GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Settembre 2013 III - Italia, Germania e Cina, la cura e il web, scuola e desiderio

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25 settembre, 2013 - 19:15
di Luca Ribolini

E L’INCONSCIO È MADE IN CINA
di Luciana Sica, repubblica.it, 15 settembre 2013

Dice molto della stoffa dell’autore, delle sue escursioni intellettuali nel segno di un rigore sempre coniugato all’originalità, quest’ultimo libro di Christopher Bollas pieno di suggestioni così diverse, di digressioni dal sapore spesso personale, che certo si presenta anche come una singolare ricognizione di natura letteraria e filosofica su La mente orientale (è China on the Mind il titolo originale).
Non è però un sinologo Bollas, che a dicembre festeggerà settant’anni, ma una delle teste più brillanti della psicoanalisi contemporanea, un battitore libero che mai si è lasciato chiudere nei recinti di una certa psicoanalisi autocompiaciuta e ripetitiva. La riflessione anche eccentrica sull’Oriente che interessa Bollas – e vistosamente lo coinvolge su un piano non solo intellettuale – si basa su un’ipotesi ardita, ma non azzardata, strettamente correlata alla tradizione psicoanalitica britannica da cui senz’altro l’autore deriva senza esserne rimasto prigioniero. Non a caso sono soprattutto due i grandi nomi che ricorrono nelle pagine di questo libro: Donald Winnicott e il suo geniale e controverso allievo Masud Khan.
La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud. Soprattutto la poesia, dove la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla tesi di Bollas secondo cui «il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale».
Leggendo queste pagine e tentando di riassumerle senza tradire il pensiero di un autore che già negli anni Ottanta ha scritto libri folgoranti come L’ombra dell’oggetto e Forze del destino (usciti in Italia da Borla),si comprende anche come Bollas sia sempre stato allergico alle pigrizie culturali e alle ritualità politiche di un certo establishment. Non ha mai amato le istituzioni psicoanalitiche e naturalmente non ne è stato particolarmente riamato. Da noi ci sono analisti che lo conoscono e lo ammirano (come Vincenzo Bonaminio, che ha curato Il momento freudiano, Franco Angeli), ma il più delle volte Bollas viene citato qua e là, senza che gli venga riconosciuto il suo ruolo che è invece indiscutibilmente quello di un fuoriclasse.
Eppure è stato un analista a volte idolatrato come André Green, l’allievo di Lacan scomparso all’inizio dello scorso anno, a dire di Bollas: «È uno psicoanalista, ma non scrive come uno psicoanalista, cioè evita miracolosamente di essere noioso, pedante, dogmatico. Non è sufficiente dire che è umano perché la sua sensibilità non è solo commovente, ma riflessiva. Non solo la sua scrittura è vivace e brillante, è anche profonda. Le persone di cui scrive – le persone, non i pazienti – non solo sono come noi, ma sembrano quasi la nostra ombra…».
È vero: Bollas scrive in modo magnifico, a tratti può ricordare Hillman, e non a caso è anche l’autore di tre romanzi psicoanalitici di un certo successo: il terzo uscirà da noi all’inizio del prossimo anno con il titoloScompiglio, da Antigone. Di tempo per scrivere ne avrà ancora Bollas, ora che vive prevalentemente in un casolare di campagna in California e anzi fa sapere con tutta tranquillità che ormai lui l’analisi la fa solo al telefono o via Skype. C’è chi se lo può permettere.
LA MENTE ORIENTALE Psicoanalisi e Cina di Christopher Bollas Cortina, pagg. 203, euro 14
 
http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/09/15/se-inconscio-made-in-cina.html


LA7D. PSICOANALISI ON LINE LA TERAPIA DURA TRE MINUTI 
di Chiara Daina. Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2013

