LE MANI IN PASTA
Psicologie, Psichiatrie e dintorni. Informazione, divulgazione, orientamento e anche disinformazione, errori, dabbenaggini.
La parola che cura
18 dicembre, 2013 - 16:19
Pubblico oggi una interessante riflessione dell'amico e collega Marco Focchi invitando peraltro i miei lettori a dare uno sguardo agli altri articoli dello stesso autore pubblicati sul mio blog.
La cura della parola passa attraverso il potere della parola. Una visione tradizionale della linguistica, quella saussuriana, che divide il segno tra significante e significato, porterebbe a dire che la capacità materiale del linguaggio è di significare, ovvero di comunicare, di trasmettere, di denotare.
Si tratterebbe in questo caso di una sorta di parola innocente, come l’ambasciatore che non porta pena. Ci sono gli oggetti nel mondo e il linguaggio ne veicola l’indicazione o il senso.
Il potere della parola però non riguarda una parola innocente, perché appartiene a una parola che esercita un’azione, che modifica ciò di cui parla o colui a cui si rivolge.
Il quesito è dunque: come la parola esercita il proprio potere, ovvero la propria azione? E soprattutto: come la esercita quando questa azione deve andare nel senso della cura?
In modo diverso infatti, un modello di come la parola esercita il proprio potere lo abbiamo immediatamente: è quello del comando. La parola esercita il proprio potere facendosi obbedire. Perché possa funzionare in questo senso occorrono una gerarchia, una catena di comando, e dei mezzi disciplinari per piegare la volontà di chi è tenuto all’obbedienza.
Oggi non viviamo più in una società disciplinare, ma l’esercito, il carcere, la setta sono istituzioni sempre presenti dove questa modalità di funzionamento è la regola.
La parola funziona come comando se si accompagna a una violenza possibile, e questa violenza, quest’imposizione, sappiamo che fa parte in modo essenziale della tecnica. L’efficacia della tecnica è dovuta alla violenza con cui può imporsi e modificare i processi materiali, quelli che altrimenti seguirebbero il loro corso naturale. Si tratta di una violenza necessaria a controbilanciare quella che, su un altro piano, è la violenza stessa della natura. Basta pensare a quello che gli ecologisti chiamano eufemisticamente “biomassa”, che è essenzialmente la carne degli animali da preda che entra in nel ciclo alimentare dei predatori.
Nella natura tutto funziona in una concatenazione ininterrotta di azioni e di reazioni. L’efficacia di un farmaco per esempio, per restare nel campo della cura, dipende della forza con cui può legarsi chimicamente con il recettore, e tanto maggiore è la potenza di legame che il farmaco può esercitare, tanto maggiore è la sua efficacia.
È interessante notare che in questo caso si parla di “potenza” di un farmaco, e non di “potere”, termine che resta comunque riservato all’azione della parola, e non all’interazione diretta tra sostanze.
Dobbiamo allora considerare su piani diversi l’efficacia materiale e l’efficacia della parola. I poteri della parola necessitano di una mediazione, diversamente dalla potenza di una sostanza, benefica o venefica, che agisce direttamente sull’organismo.
Un altro modo in cui la parola esercita la propria azione è l’inganno. La seduzione passa per la via dell’inganno. Può trattarsi della seduzione amorosa o della forma di persuasione che circola attraverso i mille canali della promozione commerciale, amplificati dai grandi dati messi a disposizione degli algoritmi della rete, dai siti di socializzazione, come Facebook o Google, che tutti usiamo e dai quali dobbiamo ancora imparare bene come proteggerci.
Abbiamo dunque una via dove il potere della parola è veicolato dal comando, e dove l’azione efficace implica violenza o costrizione. Abbiamo poi una via che mette in gioco la seduzione che funziona attraverso l’aggiramento o il raggiro della volontà del soggetto. Abbiamo inoltre il modello per cui l’efficacia di una sostanza si esercita attraverso l’azione materiale diretta, con l’inibizione o la sollecitazione di un recettore.
Il potere della parola, nella psicoanalisi, non passa però per nessuna di queste vie. Nella psicoanalisi il potere della parola può aver luogo solo se è sostenuto dalla traslazione, e può svilupparsi solo se viene tenuto in riserva, se non viene esercitato.
Questo paradosso prende senso se consideriamo la parola al di fuori della sua funzione comunicativa, o se non la prendiamo come parola d’ordine, e la comunicazione quotidianamente trasmessa attraverso i mezzi di comunicazione di massa è per lo più un passaggio di parole d’ordine.
