa commettere due errori: concepire la donna e l'uomo in modo indipendente dalla loro complementarità e attribuire all'uomo una violenza nei confronti della donna connaturata al suo modo di essere (e risalente al suo patrimonio genetico). In entrambi i casi la vittima predestinata è la sessualità: si pretende di considerare la relazione sociale tra i due sessi a prescindere dal legame di desiderio (come se si pretendesse che gli edifici restassero in piedi indipendentemente dalla forza di gravità). La violenza nei confronti della donna è sociale e danneggia egualmente uomini e donne come soggetti sessuali. Nella sostanza danneggia più l'uomo che la donna perché l'uomo violento perde il suo oggetto del desiderio e subisce una deprivazione psichica devastante. Una donna può essere sopraffatta dalla violenza ma restare internamente viva mentre l'uomo sopraffattore è già morto dentro. In realtà l'oggetto dell'aggressione non è la donna in sé, intesa come «genere», ma la qualità femminile del desiderio, la possibilità stessa del coinvolgimento profondo e del godimento vero in entrambi i sessi. Il coinvolgimento fa paura perché comporta l'esposizione al desiderio dell'altro ma anche perché è intimamente connesso - sul versante maschile del desiderio - con la passione di appropriazione che rischia se non è adeguatamente modulata di distruggere ciò che ha tra le mani. L'intero edificio sociale si basa sulla complementarità dei sessi che incastra tra di loro (nella relazione degli amanti e nel mondo interno di ciascuno di loro) il concedersi all'altro (e alla vita) e la brama di possesso. L'equilibrio è vulnerabile perché è esposto a incomprensioni e fraintendimenti e perché il sottile lavoro di contrattazione costante subisce le difficoltà di mediazione tra la necessità di regolamentazione dell'elemento maschile della sessualità, che implica il ricorso a convenzioni e norme, e l'anticonformismo costitutivo dell'elemento femminile. Ignorare la complementarità dei sessi (che sottende parimenti l'erotismo eterosessuale e quello omosessuale) ricorrendo alla definizione separata di «generi» (ritorno alla compulsione tassonomica) significa creare due entità astratte e artificiali per cercare poi disperatamente di accordarle tra di loro senza venirne mai a capo. Teorizzare poi, di fatto, una violenza innata dell'uomo nei confronti della donna, porta acqua al mulino di un processo di indifferenziazione sessuale che distrugge la relazione erotica, assegnando, quando l'impasse diventa massima, all'uomo il ruolo del carnefice e alla donna quello della vittima.

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