Con internet il mondo entra in casa tua. Con internet tutto è a portata di clic e tutto diventa fai da te, dalla vacanza all’università, foto, video, film, libri, ricerca di casa, aereo, babysitter, corso di inglese, orto sul balcone, trucco, cucina, chitarra. Si dice che internet rende gli umani pigri, crea posti di lavoro, ruba posti di lavoro, taglia fuori gli anziani, uccide l’innovazione, spegne la creatività, stimola i neuroni. Dunque, lo spazio virtuale è di tutto e di più. O, se si preferisce, è ciò che di più controverso possa esistere. È anche il lettino dello psicanalista, incluso lo psicanalista. La nuova grammatica della psicologia si chiama Webtherapy, in onda su La7d. Non richiede niente di fisico, nessuno in carne e ossa. Basta munirsi di un computer, perfino un iPad o uno smartphone, una connessione internet, una webcam e un account su Skype. E la psicoterapia è quasi fatta. Dal-l’altra parte dello schermo, infatti, si deve palesare il volto della dottoressa Fiona Wallice, alias Lisa Kudrow. Cioè l’ex attrice di Friends, esilarante e fortunatissima sitcom made in Usa. Capello lungo, biondo, liscio e voluminoso e tanta faccia tosta. Suo marito è un avvocato. Lei viene da una famiglia benestante. Per lei il lavoro è soltanto un hobby, anzi il capro espiatorio delle sue nevrosi: Wallice è egocentrica, isterica, pungente e arrogante. I problemi degli altri sono la fonte del suo business: il franchising della web therapy. Si procaccia i pazienti online grazie al sito internet e fa sedute esclusivamente mordi e fuggi. Durata: tre minuti. Non un secondo di più, altrimenti perde la pazienza e le staffe.
Un paziente gli chiede un appuntamento di 50 minuti. Lei replica così: “In tre minuti si è obbligati ad arrivare al punto”. Come fa lei, che spiattella la verità in un colpo senza farla digerire agli assistiti: “Lei si attacca agli uomini che fuggono perché è stata cresciuta da una coppia di lesbiche e quindi senza una figura paterna, per cui è familiare vivere l’assenza maschile”. Oppure “A lei sono mancate le attenzioni di sua madre e quindi non cerca la donna indipendente ma la badante”. Un altro le chiede di essere ricevuto di persona nel suo studio. La dottoressa inorridisce e lo taccia di stalking. Dinamiche surreali, analisi forzate, sprazzi di lumi freudiani qua e là. Il pubblico da casa vede due finestre della video chat aperte. Nessun montaggio, mai cambi di inquadratura. Per fortuna è solo una serie tv.
 
http://www.segnalazioni.blogspot.it/2013_09_01_archive.html


«LA CONCORDIA NON È UN MIRACOLO ITALIANO, MA CI SERVIRÀ». Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja mette il paese sul lettino: «Ci raccontiamo che siamo capaci di imprese impossibili ma dimentichiamo che anche Schettino è italiano»