La parola nella psicoanalisi passa per un’altra via, che non è quella della comunicazione, ma quella del patto, che implica la fides. È la dimensione studiata dai linguisti per cui se è il sindaco a pronunciare: “Vi dichiaro marito e moglie”, effettivamente si diventa marito e moglie. Il potere della parola, in questo caso, risulta effettivo solo se sostenuto attraverso l’autorità. Occorre ci sia una posizione di autorità costituita perché la parola funzioni non come ordine, non come inganno, ma come parola che impegna.
Questo vale per tutte le tre le professioni impossibili elencate da Freud: la politica, l’insegnamento, la psicoanalisi. C’è un’autorità che sostiene l’azione politica, c’è un’autorità che consente la trasmissione del sapere, c’è un’autorità analitica.
C’è stato un ampio dibattito sul tema dell’autorità analitica e possiamo dire che, nel nostro orientamento, l’autorità non viene dalla competenza, o da quel sapere su cui la figura dell’esperto fonda il proprio prestigio, o semplicemente la propria notorietà, che è il sapere esposto, ma viene dal sapere supposto, dalla relazione di traslazione. La parola dell’interpretazione, la parola dell’analista, ha valore se è proferita nell’ambito in cui funziona un soggetto supporto sapere.
È il motivo per cui il potere della parola in psicoanalisi rimane sempre in riserva. Non funziona infatti sulla base di un sapere esposto, come nel discorso accademico, o come nella posizione dell’esperto, ma sulla base di un sapere supposto.
La cura della parola passa attraverso il potere della parola. Una visione tradizionale della linguistica, quella saussuriana, che divide il segno tra significante e significato, porterebbe a dire che la capacità materiale del linguaggio è di significare, ovvero di comunicare, di trasmettere, di denotare.
Si tratterebbe in questo caso di una sorta di parola innocente, come l’ambasciatore che non porta pena. Ci sono gli oggetti nel mondo e il linguaggio ne veicola l’indicazione o il senso.
Il potere della parola però non riguarda una parola innocente, perché appartiene a una parola che esercita un’azione, che modifica ciò di cui parla o colui a cui si rivolge.
Il quesito è dunque: come la parola esercita il proprio potere, ovvero la propria azione? E soprattutto: come la esercita quando questa azione deve andare nel senso della cura?
In modo diverso infatti, un modello di come la parola esercita il proprio potere lo abbiamo immediatamente: è quello del comando. La parola esercita il proprio potere facendosi obbedire. Perché possa funzionare in questo senso occorrono una gerarchia, una catena di comando, e dei mezzi disciplinari per piegare la volontà di chi è tenuto all’obbedienza.
Oggi non viviamo più in una società disciplinare, ma l’esercito, il carcere, la setta sono istituzioni sempre presenti dove questa modalità di funzionamento è la regola.
La parola funziona come comando se si accompagna a una violenza possibile, e questa violenza, quest’imposizione, sappiamo che fa parte in modo essenziale della tecnica. L’efficacia della tecnica è dovuta alla violenza con cui può imporsi e modificare i processi materiali, quelli che altrimenti seguirebbero il loro corso naturale. Si tratta di una violenza necessaria a controbilanciare quella che, su un altro piano, è la violenza stessa della natura. Basta pensare a quello che gli ecologisti chiamano eufemisticamente “biomassa”, che è essenzialmente la carne degli animali da preda che entra in nel ciclo alimentare dei predatori.
Nella natura tutto funziona in una concatenazione ininterrotta di azioni e di reazioni. L’efficacia di un farmaco per esempio, per restare nel campo della cura, dipende della forza con cui può legarsi chimicamente con il recettore, e tanto maggiore è la potenza di legame che il farmaco può esercitare, tanto maggiore è la sua efficacia.
È interessante notare che in questo caso si parla di “potenza” di un farmaco, e non di “potere”, termine che resta comunque riservato all’azione della parola, e non all’interazione diretta tra sostanze.
Dobbiamo allora considerare su piani diversi l’efficacia materiale e l’efficacia della parola. I poteri della parola necessitano di una mediazione, diversamente dalla potenza di una sostanza, benefica o venefica, che agisce direttamente sull’organismo.