di Nicola Mirenzi, europaquotidiano.it, 17 settembre 2013

«Il nostro immaginario ha un gran bisogno di riscatto». Luigi Zoja, uno dei più importanti analisti junghiani d’Italia, già presidente dell’International Association for Analytics Psychology, spiega così la grande attrazione nazionale per la metafora della Costa Concordia: il simbolo della caduta e della risalita, un’immagine in cui moltissimi si sono ritrovati e hanno intravisto la possibilità di farcela, di uscire dalla crisi.
Professore, si può stendere il sogno italiano della Concordia sul lettino?
Non clinicamente, ma come analista junghiano io utilizzo il concetto di inconscio collettivo…
Cioè?
Freud e Jung dicevano che i miti sono i sogni collettivi di un popolo. E in questo caso è come se l’inconscio collettivo italiano avesse sognato questa nave immensa che affonda e poi si risolleva. E, si sa, per noi psicanalisti i sogni vogliono sempre dire qualcosa.
Cosa, in questo caso?
C’è in Italia una sensazione diffusa di decadenza e quindi è bello inventarsi queste mitologie e auto-consolarsi. Nei fatti, il raddrizzamento della Costa Concordia non è un miracolo italiano: è frutto di un lavoro tecnologico internazionale. Ma nel nostro immaginario è come se lo avessimo fatto noi. E questo perché, negli italiani c’è un grandissimo bisogno di immagini di riscatto.
Perché sentiamo questo desiderio così forte?
Mi stupirei del contrario. L’affondamento italiano è certificato statisticamente ma è anche un inabissamento culturale e morale. Ci sono altri paesi europei – penso alla Spagna per esempio – che sono in crisi economica ma nessuno di loro avverte, come noi, la sensazione di essere arrivati a un punto di non ritorno più generale, che esula dai dati macroeconomici.
Non mi dica che c’entra Berlusconi?
Il ventennio berlusconiano non ha un corrispettivo europeo. La Spagna ha degli scandali di corruzione, però non ha un ventennio in cui la politica, l’economia, la politica il costume, sono entrati in crisi come è successo in Italia.
L’immagine della Concordia però dice che ce la possiamo fare.
A patto di ricordarsi che anche chi ha provocato questo disastro era italiano. Ed è dunque anch’egli un simbolo dell’Italia.
Gli italiani però allora s’identificarono molto di più con il comandante De Falco, l’uomo che pronunciò l’ormai mitica frase: «Salga a bordo, cazzo», piuttosto che con chi combinò il patatràc, ossia Schettino.
Ma le facce della medaglia sono due. Non possiamo essere così autoconsolatori da dimenticarci che siamo il paese in cui, con il mare tranquillo, si è riuscito a combinare un tale disastro. E tutto per soddisfare una vanità.
Gli italiani si sentirono abusivamente De Falco?
Metafora per metafora, si può dire che De Falco era l’uomo del rigore massimo, cioè, giocando ancora con le immagini: Mario Monti… Ma Monti l’Italia in fondo lo ha liquidato, proprio perché chiedeva troppo rigore. Se dobbiamo leggere nei grandi simboli, nelle ambivalenze dell’Italia c’è anche questa: il nostro paese ammira l’uomo del rigore, s’identifica completamente con il suo senso del dovere, ma solo nella serata dell’affondamento, poi se ne dimentica.
È una reazione nevrotica?
No, la reazione italiana è stata la reazione di un Paese sano, il quale però sa che c’è un male nazionale. Per questo mi auguro che non sia, questa del risollevamento, una reazione effimera. Come è stata significativa ma effimera l’identificazione con il capitano De Falco.
Noi italiani amiamo descriverci come il popolo che messo con le spalle al muro riesce a tirare fuori capacità inaspettate. Ci siamo fatti questo racconto dopo la seconda guerra mondiale, quando siamo entrati nell’euro, forse anche ora.
C’è del vero, ma c’è anche dell’autocompiacimento in questa narrazione troppo comoda. Dopo la seconda guerra mondiale ci siamo rimboccati le maniche, ma la Germania era in condizioni molte peggiori delle nostre e pure è risalita molto più in alto di noi, cominciando con una de-nazificazione che l’Italia non ha mai compitamente fatto con il fascismo. Si è costruita una mitologia secondo la quale tutti siamo stati partigiani. Ma non era così.
Pensa che l’immagine della Concordia raddrizzata possa essere utile al “paziente Italia” per risollevarsi?
Penso proprio di sì.
 
http://www.europaquotidiano.it/2013/09/17/la-concordia-non-e-un-miracolo-italiano-ma-ci-servira
 
 
SOCCI: "CANCELLARE PADRE E MADRE È ABOLIRE LA LEGGE PER NATURA"
di Antonio Socci, liberoquotidiano.it, 19 settembre 2013
 
Quasi cent’anni fa il grande Gilbert K. Chesterton prevedeva che la deriva della moderna mentalità nichilista sarebbe stata - di lì a poco - il ridicolo. Cioè la guerra contro la realtà.  Intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un’affermazione di buon senso e di razionalità - per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna - in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci dovevamo preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso.
Chesterton infatti scriveva: «La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo... Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto».
Viene da ricordarlo con una certa tristezza in questi giorni nei quali - seguendo la bislacca trovata del governo francese - anche in Italia sta cominciando a dilagare l’idea di sostituire, nella modulistica della burocrazia scolastica, le categorie  “padre” e “madre” con la formula “genitore 1” e “genitore 2”.  Tutto questo perché - secondo l’ideologia politically correct - si deve “desessualizzare la genitorialità”. Cioè perché la dizione “padre” e “madre” potrebbe essere sentita come discriminatoria da qualcuno.
 
Fatti e opinioni
Resistendo allo sconcerto e al ridere, vorrei provare a ragionare pacatamente con chi si fa alfiere di questo tipo di trovate. Anzitutto va sottolineato che «i fatti hanno la testa dura» e - con buona pace di certi opinionisti - tutti sulla terra siamo stati generati da un uomo e da una donna. In qualunque modo sia avvenuto il concepimento. Quindi la realtà contraddice le opinioni, e soprattutto mostra che nessuno può sentirsi «discriminato» da quella formulazione perché tutti, proprio tutti, siamo stati generati da un padre e da una madre, e dunque siamo loro figli. Ma oggi purtroppo la mentalità dominante afferma che se i fatti contraddicono le opinioni, tanto peggio per i fatti. Così, non potendo “abolire” la natura per legge, si decide di abolire le parole che “dicono” la natura delle cose (domani si potrà decretare per legge che due più due fa sette e che si deve chiamare notte il giorno e giorno la notte).
Torniamo al genitore 1 e al genitore 2. Il fatto è che, con questa formula, i “politicamente corretti” finiscono pure per creare discriminazioni peggiori. Anzitutto discriminano la stragrande maggioranza delle persone che continuano a sentirsi padri e madri - e non genitore 1 e genitore 2 - e continuano farsi chiamare dai figli “papà” e “mamma” (finché non verrà proibito). In secondo luogo, con la nuova formulazione si discrimina il  “genitore 2”, che inevitabilmente diventerà secondario.
Infatti, per ovviare a questo problema, al Comune di Bologna pare abbiano pensato di adottare un’altra dizione:  “genitore” e “altro genitore”. Vorrei sommessamente notare che è egualmente discriminatoria verso uno dei genitori. E che entrambe poi sono formule fortemente sessiste, perché sia la  “soluzione” veneziana che quella bolognese usano il termine genitore al maschile, mentre la madre - se vogliamo usare un linguaggio non discriminatorio - è casomai “genitrice”. Ma, a quanto pare, in questo caso la discriminazione contro le donne viene ignorata e tenuta in non cale. Alla fine della fiera, è evidente che i soli termini che non discriminano nessuno sarebbero “padre” e  “madre”. Ma ormai l’ideologia dominante ha dichiarato guerra a padri e madri, alla famiglia naturale, alla realtà. E quindi dovremo subire la loro progressiva cancellazione linguistica.
Non solo. L’epurazione del linguaggio andrà avanti (per esempio la parola “matrimonio”, che rimanda evidentemente alla mater, quindi alla generazione) e si dovrà estendere alla letteratura. Si dovrà censurare quasi tutto. Dall’Odissea, dove Telemaco ha la sfrontatezza di aspettare il padre anziché il genitore 1, all’Amleto, dove il protagonista vive anch’esso il dramma della morte del padre. Dalla Bibbia, dove la paternità di Abramo dà inizio all’Alleanza e dove Gesù insegna a pregare col «Padre nostro», indicando in Maria la Madre, fino alla psicoanalisi.
Anche la psicoanalisi dovrà infatti cadere sotto i colpi del politically correct. Sigmund Freud, nella “Prefazione alla seconda edizione” di “L’interpretazione dei sogni”, scrive testualmente: «Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo».
 
La lezione di Freud
Come ha notato Hermann Lang, «se Freud è da considerare il padre della psicanalisi», da questa citazione «risulterebbe che questa psicanalisi la deve essenzialmente alla relazione con il padre». La psicoanalisi infatti ci spiega che il “padre” e la “madre” non sono soltanto l’ineludibile realtà umana da cui tutti siamo nati e nasciamo, coloro che hanno generato il nostro corpo biologico: essa ci svela che le loro diverse figure permeano pure la nostra psiche, fondano, in modo complementare, la nostra identità profonda e la nostra relazione con tutte le cose. Abolire il padre e la madre dunque rischia di portare all’abolizione (psicologica) dei figli.
Ricordo solo un pensiero di Freud: «Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre» (da “Il disagio della civiltà”, in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 565).  Qua, come pure dove parla della madre, come si può “correggere” Freud? Non si può sostituire padre e madre con genitore 1 o genitore 2. Perché non sono intercambiabili. Padre e madre sono complementari. E ineliminabili.
Ma tutto questo sembra non importare a questo o quell’assessore o politico o ministro o opinionista. Pare che nemmeno ci si accorga dell’enormità e della delicatezza di ciò che si va a spazzar via. Cosa volete che sia la cancellazione di una civiltà millenaria e della stessa natura umana. Basta una delibera del sindaco.
 
http://www.liberoquotidiano.it/mobile/articolo.jsp?id=1313428#.Uj3YgYbsqAQ
 
 
IL MAESTRO RILUTTANTE. CARI PROFESSORI NON FATE GLI PSICOLOGI
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 20 settembre 2013
 