Un altro modo in cui la parola esercita la propria azione è l’inganno. La seduzione passa per la via dell’inganno. Può trattarsi della seduzione amorosa o della forma di persuasione che circola attraverso i mille canali della promozione commerciale, amplificati dai grandi dati messi a disposizione degli algoritmi della rete, dai siti di socializzazione, come Facebook o Google, che tutti usiamo e dai quali dobbiamo ancora imparare bene come proteggerci.
Abbiamo dunque una via dove il potere della parola è veicolato dal comando, e dove l’azione efficace implica violenza o costrizione. Abbiamo poi una via che mette in gioco la seduzione che funziona attraverso l’aggiramento o il raggiro della volontà del soggetto. Abbiamo inoltre il modello per cui l’efficacia di una sostanza si esercita attraverso l’azione materiale diretta, con l’inibizione o la sollecitazione di un recettore.
Il potere della parola, nella psicoanalisi, non passa però per nessuna di queste vie. Nella psicoanalisi il potere della parola può aver luogo solo se è sostenuto dalla traslazione, e può svilupparsi solo se viene tenuto in riserva, se non viene esercitato.
Questo paradosso prende senso se consideriamo la parola al di fuori della sua funzione comunicativa, o se non la prendiamo come parola d’ordine, e la comunicazione quotidianamente trasmessa attraverso i mezzi di comunicazione di massa è per lo più un passaggio di parole d’ordine.
La parola nella psicoanalisi passa per un’altra via, che non è quella della comunicazione, ma quella del patto, che implica la fides. È la dimensione studiata dai linguisti per cui se è il sindaco a pronunciare: “Vi dichiaro marito e moglie”, effettivamente si diventa marito e moglie. Il potere della parola, in questo caso, risulta effettivo solo se sostenuto attraverso l’autorità. Occorre ci sia una posizione di autorità costituita perché la parola funzioni non come ordine, non come inganno, ma come parola che impegna.
Questo vale per tutte le tre le professioni impossibili elencate da Freud: la politica, l’insegnamento, la psicoanalisi. C’è un’autorità che sostiene l’azione politica, c’è un’autorità che consente la trasmissione del sapere, c’è un’autorità analitica.
C’è stato un ampio dibattito sul tema dell’autorità analitica e possiamo dire che, nel nostro orientamento, l’autorità non viene dalla competenza, o da quel sapere su cui la figura dell’esperto fonda il proprio prestigio, o semplicemente la propria notorietà, che è il sapere esposto, ma viene dal sapere supposto, dalla relazione di traslazione. La parola dell’interpretazione, la parola dell’analista, ha valore se è proferita nell’ambito in cui funziona un soggetto supporto sapere.
È il motivo per cui il potere della parola in psicoanalisi rimane sempre in riserva. Non funziona infatti sulla base di un sapere esposto, come nel discorso accademico, o come nella posizione dell’esperto, ma sulla base di un sapere supposto.
È il sapere supposto a rendere credibile la parola dell’analista, e quindi a renderla efficace proprio in quanto credibile. Potremmo rivisitare tutta la fenomenologia della traslazione positiva e negativa in questa luce. La traslazione è positiva quando il soggetto supposto sapere rimane credibile. È negativa quando viene temuto l’inganno.
Come dicevano i romani: “Pacta sunt servanda”, e il legame di traslazione vacilla se si profila l’idea che il foedus possa essere fractum, se il patto può essere sentito come fedifrago.
Si tratta, nella parola come patto, di una linea di pensiero classica, che Lacan fa sua nella sua fase strutturalista. In una prospettiva meno classica, meno dipendente dal giudizio di verità o falsità che rischia sempre di essere riassorbito nella valutazione scientifica o di cadere sotto l’ombra della morale, l’etica della parola che cura è quella della parola in atto, quella che contrassegna un particolare momento d’irruzione pulsionale.
L’esempio più espressivo è una parola, “teta veleta”, con cui Pasolini indicava una parte del corpo, l’incavo del ginocchio, che l’aveva colpito e turbato quando, a tre anni, era rimasto attratto e affascinato da uno dei ragazzetti con cui giocava “È la prima parte del corpo che mi ha colpito come corpo”.
L’uso del linguaggio qui prescinde dal vero e dal falso, e quindi dal credibile.
“Teta veleta” non è una parola a cui si tratti o no di credere, perché contrassegna piuttosto qualcosa che s’impone, un flusso da cui si è investiti, un tempo di apertura della vita che travolge come una piena.