In queste settimane che la Scuola riapre le sue porte auguro che ogni insegnante ritrovi il senso del suo lavoro – bistrattato e umiliato economicamente e socialmente – come uno tra quelli più decisivi nella formazione dell’individuo. Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita.
Nel nostro tempo la scuola di ogni ordine e grado sembra ridotta ad un “esamificio”. L’impeto della valutazione vorrebbe imporre scansioni dell’apprendimento uguali per tutti. Sempre più si sta imponendo una scuola che il “sogno” di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre “i” (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione. Il nostro tempo non coltiva l’ideale di una scuola autoritaria e disciplinare. Non è più il tempo dove – secondo una tristemente nota metafora botanica – l’allievo è assimilato ad una vite storta e l’insegnante ad un paletto diritto e ad un filo di ferro capace di raddrizzarne la stortura. Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo. Il nostro tempo non concepisce più l’allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto. L’apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo l’ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione che non a quella degli allievi. Attualmente un’altra illusione ha fatto capolino. È l’illusione dell’insegnante-psicologo che possiamo sintetizzare con il racconto che ho udito fare da un professore di liceo ad un recente convegno sulla scuola al quale ho partecipato. Questi si vantava nel suo lavoro quotidiano di lasciare da parte i contenuti dei programmi ministeriali per dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi raccogliendo le loro confidenze più personali. Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com’è noto, i programmi didattici si disinteressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni insegnante – lascia il posto ad una supplenza diretta del mestiere del genitore. Mentre l’informatizzazione cognitivista della scuola esalta un sapere senza vita, questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare la vita senza sapere. Si tratta di due facce della stessa medaglia accomunate da una stessa fondamentale dimenticanza: l’importanza dell’ora di lezione nel promuovere l’amore verso il sapere come condizione per ogni possibile apprendimento.
Lo scandalo del professore di liceo che ha abusato del suo ruolo per coltivare relazioni sessuali con le sue allieve minorenni è ancora caldo. In quel caso si è trattato di una distorsione, o se si preferisce, di una deviazione di quello che gli psicoanalisti chiamano “transfert”. Di cosa si tratta? La sua matrice si trova nel gesto di Socrate narrato nel Simposio di Platone. Agatone, l’allievo, si siede vicino al maestro coltivando l’illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l’illusione che abita ogni scolastica dell’apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all’orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere “riempito”. Negandosi alla domanda ingenua di Agatone – “travasa in me il tuo sapere” – Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa “trasporto”, “sentirsi trasportati”) distogliendolo dall’illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l’allievo si metta in movimento – si senta trasportato – verso il sapere, affinché nasca nell’allievo un desiderio autentico di sapere.
Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch’io non so quello che tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi (illusione psicologista) perché l’alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile.
Sull’importanza vitale dell’ora di lezione mi si permetta un ricordo personale. Da ragazzo frequentavo alla fine degli anni Settanta le aule disadorne di un Istituto agrario specializzato in coltivazione di serre calde situato nell’estrema periferia di Milano. Alcuni dei miei compagni finirono sperduti in India, altri costeggiarono pericolosamente il terrorismo, altri ancora sono stati ammazzati dalla droga. Eravamo in quell’Istituto un manipolo di cause perse. Cosa mi salvò se non un’ora di lezione, se non una giovane professoressa di lettere di nome Giulia Terzaghi che entrò in aula stretta in un tailleur grigio rigorosissimo parlandoci di poeti con una passione a noi sconosciuta? Cosa mi salvò se non un’ora di lezione? Se non quella passione sconosciuta che Giulia sapeva incarnare? Questa storia non è solo la mia ma è la storia di molti. Cosa ci salvò se non quel desiderio di sapere che si propagava dalla forza della parola dell’insegnante capace di scuoterci dal sonno? Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare? Non è forse l’ora di lezione che può rimettere in movimento le vite scuotendole dall’inerzia di un sapere proposto solo come un oggetto morto? Auguro a tutti gli studenti di ordine e grado di incontrare la loro Giulia.
 
http://www.manuelaghizzoni.it/2013/09/20/il-maestro-riluttante-di-massimo-recalcati
 
 
“COSÌ IO, STELLA EBREA, HO BEFFATO LE SS”. Esce il diario della figlia di Giulio (il comandante Laghi) “In Val di Lanzo, tra streghe e giochi, aspettavo la libertà”di Bruno Quaranta, lastampa.it, 20 settembre 2013
 