È un battito in cui la vita è non messa al vaglio dal vero o dal falso, non è sottoposta al tribunale della ragione, perché si scatena come un turbine in cui il soggetto è trascinato. Le passioni non sono vere o false, le passioni investono con la loro potenza, e le parole come “teta veleta” sono allora semplici segni sulla geografia del corpo, come mappe del tesoro per riconoscere dove la pulsione ha avuto un’eruzione, e al tempo stesso sono come dighe per contenerla, o come marche di un evento impensabile.
Se prendiamo questa prospettiva l’esperienza psicoanalitica non è allora semplicemente un percorso che insegue la verità nascosta dell’inconscio, perché si mette sulle tracce dell’inconscio piuttosto come con la pista di sassolini di Pollicino. È una pista però che non riconduce a mamma e papà, alla logica edipica, perché apre l’inconscio al di là della dimensione mitica, lo fa aderire al corpo, ne disegna la geografia, ma su una mappa che non è quella di Mercator, cioè una mappa estensiva, ma piuttosto una di quelle mappe che vediamo animate quando ci danno le previsioni del tempo, con punti freddi e caldi che si scontano e creano cicloni, zone di alta e bassa pressione da cui nascono tempeste.
Come dicevano i romani: “Pacta sunt servanda”, e il legame di traslazione vacilla se si profila l’idea che il foedus possa essere fractum, se il patto può essere sentito come fedifrago.
Si tratta, nella parola come patto, di una linea di pensiero classica, che Lacan fa sua nella sua fase strutturalista. In una prospettiva meno classica, meno dipendente dal giudizio di verità o falsità che rischia sempre di essere riassorbito nella valutazione scientifica o di cadere sotto l’ombra della morale, l’etica della parola che cura è quella della parola in atto, quella che contrassegna un particolare momento d’irruzione pulsionale.
L’esempio più espressivo è una parola, “teta veleta”, con cui Pasolini indicava una parte del corpo, l’incavo del ginocchio, che l’aveva colpito e turbato quando, a tre anni, era rimasto attratto e affascinato da uno dei ragazzetti con cui giocava “È la prima parte del corpo che mi ha colpito come corpo”.
L’uso del linguaggio qui prescinde dal vero e dal falso, e quindi dal credibile.
“Teta veleta” non è una parola a cui si tratti o no di credere, perché contrassegna piuttosto qualcosa che s’impone, un flusso da cui si è investiti, un tempo di apertura della vita che travolge come una piena.
È un battito in cui la vita è non messa al vaglio dal vero o dal falso, non è sottoposta al tribunale della ragione, perché si scatena come un turbine in cui il soggetto è trascinato. Le passioni non sono vere o false, le passioni investono con la loro potenza, e le parole come “teta veleta” sono allora semplici segni sulla geografia del corpo, come mappe del tesoro per riconoscere dove la pulsione ha avuto un’eruzione, e al tempo stesso sono come dighe per contenerla, o come marche di un evento impensabile.
Se prendiamo questa prospettiva l’esperienza psicoanalitica non è allora semplicemente un percorso che insegue la verità nascosta dell’inconscio, perché si mette sulle tracce dell’inconscio piuttosto come con la pista di sassolini di Pollicino. È una pista però che non riconduce a mamma e papà, alla logica edipica, perché apre l’inconscio al di là della dimensione mitica, lo fa aderire al corpo, ne disegna la geografia, ma su una mappa che non è quella di Mercator, cioè una mappa estensiva, ma piuttosto una di quelle mappe che vediamo animate quando ci danno le previsioni del tempo, con punti freddi e caldi che si scontano e creano cicloni, zone di alta e bassa pressione da cui nascono tempeste.
La parola che cura non è quella educata e formale, disposta secondo le leggi della metafora e della metonimia, ma quella meteorologica, pasoliniana o joyceiana, che traversa le turbolenze della vita non per pacificarne i conflitti, ma per renderli praticabili, e per canalizzarne la potenza più che per contrastarla, assentendo alla pulsione e facendo del sintomo, alla fine, un mezzo di godimento.
Letture suggerite
Il cambiamento in psicoanalisi
Il glamour della psicoanalisi
Il trucco per guarire. Prospettive per una clinica non soppressiva del sintomo
Letture suggerite
Il cambiamento in psicoanalisi
Il glamour della psicoanalisi
Il trucco per guarire. Prospettive per una clinica non soppressiva del sintomo