E così, la memorialistica subalpina, accanto a Natalia Ginzburg, Virginia Galante Garrone, Lalla Romano, si arricchisce di un’ulteriore orma femminile: Stella Bolaffi Benuzzi, una signora ruotante intorno a un intimo filo di ferro, nonché ramo orgoglioso di un albero genealogico costellato di francobolli, di rarità in rarità risalendo al 1890, quando nonno Alberto fondò la pregiata ditta torinese, cedendo il testimone nel 1944 al figlio Giulio, il comandante Laghi, alla guida in Val Susa della divisione di Giustizia e Libertà «Stellina», come la figlia. «Ha una sua (!) borghesissima paura della parola “politica” – lo ritrarrà Ada Gobetti -. La guerra la combatte e la paga generosamente».  
Nel nome del padre è il journal di Stella Bolaffi Benuzzi La balma delle streghe (Giuntina, pp. 184, €15, prefazione di Paolo Rumiz). Ovvero «l’eredità della mia infanzia tra leggi razziali e lotta partigiana», bagaglio che permeerà le future stagioni, dagli studi al matrimonio, alla professione. Una fanciullezza braccata, fuggendo da SS e repubblichini in Val di Lanzo, a Vonzo, una frazione di Chialamberto, come istitutrice, angelo custode, mentore, la maestra Gabriella Foà, un Augusto Monti delle classi elementari. 
Psicoanalista freudiana, Stella Bolaffi subito evoca il dottore di Zeno, «l’autobiografia, buon preludio alla psico-analisi». Nella Balma alternandosi (e intrecciandosi) il racconto e la sua «lettura», seduta dopo seduta. «No, non concordo con Svevo. È una considerazione semplicistica, la sua. In analisi, sono due i protagonisti, artefici di un dialogo che culmina nel transfert». 
Inseparabile da Alberto, ieri e oggi, la signora Stella, poco importa la distanza geografica, in Alberto riconoscendo l’eco nitida del padre, del «depositum» Bolaffi che si trasmette di generazione in generazione. «Mio padre, una figura cardinale, nel male e nel bene. Nel male: come subiva la madre, la possessiva nonna Vittoria, come era geloso della mamma, come era drastico con me, nessuna discussione ammessa, com’era ostile, per esempio, a qualsivoglia, innocente vanità. Ricordo quando, sposata, gli feci visita con i due bambini, sulle labbra appena un velo di rossetto. Mi intimò: “Ora andrai nella toilette, a lavarti il viso”». E nel bene? «Una forza d’animo eccezionale, anche nelle occasioni più tragiche, mai smarrendo la flemma». 
Mai abdicano, papà Giulio, all’identità ebraica: «”Onora tuo padre e tua madre”, il comandamento per lui sommo. Quando il nonno muore, nel diario di cui presto uscirà un’edizione scientifica, non esiterà a definirlo “il mio più grande amico”. No, non era un ebreo ortodosso, di sabato lavorava, ma andava al Tempio, faceva l’offerta, diceva le preghiere la mattina e la sera, indossando il cappello e il tallèt, il manto». 
L’attesa dela libertà, nella Balma delle streghe, è l’attesa del padre. Il suo ritorno alla vita civile, dopo la clandestinità, è l’aurora che scardina la notte, che incenerisce il colore nero. La bomba fatta esplodere sulla strada per Torino simboleggia il punto e a capo, l’addio alle armi, la speranza di veder nascere una diversa Italia. 
È grazie all’ebreo Freud che Stella Bolaffi Benuzzi è riuscita «a dare una spolverata alla Balma», all’età che forse fu nonostante tutto favolosa sotto falso nome: «Che poi lassù lo chiamassero “balma” e Freud “inconscio”, sempre di streghe si tratta e delle loro mele avvelenate» (balma che è un grosso masso, di masso in masso formando, rotolando, delle caverne…). Freud scoperto nella biblioteca della nonna materna a Acqui: «Le ore passate sulla dormeuse leggendo L’interpretazione dei sogni...». 
Perché solo adesso La Balma? «Non mi sembrava corretto, verso i pazienti, sollevare il sipario su di me quando esercitavo la professione». Sciolta la riserva, «immagino un seguito, La grotta della foca monaca, restaurando le giornate alla Capraia, quando c’era il tetro carcere, ma non la luce elettrica, assaporando le tregue, che la vita della psicologa è ardua. Nel frattempo ho voluto comporre una sorta di esercizio di ammirazione, in onore del cardinal Martini».  
Occorre, per capire, riandare alla stagione universitaria. «A quando mi laureai con Augusto Guzzo, controrelatore Benvenuto Terracini, sul’etica dei Salmi. Il Padre ha voluto scolpito sulla tomba nel Duomo milanese un salmo: “La tua parola è lampada ai miei passi / luce sul mio sentiero”. A un idem sentire ho voluto rendere omaggio». 
Carlo Maria Martini, il ponte solido, finalmente mondo di ogni incrostazione, perfidia, infamia, fra cristiani ed ebrei. Selvatica come suole narrarsi, mentalmente sempre nei boschi, per mano al comandante Laghi che le insegna a riconoscere i funghi, sorretta da una cordiale ironia, due pupille che hanno visto le streghe, Stella (in ebraico Kokhbà) Bolaffi Benuzzi posa lo sguardo sulla vera, commuovendosi: «E’ un dono di papà. Che emozione leggerne la scritta all’interno: Giulio e Mina 21 maggio 1933 – 25 iyar 5693. Era la fede di mia madre. Nell’anello è riunito in me l’amore per i miei genitori come loro avevano riunito in quelle due date ebraismo e cattolicesimo». 
 
http://www.lastampa.it/2013/09/20/cultura/cos-io-stella-ebrea-ho-beffato-le-ss-FnwbF4dwEVcKny5m1cvmXO/pagina.html

LIBERTÀ E INCONTRO
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 21 settembre 2013
Un berlinese nato con un apparato genitale femminile, sentendosi psichicamente uomo si è fatto riconoscere come tale dal Comune di Berlino. Ha partorito un bambino concepito grazie a una donazione di seme e in virtù del suo stato civile maschile ha chiesto di essere riconosciuto come padre del bambino. La richiesta di una madre biologica di farsi riconoscere come padre tocca un punto delicato di un dibattito complesso e evidenzia il rischio di una confusione dove la libertà volge nel suo contrario. Il contrasto tra il sesso biologico e la percezione psichica di esso non si offre a soluzioni ottimali. Da una parte il distacco tra la realtà corporea e quella psichica, che testimonia una perturbazione del processo di soggettivazione, tende a mascherare un disinvestimento di vario grado del rapporto erotico; dall'altra il cambiamento di sesso può arginare il rischio di una desessualizzazione completa e rimettere in movimento il desiderio (e il sogno) quando altri tipi di cura di sé non sono possibili. Non si può vivere sentendosi prigionieri del proprio corpo in nome di uno sviluppo adeguato, a volte irraggiungibile. La questione può essere inquadrata in modo appropriato pensando i limiti (che impediscono che la libertà scivoli nell'onnipotenza) alla luce della relazione di desiderio. Per quanto il godimento in entrambi i sessi è fatto della stessa materia, la sua configurazione è diversa e insatura in ognuno di essi e il suo pieno raggiungimento richiede la compenetrazione nel congiungersi tra gli amanti tra i suoi due modi differenti ma complementari di configurarsi. L'incontro erotico mette in gioco due diverse organizzazioni del desiderio, incastrandole tra di loro senza l'obbligo di una scelta eterosessuale, della presenza concreta di un uomo e di una donna sulla scena erotica. La relazione omosessuale ottiene lo stesso risultato con una convocazione psichica del sesso mancante, con un potenziamento dell'«altro» godimento che è sempre presente dentro di noi. L'identità sessuale è definita in modo aperto nel gioco delle oscillazioni che l'incontro erotico rende possibile. Essere psichicamente uomo o donna implica la capacità di coinvolgimento nella relazione erotica. La via d'ingresso a questa relazione è privata e di conseguenza lo Stato deve accettare la definizione che il singolo soggetto dà di sé, lasciando al partner potenziale la responsabilità del consenso. L'autoassegnazione del ruolo di padre è cosa diversa perché coinvolge il figlio, un altro non ancora in grado di esprimersi, ipotecando il suo diritto di configurare liberamente il genitore come figura del desiderio. Lo stato può stabilire l'identità del genitore biologico, quando questo è possibile, ma non ha l'autorità di decidere il genitore psichico di un bambino, la cui determinazione è impensabile al di fuori di un contratto privato di desiderio. La pretesa del transessuale berlinese che lo Stato predisponga normativamente la sua collocazione da parte del figlio è un attentato alla libertà di quest'ultimo perché infrange le leggi dell'incontro. La libertà ha senso solo nell'incontro, la libertà è incontro.

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Fonte: http://rassegna.wordpress.com

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